3 - Hai un accendino?

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"Un giorno mi perderai come si perdono gli accendini,

lasciati distrattamente nelle mani di qualcun altro che ne ha bisogno."

- cit. -

MOON

Luce.

È la penultima ora e abbiamo educazione fisica. Scendiamo in palestra e poi ci dividiamo tra ragazzi e ragazze per andare negli spogliatoi.

Mi cambio, indosso la tuta composta da una t-shirt nera e un paio di pantaloncini corti; mi lego i capelli in una coda alta e mi dirigo fuori con le altre compagne.

La professoressa c'informa: «Oggi partita di pallavolo contro la quarta C, cercate di fare del vostro meglio».

Ci scaldiamo un po' eseguendo qualche passaggio. Vedo entrare i nostri sfidanti. Più precisamente, un ragazzo con gli occhi azzurri mi fissa non appena varca la soglia della palestra. Si dirige alla porta in fondo a destra per cambiarsi. In seguito, ci distribuiamo sul campo; mi metto sotto rete perché sono brava ad alzare e a schiacciare.

I primi a iniziare saranno loro. Un ragazzo dai capelli neri e gli occhi verdi manda perfettamente la palla nella nostra parte di campo e io mi ritrovo di fronte al tipo di prima. La compagna accanto a me alza la palla in mia direzione; posso schiacciare e ci provo, ma lui si dà un perfetto slancio e salta molto in alto, tende le braccia e apre le mani: para bene, quindi il nostro piano non va in porto.

Lui e un altro ragazzo biondo si danno il cinque con un piccolo pugno e poi schiacciando l'uno contro l'altro i palmi a mano aperta. Lui ride e mi guarda. E ora che c'ha da ridere questo qui?

Riusciamo a guadagnare qualche punto, ma a loro ne manca uno solo per vincere; e infatti la partita finisce poco dopo in loro favore con una sua schiacciata che non riusciamo a parare. Ma noi non ci disperiamo, ci congratuliamo a vicenda per come abbiamo giocato e lui... be', lui mi si avvicina e pronuncia un'unica parola: «Brava».

«Grazie» rispondo io, sostenendo il suo sguardo.

Mi poggia la mano sulla schiena e io sobbalzo, perché non me l'aspettavo. Un brivido mi corre lungo la spina dorsale.

«Allora, ci si becca in giro. Continuate ad allenarvi così e magari un giorno riuscirete a vincere» afferma poi, sorridendo sornione.

Ma chi si crede di essere questo sfigato? E cos'è tutta questa confidenza?

È l'ultima ora e mi ritrovo quelli della 4-C anche in aula. Cazzo, ma non ce ne liberiamo più? Sono entrati portando con sé una sedia, e si sono sistemati sparsi qua e là per la classe. È l'ora di francese e stiamo studiando "come presentarsi".

«Chi vuole provare?» domanda la professoressa.

«Moi.» Un ragazzo alza il braccio muscoloso aprendo la mano.

È lui, il giovane dagli occhi azzurri. Guardandolo adesso che non è tutto sudato, non è affatto male.

«Je suis Malek et j'ai 18 ans. J'aime le basket et écouter de la musique.»

«Ottimo, bravo! Chi vuole provare ancora?» trilla l'insegnante.

Alzo la mano con sicurezza, senza staccare gli occhi da quel ragazzo. Lo fisso con un ghigno. Lui si volta nella mia direzione, e trasalisco; dopo aver avuto la sua attenzione, comincio a parlare:

«Je suis Moon, j'ai 18 ans et j'aime fumer et écouter de la musique rock.»

Mi sorride e io sento il cuore sciogliersi in quell'istante che dura appena due secondi. Non mi piace l'effetto che mi fa quel tipo.

La lezione continua con la spiegazione della differenza tra "en" e "y"; prendiamo appunti e io lo osservo continuamente, con immotivato desiderio. Gli ormoni si stanno prendendo gioco di me.

«Lucy! Smettila di fissarlo! Ti si sta srotolando la lingua davanti ai piedi» mi dice Karin, la rossa.

«Ma dai! Neanche se ne accorge!» scoppio in una risata spontanea.

Lui si gira e incrocia i miei occhi al primo colpo. Una fiamma di bramosia si accende nel suo sguardo e io sento il basso ventre pulsare.

Come spinta da un moto istintivo, dieci minuti prima dalla fine della lezione, lo guardo di nuovo, bloccandomi sulle sue labbra carnose e, proprio in quel momento, lui alza lo sguardo dal quaderno e si gira verso di me, come avesse percepito degli occhi su di sé. Distolgo lo sguardo immediatamente, ma troppo tardi, perché lui se n'è già accorto. Si mette a ridere e scuote la testa.

Sto esagerando! Mi costringo a non guardarlo più, abbasso gli occhi sul quaderno e mi concentro sulle parole della professoressa Marinette.

Suona la campanella: finalmente la scuola è finita e sono libera. Era ora!

Afferro lo zaino, metto la giacca e mi avvio alla scalinata dopo aver posato i libri di matematica nell'armadietto e aver preso quelli di filosofia per studiare. Mentre scendo le scale che portano alla salvezza, Malek mi si affianca e sussurra: «Ci si vede, fumatrice!», saltando giù due scalini per volta.

Sta diventando una piaga!

Fumando, mi avvio alla fermata dell'autobus, ma ho sempre Karin alle calcagna, non mi lascia mai in pace. Getto via la sigaretta appena si avvicina.

«Perché sei così di fretta?» mi chiede, trafelata.

«Perché voglio andare a casa e ho fame.»

«Certo... se butti via la pizza perché sbagli a ordinarla... capisco che hai fame!»

«Come dici?»

«Dai, non te lo ricordi? Davvero!?»

La fulmino con gli occhi. «Puoi lasciarmi in pace, per favore? Voglio stare sola» le dico un'unica volta, convinta.

«Ok...» Karin abbassa lo sguardo, delusa; sembra offesa e forse mi va bene così.
Karin si ferma davanti a un bar a chiacchierare con Miriam, una nostra compagna di classe, che sta mangiando un panino.

Io continuo il mio tragitto e arrivata a destinazione, mi siedo per terra sui gradini degli uffici e tiro fuori dallo zaino il porta tabacco in pelle nera. Prendo una cartina e la rivolgo con la parte strisciata di colla verso l'alto, stendendola sulla mano sinistra; raccolgo un po' di tabacco tra l'indice e il pollice e lo spargo in modo omogeneo su tutta la superficie della carta, poi la arrotolo su se stessa, passo la lingua sulla parte collosa, continuo a girare la cartina sul proprio asse, finché non è completamente chiusa.

Sono pronta per fumarla, ma mi accorgo di avere un problema: non ho l'accendino. Batto la sigaretta sul dorso della mano per far scivolare il tabacco in cima. Un ragazzo, con i capelli lunghi e biondi, appoggiato al muro, sta fumando con tiri intensi e decisi. È di nuovo Malek, realizzo.

Penso di cogliere la palla al balzo e mi avvicino.

«Ehi, tu!» lo chiamo.

«Parli con me?» Si punta il dito verso il petto, mentre con l'altra mano si porta il filtro alle labbra con aria disinteressata.

«Sì, certo.» Alzo le sopracciglia ridacchiando; mi sento le guance in fiamme. Ma perché?

«E quindi che vuoi?» aggrotta le sopracciglia sbirciandomi dall'alto in basso. Mi sento osservata o, peggio ancora, criticata. «Tua nonna ti ha prestato i suoi vestiti perché i tuoi sono a lavare?» mi domanda poi con arroganza.

«Sei invidioso?»

«Non mi hai ancora detto cosa vuoi da me.» Termina la frase con una nota di disprezzo.

«Rispondi alla domanda.» lo punzecchio.

«Neanche mia nonna se li metterebbe... Chi è il tuo stilista?» ride di gusto, dando una gomitata al suo amico, che lo segue nel suo giochetto.

«Hai un accendino?» gli chiedo con disinvoltura e fingendo di non aver sentito ciò che ha appena detto. È troppo bello per mettermelo contro, farò finta di niente.

«Sì, tieni.» S'infila la mano nella tasca dei pantaloni e me lo porge.

Mi fissa negli occhi, facendomi scorrere un brivido lungo la schiena.

La stessa sensazione che ho avuto in palestra...

Smoke - Daughter

Making a castle on the floor
Then I'm alone again
No keys and three doors
And a smoke-filled room

Arriva Karin, saltellando. Dio, ma non me la scollo più? Alzo gli occhi al cielo.

«Eccoti! Ma... ma tu fumi!» Sembra preoccupata e sbigottita.

«Sorpresa!» alzo le braccia apro le mani e le sventolo.

«Lucy, se lo vengono a sapere i tuoi, sono guai! Ma poi, quando hai iniziato?»

«Punto primo: mi avete stufata con questa "Lucy"» mimo le virgolette con le dita.

«È il tuo nome!»

«Secondo» alzo l'indice, precisandolo.

«Quello che ti pare...» rotea gli occhi.

«Punto secondo» rimarco, «chi se ne frega dei miei», mi passo il dito sulle sopracciglia per pettinarle. «Punto terzo: Che te ne importa? Quale parte di "voglio stare sola" non ti è chiara?»

«Lucy, smettila di trattarmi così! Stai ferendo i miei sentimenti...»

«Cresci, ragazza, la vita non è facile.» Butto il mozzicone per terra e mi metto in bocca una gomma da masticare.

L'autobus arriva e si ferma proprio davanti ai miei piedi. La porta d'entrata si spalanca e io salgo gli alti scalini, seguita da Malek.

Mi segue per tutta la lunghezza del mezzo, finché non mi siedo nella penultima fila, e lui si accomoda proprio agli ultimi posti in fondo; per controllarmi, forse. Mi sdraio sui sedili, stendendo le gambe lungo il finestrino e poggiando lo zaino dietro la testa a mo' di cuscino.

«Non ho bisogno della babysitter», affermo seria, guardandolo in modo truce.

«Pensavo ti piacesse la mia compagnia» sogghigna.

«Non sai quanto...» alzo gli occhi al cielo. «E io che credevo che non ti piacessero le ragazze vintage» lo fulmino.

Dopo quell'affermazione, si alza e mi si avvicina. Si ferma in piedi accanto a me e mi dice: «Non ti ho mai vista fumare».

Ecco il cieco di prima... «Ti consiglio una visita oculistica.»

«Uuuh, qui qualcuno oggi ha il ciclo!»

«Zitto, cretino! o la prossima volta il caffè bollente te lo verso dove non batte il sole, così ti ricorderai meglio di non fare il pavone.»

«Vogliamo cominciare subito?» sogghigna, e mi dà sui nervi.

O forse mi fa piacere come mi stuzzica?

Lui nota la mia occhiata glaciale e dice: «Ti sei proprio svegliata con la luna storta stamani! D'altronde, non ti chiami Moon?»

Mi siedo e gli do un pugno sul braccio. «Sei proprio un deficiente, Nash!»

«Chi?», mi guarda severo.

«Tu!»

«Sei davvero fuori di testa, e questo lato di te mi piace da morire.» Mi guarda negli occhi con intensità.

E tu sei dannatamente sexy...

«Passiamo alle cose serie» dice poi, ritrovando la sua spavalderia.

«Tipo? Quante volte ti masturbi al giorno? Perché sei ancora vergine?»

«Ah, ah, ah» mi folgora con lo sguardo, poi aggrotta le sopracciglia e cambia espressione in viso, come se gli fosse venuto in mente qualcosa. «Quando esci con me?»

Cazzo, me lo ha chiesto per davvero, e ora?

«Mai» sbuffo, anche se dentro di me muoio dalla voglia di incontrarlo fuori dalla scuola.

«Dai, su, lo so che volevi te lo chiedessi, i tuoi sguardi dicono tutto.» Nel parlare, si passa una mano tra i lunghi capelli biondi, in maniera troppo seducente per non rimanere imbambolati a guardarlo.

E non sai quanto! penso, deglutendo il groppo che si è formato in gola. «Vieni alle otto al cinema» gli sorrido. «Puntuale.»

«Ma noi non andremo al cinema, ho di meglio in mente. Vuoi che mi metta in tiro?»

«Fai quello che ti pare, vieni pure nudo se vuoi...» Chissà se sarebbe capace di farlo davvero.

«No, per quello aspetto il dolce» ammicca.

«Sei senza speranze» roteo gli occhi.

Mi alzo e suono il campanello per prenotare la prossima fermata.

«Se ti metti quei pantaloni che ti fanno quel bel sedere, sarò ben felice, soprattutto di toglierteli dopo» sghignazza. Lo ammutolisco con uno sguardo.

L'autobus lentamente si ferma e fa aprire la porta; scendo le scale e gli lancio un'ultima occhiata, che lui ricambia fino a quando non sono fuori, sul marciapiede. A quel punto gli lancio un sorriso, mentre lui continua a sogghignare.

"Ci vediamo più tardi", gli faccio il gesto roteando l'indice.

Lungo il tragitto verso casa, trovo un accendino per terra. Che fortuna, così non dovrò chiederlo in prestito a nessuno, almeno per oggi. Su di esso c'è disegnata una donna nuda. Me ne libererò appena ne troverò un altro più sobrio. Lo provo e funziona. Addirittura! Sorrido a me stessa.

Decido di metterlo subito all'opera accendendomi una sigaretta, e mi dirigo a casa.

Una volta arrivata, supero la staccionata bianca in legno ed entro nel cancello, dello stesso colore e fattura; mi siedo sul dondolo sotto il portico e mi godo il momento di pace. La primavera è arrivata, gli uccelli iniziano a cantare e a volare nel cielo. La nostra mimosa in giardino è in fiore, e le piante sono piene di boccioli: presto la natura sarà un vulcano di colori e di profumi, e io non vedo l'ora!

Sento i miei genitori che urlano all'interno: le solite liti familiari. Mi sfugge una piccola risata. Poi mia madre esce fuori e aziona il tubo dell'acqua con aria scocciata. Gli spruzzi mi arrivano addosso.

«Ma che cazzo, mamma!» impreco.

In quel momento, si accorge della mia presenza. «Oh, scusami, cara! Non pensavo fossi già di ritorno!»

«È sabato, esco sempre prima...» sputo, passandomi una mano sulla faccia bagnata.

«Ciao!» esplode lei, raggiante, non curandosi affatto di ciò che è appena avvenuto.

«Ciao... sono tutta bagnata grazie a te» aggrotto le sopracciglia.

«Vatti a cambiare, poi pranziamo.» È tutta allegra e la cosa non mi convince; fino a due minuti fa urlava contro mio padre. Bah!

Entro in casa e, dopo essermi tolta le scarpe, salgo subito le scale in legno. Raggiungo la mia camera che si trova subito in cima, a destra. La moquette bordeaux accoglie i miei piedi e li massaggia lievemente. L'ho sempre trovato molto piacevole e rilassante.

Entro nella mia stanza e niente è cambiato da stamattina; devo fare ancora il letto, ma non ne ho voglia, lo farò più tardi. Indosso un paio di leggings e una felpa larga e comoda; mi lego i capelli in una coda bassa. Scendo di sotto e vado in cucina: mia madre è ai fornelli, mentre mio padre è seduto su uno degli alti sgabelli dell'isola.

I miei genitori si lanciano un'occhiata cupa e mi vengono i brividi. Sta succedendo qualcosa... ho una brutta sensazione adesso.

Buio.

Lucy

Luce.

Sono a casa, in cucina, e i miei genitori mi stanno fissando. Ma come diavolo ci sono arrivata?

Sono a casa, in cucina, mia madre sta cucinando, mentre mio padre è in piedi accanto a lei e la sta aiutando, un attimo dopo i miei genitori si voltano verso di me, dando le spalle alle padelle sulla lastra elettrica e mi fissano. Ma come diavolo ci sono arrivata? Ennesima amnesia! Sto decisamente impazzendo, forse dovrei parlarne con i miei genitori!

«Cara, io e tuo padre ci siamo confrontati e abbiamo pensato che sia il caso tu vada dallo psicologo; una terapia non può che farti bene, magari riusciamo a scoprire finalmente il tuo problema...» esordisce mia madre, sincera, deglutendo rumorosamente affinché possa sentirla anche io.

«P-perché?» Riesco a dire soltanto, balbettando, perché sono molto tesa. Cosa mi sono persa? Perché improvvisamente questa idea?

«Cara, io e tuo padre ci siamo confrontati e abbiamo pensato che sia il caso tu vada dallo psicologo; una terapia non può che farti bene» esordisce mia madre.

«P... perché?» riesco a dire soltanto. Cosa mi sono persa?

«Perché avresti dovuto andarci già molto tempo fa, quando eri piccola. Sai, per... per i tuoi eccessivi sbalzi d'umore e le tue amnesie.»

«Ma io mi sto impegnando per far sì che tutto questo non accada più! E dallo strizzacervelli ci sono già stata!»

«Sì, è vero, ci sei andata, ma abbiamo terminato la terapia troppo presto. Con tuo padre ne abbiamo già discusso e abbiamo preso un appuntamento per la prossima settimana.»

La testa mi scoppia, mi sento frustrata e delusa. Perché i miei genitori non mi danno voce? Perché non posso mai dire la mia?

«Ci andrò, ma non sperate che cambi qualcosa, perché non accadrà!» sbuffo e scuoto la testa in segno di dissenso.

Non avranno nessuna risposta alle loro domande. Io sono così e basta.

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