19 - Concerto

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"Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi suonare. Loro sono 88, tu sei infinito. Questo a me piace. Questo lo si può vivere. Ma se tu, ma se io salgo su quella scaletta, e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi di tasti, che non finiscono mai, e questa è la verità, che non finiscono mai e quella tastiera è infinita... Se quella tastiera è infinita, allora su quella tastiera non c'è musica che puoi suonare. Tu sei seduto sul seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio."

- Alessandro Baricco -

LUCY

Questa settimana non ho scuola, perciò passerò la maggior parte del tempo a esercitarmi al pianoforte.

Di solito in questi giorni liberi mi sveglio la mattina tardi e con gli occhi ancora semichiusi vado in cucina e mi preparo un caffè, poi mi dirigo subito al pianoforte a coda, poggio la tazza sulla parte superiore dello strumento e comincio a suonare. Mi ci dedico anima e corpo, ma non sono mai soddisfatta: devo essere perfetta per l'ultima volta su quel palco.

«Ti è venuto bene il pezzo stamattina!» esclama mia madre allegra.

«No, invece. Non è così che vorrei che sia... la scala non è giusta, dovrebbe scivolare sui tasti e invece sembra robotica.»

«Usa il pedale allora!»

«Lo sto facendo!» rispondo, in un moto di frustrazione.

«Ci riuscirai, vedrai, andrà benissimo.»

«Sono preoccupata, e se dovessi fare una figuraccia?»

«Impossibile, non ne hai mai fatte e non inizierai proprio adesso. Sarà un gran successo come sempre. Sta' tranquilla!»

Non riesco a essere serena. E se venisse Nash? Speriamo di no... mi vergogno troppo. E poi se lo vedessi mi arrabbierei così tanto che andrebbe tutto a scatafascio. Sono ancora furiosa con lui dopo averlo visto provarci con quella ragazza sull'autobus. Sono contenta di non poterlo incontrare per dieci giorni; avrò una pausa dai suoi occhi, un riposo dalla tachicardia e, infine, cosa più importante, una tregua per la mia anima.

***

Karin mi viene a trovare di tanto in tanto. Non vuole disturbare perché sa che mi sto preparando per il concerto. Viene da me il mercoledì, per tirarmi su di morale. Porta un dolce con carote e cannella, che sua madre prepara sempre con tanto amore. Lo poggia sul tavolo e il profumo è davvero invitante.

«Te lo manda mia mamma, come buon augurio; sabato al saggio ci sarà anche lei.»

«Adesso sì che mi sento meglio...» sbuffo.

«Chissà se verrà Nash!» mi sorride, incoraggiandomi.

La osservo con tutto lo sconforto possibile.

«Oh, ma dai, sarai bellissima, rimarrà senza parole quando ti vedrà con il tuo vestito nuovo. Sarai stupenda.»

«Non vado a fare una sfilata di moda, Karin» replico con dolcezza.

«Ma anche l'occhio vuole la sua parte!» ammicca lei.

***

Oggi è venerdì e mi sono esercitata tutto il giorno senza pause. Mi scoppia la testa e le dita mi fanno male, sono stremate quanto il mio cervello. Suonerò due canzoni perché sono all'ultimo anno e mi viene dato questo "onore". Evviva. Spero che almeno uno dei due pezzi funzioni a dovere, senza errori.

Verso le diciassette e trenta mi sdraio sul divano e mi addormento. Mia madre non mi sveglia perché pensa che mi meriti un po' di riposo. Ma Karin si presenta a casa mia verso le diciannove con due pizze; non posso cacciarla, anche se mi ha svegliata e avrei voluto dormire fino a domani.

Dopo che se n'è andata, intorno alle ventidue, vado a letto presto, ma prima faccio un'ultima prova, suonando entrambi i componimenti due volte ciascuno.

***

Sabato, giorno del concerto

È il fatidico sabato e sono in ansia. Le gambe e le mani sembrano di gelatina; tutte le mie terminazioni nervose tremano.

Buio.

MOON

Luce.

Sono agitatissima. Malek sarà presente e io mi maledico per avergli chiesto di venire. Ma che diavolo mi è venuto in mente? Se ci sarà, diventerò ancora più inquieta. Aiuto

È terrificante questa sensazione, il cuore è un macigno e a volte non lo sento più battere. Sudo freddo.

Karin viene verso le diciannove per aiutarmi. Vuole che io sia spettacolare. Ha detto: «Se lui verrà, dovrà rimanere abbagliato. Devi essere la sua stella».

Malek verrà, me lo ha promesso. Dio, adesso sì che sono fuori di me dal nervosismo. Maledizione!

Buio.

LUCY

Luce.

Karin guarda l'ora sull'orologio che porta al polso: «Dobbiamo darci una mossa, vogliamo iniziare dalle unghie?»

«Che vuoi fare alle mie dita? Mi servono stasera!»

«Le rendiamo più belle!»

«Ovvero?» la guardo di sbieco.

«Semplice: smalto!»

Roteo gli occhi. «Ottimo, così mi puzzeranno le mani.»

«Solo un pochino» torna a sorridermi. «Colore? Direi un perla...»

«Fai quello che ti pare, è inutile contraddirti» sbuffo.

«Ok, vada per quel colore!» Non è neanche un colore...

Non so cosa intenda, ma non mi interessa, ho i pensieri altrove: Se Nash dovesse venire al concerto, potrei svenire sul palco... sarebbe talmente imbarazzante che non tornerei più a scuola.

Mi siedo alla scrivania mentre lei prende una piccola boccetta dal borsone che ha portato con sé.

«Sembri Mary Poppins, cos'hai là dentro? Ti sei portata casa dietro?»

Mi fulmina con gli occhi. «Questa è la signora "borsa delle meraviglie" e ti renderà stupefacente stasera, un minimo di rispetto!»

«Ok, scusa, signora borsa» bofonchio in modo ridicolo.

«Stendi le mani sul tavolo in direzione della luce della lampada» comanda lei.

Così faccio. Spande il primo strato di "colore". «Adesso aspettiamo che si asciughi!»

È eccitata per stasera, lo noto dal sorriso stampato sulle labbra che indossa da quando è entrata in casa.

«Si dice che una donna sia impotente solo finché lo smalto non è asciutto» mi strizza un occhio con dolcezza.

«Potrei fare un'eccezione, se non la smetti di essere così felice.»

«Accipicchia, sei proprio nervosa!»

Le lancio uno sguardo truce.

Dopo cinque minuti, ne mette una seconda passata; le dita adesso sembrano più affusolate, sono lunghe, delicate ed eleganti, anche se le unghie sono corte per poter toccare al meglio i tasti.

«Devo ammetterlo, hai fatto un buon lavoro» le dico, mio malgrado, e lei gongola aumentando l'ampiezza del suo sorriso.

Aspettiamo ulteriori minuti per far sì che lo smalto sia completamente asciutto.

«Adesso direi che puoi vestirti, poi pensiamo al trucco e ai capelli.»

Eseguo il suo ordine. M'infilo il bellissimo abito in raso celeste polvere, che mi calza alla perfezione in vita e sui fianchi, poi indosso dei fantasmini e le décolleté bianco panna prese in prestito da mia madre.

«Come vuoi i capelli?» mi domanda la mia amica con dolcezza, spazzolandomeli.

«Legati, non mi devono assolutamente cadere sui tasti del pianoforte. Non voglio rischiare di inciamparci con le dita.» Soffio su una ciocca per allontanarla dal viso.

«Ho un'idea!» esclama Karin, gioiosa.

Inizia a pettinarli all'indietro  e poi crea una sorta di chignon morbido, lasciando qualche piccola ciocca sciolta. Dal borsone prende un arricciacapelli e le arrotola una a una al ferro. Una volta rilasciate, le ricopre di spray fissante. Afferra, poi, delle forcine decorate con una perla e le incastra nell'acconciatura con un vero tocco professionale.

«Che trucco vuoi?»

«Leggero... Non voglio sembrare una bambola.»

Mi spalma un po' di fondotinta e lo spande con una spugna, poi mette una linea di eye-liner sulle palpebre e un po' di mascara.

Sbircia nel mio portagioie in cerca di qualcosa. «Mettiti questa!» Prende una collana dalla scatola e me la porge. È semplice, composta da perle di fiume che s'intonano con le scarpe e gli accessori nei capelli.

«Sei perfetta! Bellissima, davvero.» Batte le mani, soddisfatta del suo lavoro.

Apre l'anta dell'armadio dove è attaccato lo specchio e vedo riflessa una figura elegante che stento a riconoscere; sembra mia madre, ma appena muovo il braccio torno alla realtà e capisco che sono io quella ragazza.

«Guardati.»

«Non sono male, sei sta brava» sono costretta ad ammettere.

«Non sei male??? Lucy, ma ti sei vista!? Sei una magia!»

Scendiamo insieme al piano terra, i miei genitori sono abbracciati sul divano e stanno guardando la televisione.

«Mama, papà, sono pronta» esordisco.

Si girano insieme verso di me e mia madre si porta la mano alla bocca con gli occhi fuori dalle orbite. Mio padre, invece, mi sorride affabilmente.

«Oh, Lucy, sei un incanto.» Mia mamma sta per mettersi a piangere dall'emozione.

Saliamo in macchina tutti insieme; Karin viene con noi, ma ci segue con la sua vettura. Lasciamo le auto al parcheggio della scuola ed entriamo nell'edificio. Mio padre tiene una mano sulla mia spalla, con fare protettivo.

Passiamo tra le file di sedie del teatro; saluto tutti e vado dietro le quinte. Faccio per sedermi su una panchina al lato di un corridoio, ma mi rendo conto che devo andare in bagno, prima. Guardo la scaletta delle esibizioni e come sempre sono l'ultima: concludo il concerto.

Il nostro insegnante, vestito di tutto punto con un papillon rosso, sale sul palco col microfono stretto in mano. Altri professori stanno per entrare in scena; sono tutti vestiti allo stesso modo: portano una stola color oro sulle spalle e la prima della fila ne porta una in mano, probabilmente per il professor Green, il maestro di musica.

Salgono e si posizionano a semicerchio, mentre la donna capofila consegna lo scialle all'insegnante. Iniziano a cantare:

I lie - Paul Hillier

In seguito, un ragazzo di quattordici anni suona un pezzo di Bartock; lo segue una ragazza con una composizione di Mozart e un'altra con Bach.

C'è una pausa di dieci minuti con un piccolo rinfresco: spumante, succo, Bellini con salatini e quadrotti di pizza.

Esco dalle quinte e raggiungo i miei genitori.

«Eccola, la nostra pianista!» mi dice mia madre con dolcezza, carezzandomi il viso con il dorso della mano.

Ci mettiamo in piedi a un tavolino alto. Prendiamo dei bicchieri e ce li facciamo riempire. «Per me un succo ai mirtilli» dico al barista. Anche se un pochino di alcol mi farebbe bene per allentare i nervi.

Facciamo un brindisi e a noi si aggregano i genitori di Karin. La mia amica mi fa un cenno verso la porta; guardo in quella direzione e perdo il respiro: Nash.

È poggiato al muro, con una gamba piegata indietro per sorreggersi. Indossa un paio di pantaloni neri eleganti e una camicia celeste che mette in risalto i suoi colori angelici. È così affascinante e attraente. Maledizione! Ma non poteva avere almeno qualcosa di brutto su cui potermi concentrare per odiarlo?

L'intervallo finisce e tutti tornano ai loro posti in platea. Lui scompare dalla mia vista; non ci siamo neanche salutati e forse è meglio così, altrimenti sarei potuta salire in scena furiosa.

«Ci vediamo dopo, Lucy», mi dicono mamma e papà dandomi un bacio sulla fronte.

Tra poco toccherà a me e l'angoscia mi assale. 

Mi ricompongo e sono di nuovo dietro le coulisse, faccio avanti e indietro per il corridoio; lì non ho tregua, mi mordo l'interno della guancia nervosamente per trovare conforto. Una ragazza suona:

Gymnopédie - Satie

E poi è il momento. Mi sento male, ho la nausea e sono pallida, le mani tremano vorticosamente, non trovano tregua. Ho giramenti di testa e il cuore mi sfonda il petto, è impazzito, lo sento pulsare nelle tempie senza tregua. 

Ho paura. E non mi sento all'altezza.

Il professor Green prende di nuovo il microfono.

«E diamo il benvenuto alla nostra alunna più matura e talentuosa. Quest'anno per lei sarà l'ultimo! Signori e signore... Lucy Laiden!»

Uno scroscio d'applausi inonda con fervore il teatro.

Dietro le quinte, stendo il vestito lungo i fianchi, faccio un profondo respiro e salgo gli scalini laterali in legno. Entro e le luci mi colpiscono gli occhi come un flash. Porgo la mano al professor Green, che è agitato e commosso quanto me. È l'ultima volta che suonerò in questo teatro e mi dispiace, è un percorso durato quattro anni e che mi ha insegnato molto. Sento le lacrime pungermi gli occhi, ma riesco a trattenerle con un grande sforzo.

«Il palco è tuo.»

Gli sorrido e lo ringrazio con un sussurro e uno sguardo di gratitudine, che lui conosce bene ormai.

Guardo nella platea per cercare di intercettare occhi familiari, ma non vedo niente: è tutto buio. Mi sento sola e sento le gambe di piombo, per un attimo ho la sensazione che non ce la farò; colpita da un fremito di pazzia, faccio l'unica cosa che non mi sarei mai aspettata da me.

Afferro il microfono dalla mano dell'insegnante e guardo nel pubblico completamente oscurato. Prendo un respiro e dico: «Questo pezzo è per Nash Rainbow. Inizierò con "Come sei veramente" di Giovanni Allevi. Nash, goditelo tutto».

Lo cerco nel pubblico e riesco finalmente a individuarlo in prima fila, là dove è ancora possibile vedere le figure delle persone. Mi sta fissando con uno sguardo sbigottito, mentre appoggia le spalle allo schienale della poltrona; i suoi occhi mi accarezzano il viso e io avverto le mie difese crollare e non devo permetterlo. Mi sento svenire, ho freddo, le mani sono gelate come cubetti di ghiaccio e ho la sensazione che non si muoveranno nel momento in cui dovrò iniziare.

Mi risveglio dal panico quando il pubblico mi regala un altro applauso per incoraggiarmi; passo la mano sul pianoforte a coda bianco opaco e mi siedo sullo sgabello in legno con il cuscino in pelle nero. Con il fiato sospeso, poso le dita sui tasti, che sono lisci e lucidi, premo uno in particolare, un mi, che non suona affatto, per la delicatezza con cui l'ho premuto di proposito per non farmi sentire, mi tremano in maniera incontrollabile. Le faccio scivolare da quelli neri a quelli bianchi. Prendo un profondo respiro, inarco le mani e suono il primo accordo. Lo stomaco precipita, mentre le mie mani danzano su quelle note.  Il mio cuore va in frantumi mentre penso ai suoi occhi, alle sue labbra e al suo abbraccio così bello, caloroso, perfetto.

Come sei veramente - Giovanni Allevi

È andata bene e un caloroso applauso mi travolge come un vento impetuoso; il respiro mi si blocca in gola. Guardo nella prima fila, là dove poco prima era seduto lui; non c'è più: se n'è andato. Non gli è piaciuto? L'ho annoiato?

Forse è stato stupido dedicargli quel componimento. È stata l'ennesima prova che per lui non significo niente. Dentro di me si apre una voragine e mi lascio consumare da dolore che i ricordi di lui mi provocano. Sento gli occhi pesanti, perché mi viene da piangere. Lui mi si era scalfito nella mente. Il suo respiro, il suo sapore, il suo tocco, tutto era ancora vivido in me e probabilmente lo sarebbe stato per sempre. 

Buio.

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