Capitolo 5

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Rimase letteralmente spiazzata da quella negazione. A dire il vero, si era aspettata una risposta del tutto contraria, una bugia, che l'avrebbe indotta a rimanere in silenzio. Ma in ogni caso non avrebbe insistito, non dopo quello che lui le aveva detto, e forse lo sapeva.

Distaccò per la prima volta lo sguardo da lui per darsi un'occhiata intorno. Le piante verdeggianti la riportarono per un attimo a uno scenario completamente normale, il quale era però stato invaso da quella stranezza. Solamente allora si rese conto che erano parecchi minuti che si trovava lì, sola con il suo peggior nemico. In tutto quel tempo, lui non aveva allungato un dito verso di lei, e non sembrava intenzionato a farlo.

Non aveva idea del perché rimandasse tanto, ma era convinta che volesse farle del male. Che stesse aspettando la situazione più adatta? Però erano solo loro due lì sopra, e nella scuola non erano rimasti che pochi professori. Non ci sarebbe stato un momento migliore. Era stata stupida, si era lasciata distrarre dalla situazione e si era dimenticata di tenere alta la guardia. Eppure, lui non le aveva torto un capello.

Rifletté su come era apparso onesto e docile per tutto il giorno, immagine che cozzava in maniera graffiante con il ricordo della prima volta in cui l'aveva incontrato. Era come se quel demone che aveva visto in precedenza fosse stato scacciato dalle spoglie di un angelo. Forse era esatta la congettura che aveva ideato quel giorno, forse soffriva di un disturbo mentale, e anche piuttosto grave, come quello di personalità multiple. Era una probabilità. O forse era stato semplicemente ubriaco, o sotto gli effetti di qualche droga. Quest'ultima ipotesi avrebbe potuto giustificare l'arrossamento degli occhi. Lei aveva visto di quel colore l'iride, ma poteva anche essersi sbagliata, magari nella paura del momento.

Non fece altre domande, alla fine. Decise di concedersi un po' di tempo. Forse era solo stupidità, ma effettivamente lui non si stava rivelando pericoloso. Avrebbe potuto fare come diceva: stargli lontana. E, nel frattempo, provare a capire in che genere di situazione era capitata.

«Devo tornare a casa» disse, e lui rimase impassibile.

Fece un passo a sinistra, verso il muretto che la separava dal vuoto, e inspirò l'aria che soffiava. Solo in quell'istante si accorse che nel parcheggio era rimasta un'unica automobile, che lei conosceva bene. Si sentì sbiancare. Isaac era venuto a prenderla a scuola anche se gli aveva detto di non farlo. Prese il cellulare e scoprì che l'orario di uscita era passato da ben mezz'ora, e che lui era rimasto ad aspettarla per tutto quel tempo a sua insaputa. Le aveva fatto tre chiamate e lasciato diversi messaggi, alcuni anche infastiditi, ma alla fine aveva deciso di attendere per altri dieci minuti.

«Stai bene?» le venne chiesto dallo sconosciuto. C'era una punta di interesse in quella domanda, che mai prima d'ora era stata dimostrata quando le aveva parlato. Era come se non fosse riuscito a trattenersi.

Si voltò, improvvisamente consapevole del fatto che se Isaac avesse saputo della sua presenza in quella scuola, per lui sarebbe stata la fine, e magari il suo ragazzo avrebbe anche rischiato di finire in galera pur di liberarsi di quell'assalitore, come aveva sottolineato diverse volte nelle scorse settimane.

«Sì, io... devo andare. Aspetta una decina di minuti prima di uscire» fu tutto ciò che gli disse, sperando che seguisse l'avvertimento. Forse non era saggio cercare di celare la sua apparizione agli occhi del fidanzato, ma di certo non poteva creare uno spargimento di sangue.

Si gettò sulla rampa di scale e, successivamente, nei corridoi, finché non raggiunse il parcheggio, dove creò sul proprio viso una maschera di ignara innocenza. Si sorprese negativamente di se stessa. Quando aveva imparato a mentire così? Non lo sapeva, di punto in bianco ci si era ritrovata semplicemente in mezzo, costretta a dire una bugia dopo l'altra, ma sospettava che il battito impazzito del cuore l'avrebbe fatta scoprire.

«Ehi, dove sei stata finora? Mi stavo preoccupando! L'orario di uscita è passato già da un po'» l'accolse Isaac, a metà tra il preoccupato e l'infastidito. Ormai erano mesi che stavano insieme – e si conoscevano da molto tempo prima – e riusciva a distinguere le sue emozioni anche a un chilometro di distanza. Erano amici d'infanzia, così come lo erano le loro famiglie, che ultimamente si erano un po' perse di vista per via del lavoro impegnativo di sua madre. Avevano deciso di fare coppia fissa solo l'anno precedente, quando Isaac, una delle tante sere che avevano passato a vedere un film, aveva fatto il primo passo e l'aveva baciata all'improvviso. Proprio per via dell'affetto che Althea provava per lui da sempre, non era in grado di riconoscere se l'amasse o meno, specie perché non aveva mai provato quel sentimento con nessun altro, ma le faceva piacere starci insieme e tanto bastava.

«Sono rimasta... a mostrare la scuola a un ragazzo nuovo. La prof mi ha obbligata» si inventò, in difficoltà. Non era riuscita a trovare una bugia che fosse capace di dirgli in faccia, ma aveva pensato che la parziale verità potesse andar bene comunque.

Isaac assottigliò gli occhi. Una cosa che non le piaceva di lui era la gelosia che aveva sviluppato da quando avevano iniziato a fare coppia fissa. Però sapeva che della propria metà si doveva accettare qualsiasi lato, perciò stava provando a tollerarla.

«E chi sarebbe questo? Perché proprio tu?»

Non esitò nemmeno un attimo a rispondere, tanto che ne fu sorpresa. «Si chiama Mattew. Non so chi sia e non mi interessa, ho dovuto farlo io solo perché mi era vicino di banco in prima ora» spiegò con finta aria annoiata. Aveva pronunciato un nome a caso senza nemmeno pensarci, le era venuto così naturale proteggere Alexander che non aveva idea del motivo, ma l'aveva fatto.

Alla fine, dopo uno sguardo indagatore, Isaac fece spallucce e le disse di incamminarsi, mentre lei farfugliava che non c'era bisogno che l'andasse a prendere, comunque.

Venne accompagnata a casa e dopo un casto bacio che non parve soddisfare il ragazzo i due si separarono per motivi di studio. Lui aveva l'università da frequentare e già era in ritardo; a lei aspettavano le decine di libri impilati uno sopra all'altro sul mobile in salotto. Il sottile strato di polvere su quello più alto di tutti la diceva lunga su quanto avesse poltrito negli ultimi tempi.

«Althea?» la chiamò una voce dalla cucina.

Si voltò e vide Nicole, i capelli biondi raccolti in una crocchia dalla quale alcune ciocche più corte sfuggivano, e un grembiule a quadri che le copriva la camicia azzurrina. Ora che la porta della cucina era stata aperta, il profumo di qualche dolce in forno riempì l'aria.

«Mamma! Sei tornata presto!»

La donna sorrise e lei le corse incontro per abbracciarla. Non l'aspettava prima dell'indomani, ma fortunatamente il suo viaggio di lavoro sembrava aver trovato conclusione prima del tempo.

«Ho la giornata libera, tesoro!» Glielo disse con tono complice, mentre le accarezzava i lunghi capelli dorati che le ricadevano attorno al corpo come una cascata. La guardò negli occhi nocciola, così tanto uguali ai suoi, e ci lesse dentro tutta la felicità di potersi ritrovare in famiglia anche solo per una sera.

«Oh...» mormorò in difficoltà davanti alla sua implicita proposta di passare il pomeriggio insieme.

L'entusiasmo venne leggermente attenuato. «Devi studiare, non è vero?»

Althea si morse un labbro e fece cenno di sì con la testa. Suo malgrado, se voleva ancora mantenere una speranza di superare quel test, doveva mettere mano a quei libri una volta per tutte.

Sua madre tirò le labbra in un'espressione gioviale. «Io sarò qui se hai bisogno di qualcosa. Avevo giusto voglia di una bella doccia, oggi non mi schioda nessuno da qui!»

Sorrise di rimando e annuì, poi provò a organizzarsi lo studio mentre Nicole si occupava della merenda. Non c'era mai, ma quando era a casa provava a passare più tempo possibile con la sua unica figlia in modo da sopperire la mancanza. E lei gliene fu grata.

Si risvegliò con la pioggia che picchiava forte contro la finestra della sua stanza. Emise un lungo sbadiglio mentre i suoi occhi fissavano la grigia piattezza del cielo al di fuori, senza celare una punta di preoccupazione. Era raro che piovesse a febbraio, e di solito non prometteva nulla di buono.

Sua madre aveva insistito la sera prima per una partita a Monopoly che era finita per durare ore, e lei nemmeno se ne era accorta tra la pizza per cena e i pop corn come spuntino, mentre di sottofondo le aveva accompagnate un episodio di Gilmore Girls, che ormai conoscevano a memoria.

Si alzò e si vestì di fretta, scegliendo una comoda felpa che, nonostante le alte temperature, l'avrebbe protetta dalla pioggia. Siccome quest'ultima era alquanto insistente, prese anche un asciugamano e l'ombrello prima di uscire, sperando che non le venisse strappato via dai forti venti che si prospettavano di scatenarsi insieme al temporale.

Probabilmente, vista l'intensità dell'acquazzone, avrebbe fatto meglio a chiedere un passaggio ad Isaac, ma non voleva disturbarlo dato che la sera prima si era attardato per studiare, da quanto le aveva detto. Cosa che avrei dovuto fare anche io, rifletté, ma quel pensiero le scivolò via dalla mente quando uscì di casa e venne quasi strattonata via dal vento, che subito portò con sé goccioline che trovarono dimora sui suoi jeans.

Nel momento in cui raggiunse la via principale che l'avrebbe condotta dritta a scuola era zuppa, ma i brividi che la scuotevano per il freddo passarono in secondo piano quando venne distratta da altro. Individuò una persona, coperta solamente da un cappuccio ormai fradicio di acqua piovana, che arrancava quasi zoppicando. Uno zainetto nero gli penzolava sulla schiena, retto da una sola spalla, e grazie anche ai pantaloni grigi della divisa della Hale lo identificò come proprio compagno. Nell'attimo in cui lui si fermò per controllare una cosa nella tasca dello zaino, lo riconobbe e si bloccò sul marciapiede, a pochi metri di distanza.

Non sapeva se sperare che non la vedesse o, invece, essere notata. Ma che gli avrebbe detto in quel caso? E, soprattutto, perché mai avrebbe dovuto parlargli? Le aveva palesemente ordinato di stargli lontana, e di certo lei non desiderava il contrario.

In quel momento, lui la vide. Immediatamente, smise qualsiasi cosa stesse facendo per voltarsi del tutto verso di lei. Il cappuccio gli gettava ombra sul volto serio dai lineamenti delicati ma sofferenti. Si domandò quale fosse l'origine di quelle emozioni, ma si disse che non doveva interessarle, in teoria. In pratica, invece, fece un passo avanti, lentamente, e lui rimase a osservarla da capo a piedi come se non desiderasse più smettere di guardarla.

Nel frattempo, le ciocche che gli spuntavano dal tessuto della felpa si erano infradiciate del tutto, e ora goccioline d'acqua gli colavano sul viso d'angelo quasi fossero lacrime. Con l'espressione che aveva, appariva quasi come una statua immortalata in un'eterna sofferenza.

«Althea» sussurrò dopo un po' con un filo di voce. Si mosse di poco e lei si irrigidì, ma fortunatamente parve accorgersene e non insistette oltre.

«Che c'è, mi segui ovunque ora?» Era stata la ragione a parlare, mentre il suo cuore continuava a dirle di non trattarlo in quel modo, che non lo meritava. Non riusciva a capire da cosa provenisse quella stupida constatazione, non bastavano di certo due occhi da cucciolo bastonato per intenerirla! Fortunatamente, era riuscita a scacciarla, almeno per ora.

«Fino a prova contraria, sei tu a trovarti dietro di me, quindi al massimo sei tu a seguire me» le fece notare lui. Non c'era traccia di ironia nella sua voce, e la cosa la infastidì, ma dovette ammettere che non aveva tutti i torti.

Sbuffò mentre si rendeva conto che erano ancora fermi su quella strada desolata, vittime della pioggia instancabile. Lei era sotto l'ombrello e non le importava più di tanto, ma lui... possibile che se ne stesse così esposto solo per parlare con lei?

«È meglio se ci muoviamo» ciancicò tra i denti, quasi per non farsi sentire, e si avvicinò a lui fino a coprirlo con l'ombrello in un gesto che voleva apparire casuale ma in realtà non lo era. Aveva ignorato il suo ordine, gli si era avvicinata, ma non aveva saputo negargli lo scarso riparo, visto che avrebbero dovuto percorrere quel tragitto insieme.

Lo vide irrigidirsi a tal punto che avrebbe davvero potuto giurare di trovarsi davanti una statua, se non ci avesse appena parlato. Si diede della stupida per aver fatto una proposta del genere, seppur implicita, ma alla fine lui si mosse lentamente fino a sistemarsi accanto a lei.

Il suo odore, amplificato dall'umidità che aveva addosso, la investì. Le ricordò vagamente quello che, al mare, aveva percepito provenire dalla sua pelle, ma più attenuato, più fresco. Questo parziale cambiamento le diede la forza di non ricadere nei ricordi di quel giorno.

Si perse in quel profumo mentre lo guardava di striscio; il suo petto non si alzava e abbassava come quello di una persona normale, ed era sicura che non stesse respirando, quasi fosse troppo agitato per permetterselo. Perché si comportava così? Era lei a dover essere la più tesa tra loro due, non il contrario!

Ricominciarono a camminare, ma dopo qualche passo la mancanza di una conversazione si fece eccessivamente assordante, e lei non riuscì a contenere tutte le domande che rischiavano di farle esplodere la testa.

«Cosa vuoi da me, Alexander?» chiese a bruciapelo. Nonostante l'avvertimento del giorno precedente, lui non poteva essere comparso così per caso, c'era per forza un motivo. Non era forse meglio che ne parlassero e contrattassero come due persone adulte e con cervello, anziché continuare a rimandare?

«Xander» fece lui, serafico.

Alzò un sopracciglio. «Come, prego?»

Si schiarì la voce e la seguente sentenza riuscì a pronunciarla con tono normale, seppur piatto. «Nessuno usa mai il mio nome per intero, non sono abituato.»

Quindi aveva degli amici, i quali probabilmente lo chiamavano così. Se li aveva non era totalmente uno psicopatico, no? O forse stai solo cercando di giustificarlo, fece una vocina impertinente nella sua mente.

«D'accordo, Xander» disse, sottolineando quel diminutivo che si sentiva idiota a usare. Non erano amici e dopo ciò che era accaduto come avrebbero potuto esserlo? «Non è un caso se sei il mio vicino di banco, o anche solo se sei qui ora. Perciò, cos'è che vuoi da me?»

Lui alzò lo sguardo verso il cielo e i capelli gli coprirono gli occhi cupi. «Non è un caso, dici... Se non lo è, allora deve essere un grande scherzo del destino» disse con tono amaro mentre si portava le mani affusolate nelle tasche della felpa.

Lei lo trafisse con un'occhiata penetrante, cercando indizi che potessero dirle più di quanto non avesse fatto lui, ma non trovò nulla; sembrava solo un ragazzo come tutti gli altri, più cupo della media, quello sì, ma comunque normale. Era il ricordo che ne aveva a non esserlo, quello in cui perdeva sangue viscoso e scuro, che formava una pozza ai suoi piedi, e nel quale aveva le iridi a metà tra il rosso e il violaceo.

Il suo sguardo si focalizzò nel punto in cui Isaac lo aveva ferito. Era impossibile giudicare le sue condizioni, ma notò ancora una volta che zoppicava, come se gli venisse difficile camminare. E lei sapeva bene il perché.

«Ti... ti fa ancora male?» chiese.

Lui dovette solo seguire i suoi occhi per capire a cosa si stesse riferendo. Un lungo silenzio seguì quella domanda, forse sperava di non riceverne una simile.

«Cosa? Di cosa parli?» tentò, ma fare il finto tonto non avrebbe funzionato con lei. E anche cercare di aggirare l'argomento di quel giorno al mare. Poteva provarci quanto voleva, ma prima o poi avrebbe dovuto darle delle spiegazioni, volente o nolente.

«Guarda che ho visto con i miei occhi cos'è successo. Ho passato due settimane senza sapere cosa pensare al riguardo» rivelò.

Lo sguardo di lui rimase fisso su un punto indeterminato all'orizzonte mentre continuavano ad avanzare. Tentò di zoppicare il meno possibile, ma ormai era tardi e lei l'aveva notato più di una volta. Inutile continuare a nasconderglielo.

«Se vuoi saperlo» proruppe all'improvviso, facendola sobbalzare, «io ne sono stato sollevato. Se non lo avesse fatto, adesso...» si interruppe di colpo, e lei evitò di chiedergli delucidazioni. Ricordava perfettamente ciò che le aveva detto il giorno precedente, ovvero che non si sarebbe fermato se non fosse stato interrotto. Ma per quale motivo, accidenti?

Quel ragazzo era un mistero vivente, un enigma catapultato nella sua vita di punto in bianco e senza che avesse il tempo per prepararsene. Ma lei non era una che fuggiva davanti alle difficoltà, ed era ben determinata a venire a capo di tutta quella situazione. Se lui non voleva parlare, lei avrebbe risolto da sola quell'indovinello. Le serviva solo tempo, sapeva che con il tempo avrebbe capito. Ogni cosa.

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