18. The lonely - Parte III

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Nella foto: Isabella Ferraro


Quando fu arrivata a casa, Aurora si diresse spedita in bagno e vi si chiuse. Non voleva che i suoi familiari la vedessero in quello stato, si sarebbero solo preoccupati ancora di più.

Non appena suo fratello sentì il rumore della chiave nella serratura, si alzò da tavola e si diresse nell'ingresso per accertarsi che lei stesse bene, ma vide a malapena la sagoma di Aurora dall'altra parte del corridoio infilarsi in bagno e chiudersi la porta alle spalle.

La ragazza rimase lì dentro per un'ora, rannicchiata sul pavimento, con la schiena poggiata alla vasca da bagno e ancora indosso tutti i vestiti zuppi d'acqua, continuando a chiedersi come avesse fatto a sbagliarsi così tanto sul conto di un ragazzo.

Ancora una volta.

E si sentì profondamente stupida e ingenua.

Stupida per essersi fidata di qualcuno che conosceva solo da poche settimane, una persona di cui sapeva così poco da poterlo chiamare tranquillamente "estraneo".

Ingenua per essersi illusa di potersi lasciare il passato alle spalle e ricominciare a vivere ancora una volta.

Ciascun membro della famiglia provò a bussare e a farsi aprire, prima sua madre, poi suo padre, Isabella, e in ultimo Falco. Ripeté a tutti che stava bene, che non era successo niente, e che aveva solo bisogno di stare un po' da sola.

Ma suo fratello non demorse. E quando dichiarò che sarebbe rimasto tutta la notte dietro la porta del bagno fino a quando lei non fosse uscita, allora Aurora si arrese e fece girare la chiave nella toppa.

Pochi attimi dopo Falco entrò nella stanza, e quando la vide con i vestiti incollati al corpo, i capelli grondanti acqua e le guance rigate di lacrime, si precipitò accanto a lei, sul pavimento, e la strinse a sé.

A quel punto Aurora si lasciò andare, nascose la faccia sul petto di Falco e pianse tutte le lacrime che non aveva versato nell'ultimo anno.

Pianse per il dolore che aveva provato quando si era risvegliata dal coma, per tutte le volte che avrebbe voluto ancora suonare e non avrebbe potuto farlo, per quella volta in cui aveva accarezzato i tasti del pianoforte senza sapere che sarebbe stata l'ultima, per quel ragazzo che aveva conosciuto a scuola, che l'aveva fatta innamorare e che ora in un certo senso non c'era più, consumato dall'alcol e dalla droga.

Pianse per tutto quello che aveva perduto e che solo il giorno prima aveva sperato di poter ritrovare tra le braccia di Marco.

Ma ancora una volta si ritrovava sola, a piangere lacrime che aveva giurato a sé stessa non avrebbe mai più versato.

Quando finalmente riuscì a calmarsi, Isabella li raggiunse, prese il posto di Falco e la aiutò a spogliarsi e farsi una doccia veloce, per lavar via l'umidità della pioggia e le lacrime. Poi si trasferirono nella loro camera, e mentre Aurora se ne stava accovacciata ai piedi del suo letto, sua sorella le asciugò i lunghi capelli corvini, spazzolandoli con cura, restituendole così un po' di calore e un aspetto più umano e ordinato.

Nonostante Isabella fosse la piccola di casa, in quell'ultimo anno era stata costretta a crescere, ad affrontare grandi cambiamenti, a doversi rendere indipendente e a volte ad occuparsi di sua sorella maggiore.

Da quando Aurora era rimasta coinvolta nell'incidente, l'attenzione dei loro genitori era stata quasi tutta per lei, e Isabella lo aveva compreso e accettato di buon grado.

Mentre passava le dita tra i capelli bagnati di sua sorella, la mente della ragazza viaggiò indietro nel tempo, tornando a quel giorno di un anno prima, quando era entrata per la prima volta nel reparto rianimazione.

Era passata una settimana da quella sfortunata notte e sua sorella era ancora in coma. Solo pochi giorni prima aveva subito una complessa operazione che aveva costretto i medici a tenerla sedata, in attesa che l'ematoma al cervello si riducesse.

Sua madre non voleva che lei entrasse in quel reparto, temeva che potesse rimanerne traumatizzata.

Ma a lei non interessava. Voleva entrare per poter vedere sua sorella e poterle parlare, nonostante fosse perfettamente consapevole che la maggiore non poteva risponderle.

Sapeva che quel pensiero era stupido e infantile, ma voleva assicurarsi che fosse ancora tutta intera, voleva poterla toccare, osservare l'aria fluire attraverso i suoi polmoni e gonfiarle il petto in un movimento indicatore che Aurora era ancora lì con loro, silente, ma viva.

Eppure quando mise piede in quella stanza bianca e asettica, bardata dalla testa ai piedi per non contaminare la sterilità del reparto, Isabella si rese conto di non essere minimamente preparata a ciò a cui si trovò dinanzi.

Non era la camera piccola e confortevole che si aspettava, ma uno stanzone grande con sei letti, tre per ogni lato, ciascuno circondato da numerosi macchinari dagli schermi illuminati che emettevano suoni intermittenti. Ogni posto era occupato da un paziente, collegato a queste macchine tramite tubi e fili di ogni colore.

Isabella si guardò intorno e si sentì smarrita.

Era partita da casa con le migliori intenzioni, pronta ad affrontare con coraggio e determinazione qualsiasi scenario le si fosse presentato.

Ma ritrovarsi al centro di quella stanza, circondata da tutta quella silenziosa sofferenza, la fece sentire una vagabonda persa nella notte più buia e tempestosa, incapace di ritrovare la strada maestra.

Isabella rimase diversi minuti immobile, impalata in mezzo a tutti quei letti, totalmente disorientata. Continuava a far vagare il suo sguardo da un viso ad un altro, alla disperata ricerca dei tratti familiari di Aurora, così simili ai suoi. Ma con tutti quei tubi, le cuffiette a nascondere i capelli, la montagna di fili che circondava ciascun malato e il bianco accecante delle pareti a disorientarla, le parve quasi impossibile riconoscere sua sorella.

Fu un'infermiera bassina, sulla trentina, ad accorrere in suo soccorso.

«Cara, chi è il tuo parente?» le chiese la donna con fare gentile, poggiandole una mano sul braccio per darle rassicurazione e muto conforto.

«Sto cercando... mia sorella... Aurora... Lei è... Non la trovo...» balbettò Isabella, in evidente stato di shock.

«Ferraro, giusto? Vieni, è il primo letto a sinistra» rispose l'infermiera, guidandola verso la postazione occupata da Aurora.

E quando Isabella fu davanti al suo letto, non poté credere ai suoi occhi.

Aurora era irriconoscibile.

Il volto, solitamente con le gote rosee in netto contrasto con la pelle color dell'alabastro, si era trasformato in una maschera dalle sfumature violacee, segnata da profondi graffi su cui si erano formate delle spesse croste rosso scuro, evidentemente causati dai vetri del parabrezza andato in frantumi.

Il braccio sinistro era ingessato e posto in posizione rialzata grazie ad un cuscino.

E dal colletto del camice che avvolgeva il corpo tumefatto di Aurora, la ragazza vide sbucare una grande benda che ricopriva parte del collo e la nuca, dalla quale i dottori avevano rimosso delle ciocche di capelli per poter intervenire sull'ematoma.

Isabella rimase a lungo a fissarla, sforzandosi di riconoscere in quella sagoma dormiente la ragazza vitale e allegra che ricordava da sempre; eppure nulla in lei le sembrava più familiare, come se la persona dinanzi alla quale si trovava fosse un'estranea capitata lì per uno stupido sbaglio.

Fu allora che si rese conto che parlarle sarebbe stato impossibile, almeno quel giorno.

Cosa avrebbe potuto raccontare alla sconosciuta che sembrava aver assunto l'identità di sua sorella?

I suoi genitori si erano raccomandati con lei di dire solo cose positive, messaggi che avrebbero potuto stimolare Aurora a combattere, ad avere voglia di tornare ancora a vivere.

Ma stando lì, ai piedi di quel letto, con il bip dei macchinari che le risuonava nel cervello, Isabella sentì di non poter mentire.

Ogni parola di speranza e conforto sarebbe stata una bugia pronunciata dalle sue labbra.

Come avrebbe potuto incitarla a svegliarsi e raccontarle che sarebbe andato tutto bene, se non lo pensava neppure lei? Come avrebbe fatto Aurora ad essere la stessa dopo tutto quello?

Ma più di tutto, cosa sarebbe successo se l'avesse spronata ad aprire gli occhi e lei poi non lo avesse fatto?

In quel momento Isabella si sentì soffocare, schiacciata tra la possibilità di riabbracciare una persona che sarebbe stata solo il fantasma di sua sorella, e l'idea di non vederla sorridere mai più.

Così la ragazza decise di non dire nulla, limitandosi a posare un delicato bacio sulla guancia livida e segnata di Aurora, sperando che quel caldo contatto potesse giungere sino a lei, ovunque la sua coscienza si fosse trovata in quel momento.

Fu un movimento di Aurora a ridestare Isabella dai suoi pensieri.

Ci vollero altri dieci minuti perché i capelli corvini di sua sorella fossero completamente asciutti.

Poi l'aiutò ad alzarsi e a mettersi sotto le coperte, dove Aurora si addormentò nel giro di pochi minuti, esausta dopo una giornata che le era sembrata interminabile.

* * *

Quando Aurora si svegliò nel cuore della notte, urlando in preda agli incubi, impiegò qualche secondo a rendersi conto che suo fratello la stava scuotendo e cercava di rassicurarla con parole che lei non riusciva a capire. Era come se il suo corpo si fosse risvegliato dal sonno ma la sua mente fosse ancora lì, intrappolata in un brutto sogno senza fine.

Continuava a sentire la voce di Leonardo che le ripeteva che stava bene, che ce la poteva fare a riportarla a casa, che doveva fidarsi di lui, ma poi, quando si voltava a guardarlo, si ritrovava di fronte il volto di Marco, con gli occhi verdi proprio come quelli di Leonardo. E alla fine sempre quel rumore assordante che le rimbombava nella testa e riverberava in ogni osso del suo corpo.

Le ci vollero diversi minuti per riprendere il controllo e tornare alla realtà.

E quando lo fece, la luce nella sua camera era accesa e la sua famiglia era riunita intorno al suo letto. Avevano tutti un'espressione preoccupata e continuavano a chiederle cosa fosse successo e se stesse bene.

Aurora non sapeva cosa rispondere.

Stava bene? La risposta era decisamente no. Ma come avrebbe potuto spiegarlo a loro? Aveva tenuto duro per mesi, mostrandosi forte in ogni circostanza e senza versare una sola lacrima. E poi era bastato un giorno, solo un giorno per farla andare in pezzi una volta per tutte.

Poteva quasi vederli, lì, davanti ai suoi occhi, i mille frammenti in cui si era sgretolata la sua anima. Erano sparsi ovunque e le persone che le stavano intorno li stavano calpestando, senza neanche saperlo.

Erano lì, che spostavano il peso da un piede all'altro, con le facce preoccupate, impazienti di sapere cosa le stesse succedendo, e continuavano a schiacciare le minuscole briciole che una volta avevano fatto parte di lei e che da mille stavano diventando un miliardo, rendendole impossibile l'impresa di rimettere insieme i cocci.

Nessuno avrebbe potuto rimettere insieme quel vaso, nessuno avrebbe potuto salvarla stavolta. Così si girò su un fianco, verso il muro, per nascondersi ai loro sguardi indagatori.

«Mi dispiace avervi svegliato, è stato solo un incubo. Tornate a dormire, io sto bene» disse con voce monocorde, inespressiva.

Sua madre le accarezzo la testa con un gesto delicato, quasi avesse paura di farle del male con il suo tocco.

«Aurora, sei sicura di star bene? Se hai qualche problema puoi parlarne con noi, lo sai, siamo tutti qui per te tesoro...»

«Sto bene mamma, ve l'ho già detto. Ho solo bisogno di riposare ora» concluse Aurora, con un tono che non ammetteva repliche.

Così la sua famiglia si arrese e un po' alla volta tornarono ciascuno nel proprio letto.

Aurora trascorse il resto della notte sveglia, terrorizzata dalla possibilità di ripiombare in quell'incubo che la intrappolava in un loop, costringendola a rivivere il momento dell'incidente ancora e ancora.

La mattina successiva rimase a letto fino a poco prima di uscire di casa, saltando la colazione e chiedendo a sua madre di accompagnarla all'università.

Aveva lasciato il cellulare nel primo cassetto della sua scrivania, spento, e prima di scendere dall'auto aveva finto di averlo dimenticato a casa. Non voleva essere rintracciata, o questo era quello che raccontava a sé stessa. Ma nel profondo sapeva che semplicemente non voleva trascorrere la giornata a guardare lo schermo spento e a chiedersi perché Marco non la contattasse.

Passarono così anche i due giorni successivi, pieni di lezioni e di studio, e senza notizie di Marco. Nessun contatto, nessun messaggio, nessuna telefonata.

Eleonora, dopo quel martedì, non le aveva chiesto più niente. Sapeva perfettamente che se Aurora avesse avuto novità sul fronte Marco, gliele avrebbe raccontate di sua spontanea volontà, senza bisogno che lei facesse domande.

E quando arrivò il sabato mattina, Aurora fu grata di non dover uscire di casa e avere contatti con il mondo esterno. Non desiderava altro che rimanere nella sua camera e impiegare tutte le sue energie nello studio, l'unica cosa che in quel momento andava per il verso giusto.

Il giorno dopo la sua crisi, Falco aveva provato a chiederle cosa fosse successo, ma lei aveva accuratamente evitato di dire qualsiasi cosa che avesse potuto fargli anche solo immaginare quello che era veramente accaduto.

Non voleva in alcun modo che suo fratello sapesse che un ragazzo le aveva spezzato il cuore e incasinato la vita, ancora una volta.

Preferì tenersi tutto per sé e continuare a negare che stesse soffrendo. In fondo lo sapeva bene che era più semplice così, per tutti. E così trascorse il fine settimana immersa in equazioni, dimostrazioni e numeri.

Era quello che amava di più della fisica. Ogni cosa in natura, dall'oggetto più grande alla particella più piccola, era regolato da leggi e ad esse era assoggettato. A volte le leggi non erano note, erano necessari diversi esperimenti e anni di studio per poter spiegare un fenomeno, ma ogni cosa, presto o tardi, trovava il suo posto all'interno del complesso schema delle leggi di natura.

E questa era una certezza, un punto fermo a cui Aurora si aggrappava con confortante soddisfazione, nel tentativo di non annegare nel caotico mare in cui la sua vita si era irreversibilmente trasformata.

Senza più la musica a farle da timoniere, la fisica era l'ultimo baluardo di speranza per rimanere lucida e padrona di sé, e non dare di matto.

E Aurora era convinta che le sarebbe bastato, almeno fino a quel sabato sera.

Cari amici e lettori, eccoci giunti alla fine di questo capitolo :)

In quest'ultima parte ho voluto dedicare un po' di spazio ad Isabella, un personaggio che fino a qui era stato solo una mera comparsa.

Vi è piaciuta? :)

Come sempre un GRAZIE ENORME  a tutti coloro che leggono, commentano e votano la mia storia  ❤ 

E' una gioia per me sapere che anche solo una persona lì fuori ama quello che scrivo ❤ 

Vi abbraccio tutti ❤ 

Sempre vostra ❤ 

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