Chapter 28

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Nel frattempo che aspettavamo che Josephine tornasse in soggiorno con qualcosa da bere, ne approfittai per guardarmi intorno, esaminando così l'ambiente circostante: le pareti erano di un arancione pastello molto leggero, troppo chiaro e in contrasto con il pavimento in assi di legno scuro, probabilmente di noce. I mobili, anch'essi fatti in legno - probabilmente d'abete - , erano pochi ma essenziali, intagliati in maniera semplice ma allo stesso tempo elegante. Il divano in velluto scarlatto su cui eravamo seduti io e Jonathan, nonostante all'apparenza fosse sembrato duro come il marmo, era in realtà molto comodo e morbido, a un certo punto mi parve addirittura di sprofondarci dentro; in abbinamento c'erano anche due poltrone del medesimo colore e materiale. Una delle prime cose che notai era che mancava la televisione; le uniche cose che potessero aiutare a svagarsi in quella stanza erano una radio, delle carte da poker sul tavolino con cui poter giocare a solitario, e dei libri di vario genere.

"Ho trovato anche dei tramezzini, pensavo potreste avere fame." La voce della signorina Murphy mi richiamò dall'ispezione che stavo facendo. Sforzai un sorriso gentile, sentendo la stanchezza invadermi il corpo tutto a un tratto. Non mi ero nemmeno resa conto di quanto tesa e preoccupata fossi, sempre sull'attenti, senza mai poter abbassare la guardia, nemmeno durante il sonno. Afferrai la mano di Jonathan, stringendola però dolcemente; non era un gesto disperato o una ricerca di conforto e coraggio, ma una semplice mossa d'affetto, di amore. Gli rivolsi un sorriso amorevole e tranquillo.
"Grazie, veramente." Afferrai due tramezzini, allungandone uno anche al ragazzo di fianco a me, che accettò con ancora qualche esitazione. Stentava ad abbassare la guardia. "Allora, ci puoi spiegare perché siamo qui? Che cos'è questo esperimento in cui siamo coinvolti?" Ero stufa di avere quelle domande in testa, soprattutto adesso che avevamo trovato qualcuno di affidabile che avrebbe potuto fornirci una risposta a tutto.

"Partiamo dalle basi: sapete dove siamo?" Chiese Josephine, sedendosi di fronte a noi su una poltrona dal lato opposto del tavolino di legno.

Scuotemmo entrambi la testa.

"Ci troviamo su un'isola del Triangolo delle Bermuda." Disse quindi lei alla fine, notando la nostra confusione. "Intorno alle isole c'è un campo magnetico che interferisce con i veicoli che provano ad attraversarlo. Tuttavia, coloro che hanno creato questa città hanno trovato un modo per deviarlo quel tanto che basta per passare." Fece un respiro profondo, prendendo uno dei tre bicchieri che aveva portato e riempiendolo di succo di frutta, intuendo che sarebbe stata una lunga conversazione.
Le mani mi formicolavano, impaziente di sapere cosa avrebbe detto; notando questa mia agitazione, infatti, Jonathan mi strinse un po' di più la mano.

"Un gruppo di scienziati, capitanati da Wilson Jenkins, un miliardario di New York, stanno elaborando una formula per modificare il DNA." Si portò alla bocca il bicchiere, bevendone un sorso. Seppur di breve durata, quelle piccole pause mi sembravano durassero un'eternità; certo, lei non lo faceva apposta a mettermi ansia, ma ero troppo curiosa per stare zitta, infatti chiesi: "Che genere di formula? Cos'hanno in mente precisamente?"

Jonathan era molto più concentrato e attento di me, non si azzardava a fare neanche il minimo suono o movimento, intento a capire se quello che stava dicendo la signorina Murphy fosse vero.

"A quanto pare, coloro che hanno colori particolari degli occhi sono geneticamente migliori sotto alcuni punti di vista." Si indicò il viso, puntandosi un dito verso gli occhi. "Io, infatti, ho scoperto che avendo un occhio azzurro e uno verde sono geneticamente più intelligente e razionale degli altri."
Automaticamente il mio sguardo andò verso Jonathan, dove subito incontrò anche il suo, come se mi avesse letto nel pensiero.

"Ma quindi..." Quella domanda rimase incompleta, dato che la risposta me l'avevano già data.

"Esatto, anche Jonathan ha la stessa qualità genetica." Rispose Josephine, annuendo e sforzando un altro sorriso.

"E gli occhi neri?" Chiesi quasi automaticamente, riportando lo sguardo su di lei.

"Quello non mi è concesso saperlo, posso solo conoscere le abilità genetiche legate alla particolarità del colore dei miei occhi, mi dispiace." Nel suo sorriso percepivo tutto lo sconforto che stava provando in quel momento, conoscendo già quell'espressione: in classe, ogni volta che non riusciva a rispondere a una qualsiasi domanda, le compariva quello sguardo in viso.

"E il freddo?" Finalmente Jonathan si decise a parlare, rivolgendomi una piccola occhiata: aveva deciso di fidarsi, abbassando così la guardia.

"Stanno cercando di spegnere il sole." Rispose Josephine, come se fosse qualcosa di ovvio, intuitivo.

"Stanno accelerando il processo di trasformazione degli atomi d'idrogeno in atomi di elio, in modo tale da garantire la vita agli Homi, esseri cre..."

"Aspetta," la interrompemmo io e Jonathan all'unisono, conoscendo già quegli esseri. Ci rivolgemmo uno sguardo, concordando che continuasse lui a parlare: "sappiamo già chi sono, li abbiamo incontrati mentre vagavamo nella foresta vicino alla spiaggia dalla sabbia bianca." Disse Jonathan, nel frattempo che sul viso della mia ex insegnante passava un'emozione che non riuscii a decifrare in tempo.

"Gli Homi sono creati in laboratorio con pezzi di pelle umana: praticamente una persona decide di offrire parte dell'epidermide, e da lì si cerca di creare un essere umano nuovo, prendendo il patrimonio genetico e lavorandoci sopra." Sembrava tutto così folle, ogni parola che le usciva dalla sua bocca sembrava la trama di un film di fantascienza. "La pelle creata in laboratorio, tuttavia, non riesce a resistere al calore del sole, quindi stanno non solo cercando di evolvere l'intelligenza e la capacità di adattamento degli Homi, ma stanno anche creando un ambiente adatto per loro."

"Perché hanno scelto noi per l'esperimento?" Fu l'unica cosa che mi uscì dalla bocca, condita da un misto di rabbia e paura. "I miei genitori e mio fratello sono morti e per cosa? Per uno stupido esperimento? Che servirebbe a cosa poi?"

"Mi dispiace veramente dirtelo Crystal, ma non saprei il motivo di questo esperimento." Ancora quell'espressione di sconforto sul suo viso, prova che stesse dicendo la verità. "Non so minimamente perché abbiano ucciso tutte quelle persone, né perché abbiano scelto voi due, né quale sia lo scopo di tutto ciò."

Non seppi per quale motivo, ma fu con quelle poche e semplici parole che il mondo mi crollò addosso.

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