5 | Sono Ryan

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CAPITOLO 5
Sono Ryan


Sono le quattro di pomeriggio, il mio turno inizierà fra venti minuti perciò mi sbrigo rapidamente per raggiungere il Pink Ocean.
Ieri notte sono rimasta a dormire come al solito a casa di Nicholas e adesso che ci penso forse dovrei spolverare un po' il mio monolocale in cui ultimamente ci entro solo per prendere delle cose che mi servono e che lascio in giro per l'appartamento di Nick tanto che i miei vestiti ormai hanno un luogo fisso sulla lavatrice e la poltrona in stanza da letto. Mi sono perfino guadagnata tre posti nel suo armadio, dove i vestiti sono rigorosamente stirati e piegati, ovviamente non da me, ci mancherebbe. Il massimo che so fare è buttarli in lavatrice e smollare il doppio della dose di detergente per panni, tanto che Nick mi ha categoricamente vietato di fare anche solo un bucato, perché gli riempio sempre il bagno di acqua e schiuma.

Non è colpa mia. Insomma, lo è in parte ma non del tutto. È lui ad avere una lavatrice strana che non funziona come la mia... credo. Sì, forse è questo.

Per quanto riguarda invece i vestiti buttati sulla sua poltrona, quelli gli ho detto di non toccare altrimenti gli avrei tagliato le mani col suo coltello da cucina giapponese.
Voglio le pieghe. Già, proprio così. I vestiti stirati sono belli, ma io sulle magliette voglio le mie cavolo di pieghe che possano darmi un aspetto da vissuto, che raccontino qualcosa tipo che nonostante tutto ho ancora una identità. Io non sono una maniaca del controllo e se Nick non la pianta di rubarmi i vestiti e stirarli di nascosto giuro che raggiungo la stazione di Polizia e gli buco le ruote dell'auto di pattuglia.

Almeno ha cambiato le pastiglie dei freni, ma credo che adesso si sia rotta la centralina perché quel rottame fa dei strani rumori ogni volta che preme il piede sull'acceleratore.

E la mia moto è rimasta parcheggiata davanti il Pink Ocean, perché si dà il caso che abbia avuto un passaggio dal suo SUV e ora devo farmi i quindici minuti a piedi fino al mio posto di lavoro. Non è un problema, non quando ho le cuffie alle orecchie, la musica sparata a palla che mi trapana il cranio e la mia chewing-gum al gusto fragola che mastico facendo di tanto in tanto bolle che faccio scoppiare rischiando di farle finire sul naso, soffocarmi e morire stecchita sul marciapiede.

Quantomeno non fa freddo, anzi. Oggi la temperatura è più alta del solito tanto che sono solo in felpa col cappuccio di Rick e Morty, le maniche tirate in su e i pantaloncini fino alle ginocchia e... quella macchina che ho alle spalle e che sfreccia accanto a me l'ho vista fare il giro dell'isolato ben due volte, questa è la terza.

Continuo a camminare indisturbata, canticchio i versi della canzone saltellando di tanto in tanto e poi a una decina di metri dal Pink Ocean, giro l'angolo, torno indietro passando dietro agli edifici residenziali e poi la vedo di nuovo. La macchina.

Grigia, piccola, sembra una di quelle a piccola cilindrata alimentata a diesel che è più silenziosa delle altre in circolazione. La vedo passare nuovamente sulla strada che porta al mio monolocale, rallenta gradualmente e io riduco gli occhi in due fessure osservando la scena da dietro l'angolo.

C'è qualcosa che non va.
Le opzioni sono due: chiunque sia alla guida si è perso e non riesce a trovare il numero residenziale di una casa oppure...

Tiro su il cappuccio, abbasso le maniche, tiro via gli auricolari col cavo e mi avvicino a passo felpato provando a non farmi scorgere attraverso gli specchietti retrovisori. Avanzo ancora col cuore fermo, il respiro controllato e la mascella serrata.

Uno, due, tre passi. La macchina si ferma completamente a due metri prima dell'entrata del Pink Ocean, dietro una macchina bianca. Poco più avanti c'è l'Audi di Ethan, infilata tra le macchine invece la mia Kawasaki verde e sgargiante.

Mi accovaccio sulle ginocchia, striscio accanto lo sportello del portabagagli, apro lo sportello dietro a quello del guidatore e lo chiudo. Furtiva allargo il laccio degli auricolari tra le mani, lo passo davanti, preme sulla sua gola e stringo, tirandolo verso di me con uno strattone.

«Dimmi subito chi sei e perché mi stai seguendo» ordino senza battere ciglio.
Lui, invece, prova ad aprire lo sportello, probabilmente per scendere, scappare magari oppure urlare aiuto, ma non accadrà.
«Fossi in te non lo farei» lo strozzo di più con gli auricolari facendo schioccare una bocca con la gomma da masticare e do un'occhiata in giro, a controllare che non passi nessuno a cui lui potrebbe fare qualunque segno che possa farlo avvicinare per aiutarlo. Non accadrà nemmeno questo.

«Rispondi alla domanda. Chi sei e perché mi stai seguendo.»

«Sono Ryan!» esclama tutto d'un tratto.
Il mio sesto senso da pazza omicida in procinto di prendere a martellate sulle palle il mio stalker si attenua come di conseguenza.
Aggrotto la fronte.
«Il ragazzo di Ethan?» chiedo confusa.
«Ethan, chi?» replica lui.
«Che stai facendo?» chiedo invece io riferendomi al motivo per cui è qui.

«Niente, n-non sto facendo niente» dice con le mani alzate.

«Abbassa le mani. Ti sto solo strangolando, non ti sto mica puntando una pistola contro» gli faccio ben notare. Dove crede di trovarsi? In una puntata di NCIS?

«Chi sei?» chiedo di nuovo iniziando sul serio a scocciarmi.
«Sono Ryan» ripete.
«Che ci fai qui, Ryan?» chiedo quindi ispirando profondamente.
«La mia auto?» fa confuso.
«No, qui, in questo posto. Che ci fai qui e perché mi stai pedinando?»

«Servo il mio Signore.»

Rimango perplessa per un istante.
«Gesù?»

«Cosa?»

«Quale Signore segui? Gesù o Satana? Sei seguace di una qualche setta religiosa? Che diavolo volete da me? Volete rapirmi e sacrificarmi? E non dirmi stronzate o ti stacco via la testa e poi cercherò gli altri del tuo piccolo fanclub di fanatici del cavolo e vi sterminerò uno ad uno come delle fastidiose e ripugnanti cimici» stringo di più il laccio degli auricolari strozzandolo.

«C-cosa? Io... no! Lavoro per una redazione giornalistica!» confessa di botto.

Corruccio la fronte e allento subito la stretta.
«Aspetta, come?»

«Sì, sono... sono Ryan Zimmermann e lavoro per una redazione giornalistica, tutto qui. Il Signor Minnick mi ha chiesto di... - si ferma di getto - Oh, beh, non credo sia tanto legale quello che mi ha chiesto» conclude con fare pensieroso. Faccio schioccare un'altra bolla con la gomma da masticare e tiro un altro profondo respiro.

«Ryan, vuoi per caso finire in prigione?» chiedo cortesemente.

«Oh, no, certo che no, ecco io devo badare alla mia nonnina, le porto sempre i suoi biscotti preferiti alla cannella, lei sta alla casa di riposo e mamma fa due lavori, non riesce mai ad andare a trovarla e... e poi l'anno prossimo c'è il ballo scolastico e vorrei andare, si... beh, vorrei andarci con Patty, l-lei è molto carina e l'ho invitata, cioè non ancora ma vorrei invitarla e spero che dica sì e-»

«Aspetta, ma quanti anni hai?» chiedo stranita.

Silenzio. «Diciassette...? In realtà sedici ma ne compirò diciassette fra due settimane.»

Tolgo immediatamente i lacci e con movimenti acrobatici mi rotolo finché non passo sul sedile del passeggero e lo guardo finalmente in viso come si deve. Sì, è un ragazzino. Carnagione olivastra, occhi marroni, capelli folti e ricci dello stesso colore delle iridi.
«I tuoi genitori sanno quello che stai combinando?» alzo un sopracciglio.

Lui scuote frettolosamente la testa.
«E... n-no, cioè solo mia mamma... mio padre non c'è...»
Silenzio. Lo analizzo e... sembra veramente un ragazzino e nient'altro.

«Se non mi dici il motivo esatto per cui mi pedinavi, ti trascino alla stazione di Polizia con l'accusa di stalkering e faccio venire tua madre. Hai detto che fa due lavori, no? Non credo le piacerà molto essere telefonata dalla polizia perché tu vai in giro a pedinare le persone» minaccio con un piccolo sorriso.

Ryan sbarra gli occhi.
«Io... no, cioè, ti pregherei se... se tu potessi di non farlo... è solo che il mio capo, cioè il signor Minnick, mi ha detto di fare questo e non vorrei deluderlo. Mi occupo del giornalino della scuola e sto facendo un tirocinio per dei crediti extra per il college e... e il signor Minnick ha detto che lui non può mandare nessun altro e che se l'avessi fatto mi avrebbe dato duecento dollari e anche una scrivania in ufficio e... e avrei potuto finalmente scrivere un articolo e pubblicarlo con il mio nome, nessuno l'ha mai fatto, non di un liceo e io potrei essere il primo in assoluto e-»

«Ryan fa' silenzio ora» ordino.
Ho sentito abbastanza.
Lui si interrompe di getto, annuisce e mi guarda non sapendo che altro dire mentre io penso a cosa farmene di lui, del suo ridicolo giornalino della scuola e di questo signor Minnick che sembra un antagonista di Sailor Moon.

Qualcuno bussa al mio finestrino, distogliendomi l'attenzione, quindi mi volto e trovo Ethan. Lo abbasso.
«Che ci fai qui dentro e perché non sei a lavoro? Sono il tuo miglior amico del cuore e ti amo follemente perché sei la mia streghetta, ma sono anche il tuo capo adesso, quindi fila subito a lavoro!» fa stizzito in un modo a dir poco assurdo. Forse perché la sua personalità stravagante non sta per niente bene se affiancata a quella autoritaria. Dà l'idea di un pazzo squilibrato con un allevamento di gatti in casa.

«Sto parlando con Ryan» dico.
Lui spalanca gli occhi.
«È tornato?» squittisce indignato. «Come osa presentarsi qui?! Quel verme insensibile? Dov'è? Adesso lo trascino in strada e gli ficco un palo della luce su per il-» sparisce, lo sento borbottare e apre lo sportello del conducente, afferrando per il colletto il ragazzino pronto per tirarlo fuori dalla auto e fargli... cose con il palo della luce.

«Lurido Spacca Cuori, come osi presentarti qui e... aspetta, ma tu chi sei?» si ferma di getto non appena vede la sua faccia.

«Sono Ryan» risponde il ragazzino con un sorrisino nervoso e terrorizzato.
«È Ryan» replico io indicandolo tranquillamente.

Ethan aggrotta la fronte.
«Ryan, chi?» chiede confuso e poi sposta gli occhi su di me. «Che ci fai con questo Ryan? Se volevi picchiare quel verme hai preso il Ryan sbagliato. Questo non è il mio Ryan!»

Faccio una smorfia.
«Perché dovrei picchiare il tuo Ryan?» sbatto le ciglia mentre Ryan ci sta fissando spostando la testa da destra a sinistra.

«Per rivendicare il mio onore?» sbatte le ciglia con fare ovvio. «La mia dignità scalfita? Il mio nome di famiglia devastato dalla insolenza di Ryan? Non è così che funziona? Tu e lui in campo aperto e chi spara per primo l'altro vince la battaglia!»

«Viviamo nel ventunesimo secolo e tu non hai un nome di famiglia dell'alta borghesia ottocentesca, non sei nemmeno una femmina! Con le femmine veniva fatta questa cosa!» replico esasperata.

«Ascolto Britney Spears!» replica lui indignato.

«E allora? Piantala di fare il token della situazione. Solo perché sei gay questo non fa di te la tua intera personalità. Sembri il personaggio mentecatto di una serie TV Netflix. Io ascolto le canzoni neofasciste per addormentarmi, e allora? Non sono mica nazista!»

«Tu fai cosa?» chiede accigliato.
Ryan ci fissa stranito mentre Ethan ha ancora le mani strette alla sua polo blu di cotone, sotto la camicia bianca.

«Sono ben ritmate tipo marcia militare e sembrano dei rumori bianchi, come l'aspirapolvere ma non posso accedere l'aspirapolvere e tenerla vicino al letto per tutta la notte, ho degli inquilini al piano superiore!»

«Hitler sterminava i gay e io sono gay!»

«Hitler lo faceva anche con gli ebrei e mio nonno italiano era metà ebreo e viveva in Polonia, e durante l'occupazione dei nazisti è scappato in Svizzera e mia mamma faceva di cognome Ravenna. Perciò sono per una piccola porzione ebrea, ma le canzoni neofasciste sono ben ritmate, non è colpa mia!»

«Tu sei ebrea?» è sconvolto.

«Shalom aleichem!» esclamo scuotendo la testa.

«Sei una falsa ebrea» schiocca la lingua contro il palato rifilandomi uno sguardo disgustato. «È come se io essendo gay andassi alle riunioni dei nuovi gruppetti illegali dei Ku Klux Klan in Tennessee solo perché i loro cappucci bianchi profumano di ammorbidente alla vaniglia.»

Aspetta, cosa?
Corruccio la fronte.
«Come fai a sapere che ammorbidente usano?» sbatto le ciglia confusa e gli mollo un'occhiata indagatrice.

«Scusate... ma se non avete il Ryan che volete, questo significa che verrò picchiato io?»

«Sta' zitto Ryan!» ordiniamo all'unisono io ed Ethan.

«Sei una falsa ebrea che ascolta musica fatta da tedeschi nazisti, vergogna» riprende parola Ethan e io lo lincio con la mia vista laser inesistente.

«Io sono tedesco, ma non nazist-»

«Sta' zitto Ryan!» urliamo di nuovo verso di lui.

Ethan e io ci guardiamo per alcuni istanti, poi lui molla finalmente Ryan, chiude lo sportello, va a quello posteriore dove prima c'ero io e sale in auto dietro al ragazzino.

«Che stai facendo?» chiedo stranita. Lui si trascina in mezzo ai sedili posteriori. «Non hai detto che dobbiamo lavorare e che tu sei il mio capo?»

«Chi è questo Ryan e perché sembra minorenne? Sei una pedofila?» chiede invece e sbatte le ciglia incredulo. Lo guardo di traverso.

«Ma ti pare?» ironizzo e guardo Ryan, Ethan fa lo stesso e il ragazzino ci guarda con la coda dell'occhio.

«Chi è il signor Minnick e perché ti ha chiesto di pedinarmi?» chiedo finalmente esausta da questo scambio strano di battute. Ethan sbarra gli occhi verso di me e poi guarda Ryan.

«Sei il galoppino di un capo mafioso? Lui com'è? Sexy come Michele Morrone

Quasi non mi strozzo con l'aria.
Mi giro verso Ethan con una faccia da pesce lesso.
«Esci subito via da qui» ordino ma lui non accenna movimento. «Ora.»

Ethan alla fine cede, sbuffa come un bambino a cui è stato detto di no al pacchetto di caramelle perché non fa bene ai denti e se ne va borbottando qualcosa come "Non mi lasci mai trovare la mia anima gemella!"

Sospiro pesantemente, faccio per tornare da Ryan ma sento di nuovo qualcuno bussare al finestrino. Lo abbasso per la seconda volta.
«Se il tuo capo è sexy, mi dai il suo numero? Ti do cinquanta dollari» Ethan si ripresenta e guarda Ryan.

«Ethan, vattene!» gli schiaffeggio la mano che ha sul finestrino e lui caccia un urletto di frustrazione e sparisce finalmente dalle palle.

«Ora, Ryan...» mi giro verso il ragazzino sospirando. «Dimmi chi è il signor Minnick così andrò nel suo ufficio e lo pesterò a sangue» ordino con un sorriso.

Lui in tutta risposta tira fuori il cellulare, cerca qualcosa su Google e poi gira lo schermo verso di me.

«Questo è il nome della redazione giornalistica, e lui è il signor Minnick, il redattore che coordina tutto il lavoro e firma i tirocini» spiega per poi cliccare su una foto.

Non ci credo...
Serro i denti e deglutisco.
Guardo i suoi occhi scuri, i capelli lisci e perfettamente tirati di lato.

Elijah.

«Non chiamerai mia mamma, vero?» la sua voce abbassa di colpo la temperatura a cui mi stava ribollendo il sangue nelle vene.
Alzo gli occhi.

«Se ti fai ancora vedere, ti strangolo sul serio e mi mangio la tua milza» dico seria, tremendamente glaciale fissandolo diritto negli occhi. Il ragazzino sbarra gli occhi e impallidisce.

Scuote rapido come una scheggia la testa, annuendo.
Quindi scendo finalmente dalla macchina ma prima di chiudere lo sportello la sua voce mi ferma.

«Posso essere sincero?» chiede lui lasciandomi stranita. Rimango in silenzio attendendo che continui.
«Sei veramente forte... sono un amante del gossip, ma tutti i personaggi pubblici sono noiosi, tu invece sei veramente forte...» commenta con un sorriso sornione e una strana espressione che pare ammirazione. Trattengo a stento una smorfia. Io non sono un cavolo di personaggio pubblico.

«Sparisci» gli ordino schifata e lui annuisce di nuovo, quindi chiudo lo sportello e lo vedo sfrecciare via dalla mia vista.

Domani andrò a fare una visita a quel... signor Minnick.

***

È lunedì mattino, per essere precisi le dodici e mezza, fra poco ci sarà l'orario di pranzo e io ho staccato da lavoro una ventina di minuti prima sotto, ovviamente, il consenso di Sua Altezza Imperale Nuovo Manager Ethan che prima di lasciarmi andare ha preteso un inchino. Gliel'ho fatto, lui mi ha lanciato addosso della polverina rosa al gusto di ribes che usa per i suoi drink e poi ho girato i tacchi.

Scendo dalla moto, do un'occhiata all'edificio bianco con le vetrate, sopra la scritta Untold Sparks - tra parentesi che schifo di nome per una testata giornalistica, e stringo la bretella della borsa.

Bene. È ora.

Salgo i pochi gradini, raggiungo l'entrata e l'uomo in nero, presumibilmente della sicurezza, mi chiede il badge che io ovviamente non ho.
«Dì al signor Minnick che ho delle informazioni sulla ragazza dell'articolo con Nicholas O'Brien» dico con un piccolo sorriso cordiale. Lui mi manda un'occhiata stranita, ma alla fine riferisce tutto tramite il suo auricolare da agente 007, dice qualcosa, annuisce e mi guarda facendomi segno di entrare.

Perciò seguendo le sue indicazioni, prendo l'ascensore al terzo piano, esco e mi trovo immersa in un padiglione bianco, pareti in pallet di legno marroncino chiaro in alcune zone dove ci sono tante scrivanie, computer, qualche scaffale con della roba. Piante verdi ovunque, fogli volanti, gente che sta stravaccata sulle sedie girevoli in pelle a chiacchierare con i propri colleghi, altri piegati davanti alla tastiera a battere con furia, altri ancora invece a trasportare dei documenti, stampare copie di qualcosa oppure ci sono altri che semplicemente parlano a cellulare come se non fossero affatto a lavoro.

Che strano posto.

Alcuni sguardi si poggiano su di me non appena mi scorgono avanzare. Le scrivanie alla mia destra, alla sinistra la parete in legno con sopra inciso il nome della testata, poco più avanti delle vetrate che danno sull'interno di alcuni uffici, accanto a ciascuna delle porte in altrettanto vetro, su di esse in alto dei cartellini in metallo con sopra dei nomi.

«Dove trovo il signor Minnick?» chiedo fermandomi di getto. Mi giro verso i suoi presumibili dipendenti e guardo uno ad uno.

Tutti parecchio giovani a dire il vero, forse il più adulto non supera di trentacinque anni d'età. Vestiti in abiti piuttosto casual, sembrano non star affatto nel luogo da dove dovrebbero incassare il proprio stipendio. Il posto ha un'atmosfera accogliente, molto chill, se considerato anche le bacchette profumate per ambienti che rilasciano un fumo alla vaniglia che si mescola ai profumi della gente che c'è qui dentro e a quello del caffè e della carta.

Qualcuno mi indica stupito e borbotta qualcosa al suo collega della scrivania accanto. Stupita a mia volta guardo una faccia, lui guarda me e sul suo viso si dipinge un sorriso.

Ryan.
Mi alza la mano e la sventola tutto felice, salutandomi. Poi si protende verso un ragazzo che non lo guarda nemmeno di striscio e gli dice qualcosa continuando a indicarmi.

«Il signor Minnick al momento non accetta visite, se vuole può prendere un appuntamento» mi si avvicina una ragazza nella sua camicetta di seta celeste, la gonna marrone e delle strane scarpe che pare le abbia rubate da un cartone animato anime.

«Va bene... allora lo troverò da sola» rispondo, poggio una mano sulla sua spalla e la sposto semplicemente via dalla mia traiettoria, lasciandola di stucco.

Faccio scorrere gli occhi sulle vetrate finché non lo becco dietro la sua scrivania, gli occhi fissi sul computer, occupato a scrivere qualcosa. Forse il prossimo articolo sulla mia vita, chissà.

Mi avvicino e busso alla vetrata. Lui alza il viso e non appena mi vede sbianca pericolosamente.
Sì. Ora sei un uomo morto che cammina Elijah Minnick.

Gli sorrido lievemente e lui in tutta risposta alza il cellulare e sembra chiamare qualcuno tenendo gli occhi fissi su di me. Poi si avvicina alla porta e lo vedo chiuderla a chiave.

Suppongo che Ryan gli abbia riferito quanto è successo davanti al Pink Ocean.
Mi avvicino alla porta, busso contro il vetro e gli faccio segno con l'indice di aprirla. Lui in tutta risposta indietreggia di qualche passo.

Non ho idea quando, ma improvvisamente uno dei suoi uomini in nero si materializzano al mio fianco.
«Venga, signorina. La accompagno all'uscita» dice e mi fa segno verso il tragitto di ritorno all'ascensore.

«So bene dov'è l'uscita» replico lanciandogli un'occhiata di striscio e poi rimetto le pupille su Elijah che mi sta fissando attraverso il vetro.

«Mi segua» ripete invece l'uomo accanto a me che pare il clone di Jason Statham a momenti. Io non mi muovo, ma il mio sguardo sì quando scende sulla mano che ora ho intorno al mio braccio. Risalgono in alto e si piazzano sul suo viso.

«Ti pagano abbastanza?» chiedo con voce pacata. Lui corruccia d'istinto le sopracciglia. «Per i danni sul lavoro, dico» aggiungo con fare ovvio prima di lasciar scivolare la borsa dalla spalla lungo il mio braccio, la infilo intorno al suo, mi piego, la rigiro, gli blocco il braccio e rotolando sulle sue spalle lo schianto per terra, lo afferro, un pugno in faccia, un altro, lo sollevo di più e poi un calcio che lo stende.

D'improvviso cala il silenzio.

Nessun'altra chiacchiera, risatina, suono di tastiera o stampante che lavora i fogli.
Riafferro la mia borsa, la apro, infilo la mano dentro e la alzo, spruzzando il getto dello spray al peperoncino in faccia alla seconda guardia di sicurezza che mi viene incontro e fa per afferrarmi. Alla terza invece mi avvicino io tanto che rimane stupito. Con un balzo salto col piede sulla sua coscia, lo afferro, mi rigiro intorno a lui finché non lo scaravento per terra, recupero il teaser che teneva in mano e mi giro, mi tiro in piedi, afferro la prima guardia di sicurezza che si è alzata e glielo pianto sul collo. La scarica lo attraversa finché non crolla sul pavimento.

Lo guardo per alcuni istanti, tiro un profondo respiro e sollevo gli occhi sui dipendenti della Untold Sparks che mi guardano silenziosi.

Mi giro lentamente verso la scrivania accanto, prendo la tastiera wireless, torno sulla terza guardia chr fa per alzarsi, quindi gli mollo un calcio in faccia e la tastiera si spacca contro la sua testa che li fa crollare di fronte sul pavimento.

Guardo la tastiera, me la rigiro tra le mani e mi volto verso Elijah Minnick che fissa il tutto ad occhi sbarrati.

Gli sorrido lievemente, lascio cadere la tastiera per terra, sposto con un piede la guardia, mi avvicino a quella a cui ho spruzzato il peperoncino in ginocchia per terra e gli pianto il teaser contro la nuca. E lui ricade con un tonfo a terra, proprio lì dove deve stare.

Torno alla porta in vetro, alzo di nuovo l'indice, indicando la serratura che il Signor Minnick dovrebbe aprire, proprio ora.

Invece lui non si smuove di un centimetro.

Va bene.

Mi allontano, afferro la sedia di una scrivania vuota, torno pacatamente indietro e la lancio contro la vetrata. Questa si spacca in mille pezzi. La sedia, invece, finisce nel suo ufficio e sbatte sotto la scrivania dove si ferma.

«Ciao, Elijah» lo saluto con sorridente. «Che fai lì? Non me lo vuoi offrire qualcosa da bere adesso?»

Chiedo togliendomi la giacca di pelle, la poggio sulla vetrata e pianto la mano sopra. Con uno slancio laterale sono dentro al suo ufficio. Riprendo la giacca, la scuoto dai possibili frammenti di vetro rimasti attaccati e mi avvicino lentamente.

Tolgo con un piede di mezzo la sedia e afferro la poltroncina girevole davanti alla scrivania.

La tiro, prendo posto e gli faccio segno di accomodarsi davanti a me, proprio dove era prima.

«Vorrei dell'acqua, aromatizzata al limone se è possibile» dico guardandolo mentre lui, in allerta, va dietro alla scrivania. «Non limonata. Ma acqua aromatizzata al limone, - gli faccio ben capire - se non c'è, dì alla tua piccola segretaria nella camicetta celeste di portarmi un semplice bicchiere d'acqua, temperatura ambiente. Ora...» mi fermo tirando un forte respiro.
«Siediti, è il tuo ufficio, no? Voglio parlare e voglio anche dirti che dovresti dire ai tuoi uomini in nero di non provare a mettermi più le mani addosso. Non ho intenzione di farti del male - sorrido scuotendo la testa - per questo motivo... ecco qui» infilo la mano nei pantaloni, tiro fuori duecento dollari e glielo poggio sulla scrivania.
«Per i danni» indico la vetrata spaccata alle mie spalle.

«Se avessi voluto farti del male, ti avrei aspettato fuori, quando avresti staccato da lavoro, no?» rido lievemente e gli faccio segno di accomodarsi di nuovo. Lui, finalmente, esegue e prende posto.

«Mi raccomando, non chiamare la polizia, perché se lo fai io dirò loro come ti sei servito di un minorenne, come l'hai manipolato e l'hai istigato a delinquere, facendogli pedinare una persona. Sei stato intelligente, però... Te lo devo concedere» sorrido sollevando le sopracciglia. «Se avessi mandato qualcun altro gli avrei come minimo spezzato una mano, ma... un quindicenne? Non l'ho minimamente sfiorato, ho dei principi infondo ma tu probabilmente non sai cosa sono, quindi ora parliamo di come mi fai pedinare e dopo...» mi giro verso Ryan che mi fissa ad occhi sgranati, un sorriso in viso soprattutto quando lo saluto da lontano e lui si indica orgoglioso e parla a un dipendente di questa triste testata giornalistica. «... farai scrivere a quel ragazzo il suo articolo, glielo farai pubblicare col suo nome e non lo userai mai più per i tuoi piani altrimenti ti cercherò, ti troverò e ti userò come un appendiabiti.»

Lui si aggiusta il nodo della cravatta, deglutisce e mi rivolge un tenue sorriso.

«Ciao, Veronica» mi saluta per poi alzare una mano facendo una sorta di segno. Giro lievemente il viso e vedo una delle tre guardie in piedi, ma ferma.

Bravo, Elijah Minnick.

«Oh... Elijah, quasi dimenticavo...» riprendo tornando a guardarlo, o meglio guardare qualcosa che ha addosso.
«La tua cravatta» gliela indico con un cenno di mento e alzo gli occhi nei suoi. «La voglio» sorrido.

La voglio perché mi piace e credo che intorno al collo di Nicholas potrebbe starci veramente molto bene. E anche intorno ai suoi polsi.

***

Angolo autrice

Solo per rendere l'idea, il nostro Ryan:

Dopo aver visto One Piace, la serie Netflix, mi son detta: ma sai che Iñaki Godoy è proprio come mi immagino Ryan?
Perciò beccatevi questa foto.

E stommale AHAHAHA Ronnie e Ethan mi fanno crepare ogni volta.

Ronnie, invece, è matta. Completamente matta. Nicholas aveva ragione su di lei.

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