Capitolo 8. Fight Outta You - Ben Harper & The Innocent Criminals

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

E ora prendiamoci del tempo per parlare di lei.

Ora, che Dino era fuori per due settimane con il gruppo, per un tour promozionale del loro nuovo album.

Ci avevo messo un po' a riordinare i pensieri, quelli che erano riaffiorati con le domande dei ragazzi quella sera. Ero negli spogliatoi della piscina comunale, lunedì mattina. Un lunedì uggioso di settembre, pieno di vento di scirocco. Davanti allo specchio, osservai le curve armoniose del mio corpo dentro il costume intero blu scuro, e cominciai ad allargare con le dita la cuffia in silicone per farla aderire perfettamente alla mia testa, e raccogliere tutti quei capelli, senza rischiare di strapparmeli. Un gesto meccanico, che avevo compiuto centinaia di volte prima di scendere in vasca a nuotare. Appoggiai delicatamente gli occhialini sulla fronte dopo averli regolati con l'elastico dietro la nuca e osservai il mio volto pulito e candido: le orecchie coperte appena dalla cuffia, gli occhi verdi che scintillavano sotto i faretti degli spogliatoi e la mia bocca così rosa da sembrare un fiore sbocciato da poco. Mi portai entrambe le mani sopra le mie sopracciglia folte e castane, lisciandole ripetutamente, indagando una qualsiasi somiglianza con lei.

Nicla era una creatura mitologica, una donna senza età, senza peso, senza una vera caratteristica che la rendesse umana. La sua voce era nelle mie orecchie perché nei miei primi anni di vita avevo sentito solo lei. Cantava. Cantava e basta. Ricordo solo che era una mamma molto dolce e sorridente. Aveva un buon profumo. Non so cosa sia successo di preciso con mio padre.

Perché c'è sempre un padre quando ci sono figli.

Il signor Koll.

Nicla ad un certo punto doveva aver capito che per portare avanti la sua carriera di successo, la sua carriera stellare, doveva compiere una scelta. E questa scelta era stata andare via. Lei e papà ne avevano passate tante, devono averci provato davvero, devono essere stati davvero innamorati quando hanno deciso di avermi. E per i primi tre anni effettivamente è stato così: innamorati, folli, pieni di vita. Ricordo vagamente una casa piena di musica, di voci allegre. Dopo il niente. Il silenzio.

Ma poi a un certo punto è arrivata Teresa.

Forse, Teresa era già tra noi.

Donna mite, gentile. La ricordo vividamente perché è con lei che sono cresciuta di più: con i dentini caduti e l'apparecchio che non mi faceva mangiare dal dolore, la mia sorellina Melanie che mi distruggeva tutti i giochi, le prime mestruazioni e le premure di Teresa che mi lisciava l'addome contratto. Teresa con i suoi consigli da mamma, anche se mamma, per me, non è mai stata. Per me è sempre stata solo Teresa. Teresa la madre di Melanie, la moglie di papà Koll.

E mamma era quella cosa lontana di nome Nicla. Nicla era questa figura ovattata, bellissima, solare, sfuggente. Ci vedevamo così poco, ma era con quel poco che io facevo un tesoro di mille castelli.

Un casino, la mia infanzia. Non mi sono ancora capita del tutto.

"Ciao, Emilia!" Cristiana mi salutò dal trampolino su cui era seduta, mentre con il fischietto dava il via ai suoi allievi dell'agonismo.

"Ciao, Cristiana." Scesi le scalette, raggiungendo la mia corsia e cominciai a nuotare liberamente lungo la vasca tutta per me.

Papà era un uomo dolce, sensibile, sempre presente, sempre attento.

Moro Koll. Di probabili origini ghanesi da parte di qualche nonno, avevo sicuramente ereditato da lui i folti ricci castano scuro e il fisico asciutto e minuto, ma non l'incarnato olivastro. Era nato in Italia, e i suoi studi lo avevano portato a inseguire un sogno. Lo chiamava il grande sogno: diventare un musicista, e vivere della sua musica. La sua arte e il suo talento erano l'improvvisazione, ma, più di ogni altra cosa, amava comporre intere opere musicali, un po' come l'arte di uno scrittore, che è quella di produrre grandi libri. Adesso viveva a pochi chilometri dalla mia città, in campagna, con sua moglie Teresa, e lavorava come factotum in un raffinato resort sulla costa. Mi domandavo se quel sogno fosse ancora lì, nascosto nel suo cassetto, tra i suoi calzini spaiati, oppure se si era  dissolto per sempre come le bollicine di ossigeno che in quel momento mi stavano uscendo dal naso per risalire in superficie.

Continuai a nuotare, muovendo le braccia al ritmo con le gambe, immaginando una musica interna che mi spingesse oltre i miei limiti, e ignorando Tananai, sparato nelle casse a tutto volume, durante la lezione di spinning in acqua in quel momento.

I punti salienti della mia vita erano questi. Il resto mi piaceva solo immaginarlo. La realtà era che Nicla confezionava i suoi bei riconoscimenti, la sua vita era piena di avventure e di viaggi, il suo nome era stato inserito nella Hall of Fame e non c'era nessuno, ma proprio nessuno, che potesse eguagliare quella magia che emanava la sua voce quando cantava. C'era la tecnica, c'era il talento, c'era quel pizzico di follia e di sbavatura che solo i grandi artisti riescono a gestire senza crollare mai; c'era tanto amore, e c'era tanto dolore.

Risalii velocemente le scalette dalla vasca per infilarmi nell'accappatoio, prima di raggiungere le docce. Mentre sentivo scendere il getto caldo sul mio collo, e passavo le dita fra i miei capelli, mi chiesi, tra tutte le emozioni che riusciva a provocare Nicla negli altri, dove potessi collocarmi io, per lei. Me lo chiesi per l'ennesima volta, mentre, seduta sulla panca degli spogliatoi, ancora con i capelli umidi sotto il cappuccio di spugna, osservavo sul telefono le ultime storie su Instagram. Dino non pubblicava quasi mai nulla, al massimo condivideva storie in cui era taggato, infatti eccolo lì, inquadrato mentre camminava in una piazza di domenica sera in mezzo a sconosciuti, chiacchierava con un bicchiere di plastica in mano. Fabio, l'autore del video, lo chiamava, due battute, la mano di Dino sulla telecamera e il video si interrompeva, passando ai successivi selfie di Fabio con una innumerevole serie di ghigni strafottenti. Guardai l'orologio, forse Dino non mi avrebbe risposto subito. Pensai a un messaggio carino da inviargli, e cancellai mille volte la parola "Ciao", non volevo apparire come quella che non ha idee. Scrissi una serie di messaggi che, di getto, potessero sembrarmi originali e simpatici, e alla fine mi decisi, e schiacciai il tasto INVIO senza più pensarci:

Ciao

Chiusi la finestra di WhatsApp ritornando alla foto salvaschermo del mio iPhone, dove Kobe e Oreste sovrastavano con i loro musi rotondi in primo piano. Mi pentii immediatamente del modo idiota con cui cercavo di sentirlo, alle 8 e mezzo di mattina, dopo tutte le serate che avevano fatto i Fabio nelle ultime 72 ore, almeno. Presi la manopola del phon in dotazione negli spogliatoi e questo si attivò automaticamente emettendo un debole getto di aria bollente. Cominciai a muovere quell'arnese sopra la mia testa e sotto il collo, me lo puntai dritto in faccia tenendo gli occhi chiusi e sperando che da qualche parte i miei capelli si mettessero d'accordo tra loro per stendersi ed asciugarsi nel migliore dei modi. Non pensare a lui. Abbassai la mano che reggeva il phon per schiacciare il tasto laterale del mio smartphone, mentre con l'altra mi tamponavo il resto del corpo prima di rivestirmi per andare al lavoro. Cinque minuti. Erano passati solo cinque miseri minuti. Aprii di nuovo WhatsApp, tornai sui nostri messaggi e lessi l'ultimo Ciao che avevo inviato: le spunte blu. Aveva visualizzato. Scrollai il mio messaggio verso sinistra per verificarne l'ora esatta: aveva aperto il messaggio esattamente due minuti dopo il mio invio. Tornai sulla chat, e Dino era di nuovo offline.

"Oh cazzo." Mi dissi a bassa voce.

Scossi la testa, continuando ad asciugarmi a caso i capelli, sentendoli gonfiare sempre di più sopra di me.

Che cosa mi stava succedendo?

Una volta uscita dalla piscina, salutai con un tono stridulo la segretaria Silvia dall'altra parte del bancone, mentre con tutte e due le mani mi schiacciavo i capelli arruffati, annodandoli sgarbatamente in una cipolla altissima. Sistemai la borsa a tracolla ben salda dietro di me e salii sul sellino della mia bici, restando in equilibrio su un piede, mentre l'altro si era già appoggiato al pedale. Sfilai dalla tasca il mio telefono con un sospiro, l'anteprima di un messaggio di Dino mi fece perdere un battito. Riuscivo a leggere solo il suo Ciao di risposta seguito da tre puntini. Restai ancorata all'imboccatura della strada per aprire il messaggio, per gustarmelo e leggerlo tutto:

Ciao...

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro