10- Sbirri ovunque

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

2 marzo- notte

"Comunque quest'anno le elezioni sono state uno schifo, io non ho fiducia nel futuro".

"Solo quest'anno? Se penso alla politica degli ultimi trent'anni mi viene voglia di scapparmene".

Era mezzanotte, un gruppo di ragazzi del quinto anno si era raccolto in cerchio, mangiando la pizza avanzata e bevendo birra, e la conversazione era virata su discorsi di politica.

Emilia se ne stava con la schiena contro il muro, seduta accanto ad Andrea. Dopo il battibecco avuto con Federico qualche ora prima, aveva deciso di non intromettersi più in nessuna conversazione con temi simili e il ragazzo non aveva cercato la sua attenzione, preferendo chiacchierare con altre persone.

Alessia aveva socializzato con Ruben e Simone, mentre Elia, dopo aver gentilmente rifiutato le insistenti attenzioni di una delle primine ed essersi scolato quattro lattine di birra, si era addormentato in un angolo con la testa sullo zaino e la bocca aperta.

"Stai bene?" domandò Emilia, accarezzando la testa di Andrea.

Dall'inizio dell'occupazione il ragazzo aveva spiccicato forse dieci parole in totale e quei silenzi la preoccupavano.

"Sì sì" rispose Andrea, sforzandosi di sorridere. Non era un bravo bugiardo.

"Che ne dici se ce ne andiamo un po' per cazzi nostri?".

Il ragazzo annuì e insieme si alzarono in piedi.

"Noi andiamo a dormire, buonanotte ragazzi".

Alcuni del Quinto si voltarono a guardare Emilia sdegnati, come a dire "Hai interrotto la nostra conversazione soltanto per darci una comunicazione di cui non ci frega niente?" ed esalarono un sommesso "Buonanotte".

"Buonanotte signora della Digos".

Emilia sentì lo stomaco contorcersi. Si sforzò di non ridere e si limitò a rivolgere una smorfia a Federico.

"Buonanotte, rappresentante" rispose, per poi prendere Andrea per mano e trascinarlo al piano di sopra.

Si sistemarono in un'aula vuota e spostarono i banchi per creare uno spazio abbastanza largo in cui poter dormire. Utilizzarono gli zaini come cuscini ed Emilia tirò fuori una grande coperta in pile dal proprio, avvolgendo entrambi.

"Va un po' meglio ora?".

Emilia aveva saputo da Elia che Andrea aveva preso parte all'occupazione soltanto per stare con lei e in qualche modo si sentiva responsabile per l'angoscia lo attanagliava.

Il ragazzo era sdraiato a pancia in su, lo sguardo fisso al soffitto e le mani incrociate sullo stomaco.

Il buio e il silenzio di quell'aula erano surreali.

"Ti va di dirmi che succede?".

Emilia si accoccolò vicino al ragazzo e gli fece i grattini sul braccio, sapendo quanto egli li apprezzasse e sperando che questo lo mettesse a proprio agio.

"Non lo so" mormorò Andrea. "È che a me queste situazioni mettono un po' d'ansia, sento di star facendo una cosa sbagliatissima e ho paura delle conseguenze".

"Hai paura che possano metterci una nota o sospenderci?".

"Sì, qualcosa del genere, poi si è iniziato a parlare di un possibile sgombero e quello mi ha fatto sentire ancora peggio".

Respiri affannosi si intromettevano tra una parola e l'altra, spezzettando il discorso, e il suo corpo era così rigido da sembrare imbalsamato.

"Scusami, sono un pappamolle, lo so" disse, con una certa tristezza nella voce. "Mi sento pure in colpa a costringerti a stare qui con me, quando magari avresti preferito rimanere giù con gli altri".

"Tu sei tutto scemo". La ragazza si accoccolò sul suo petto e lo abbracciò. "Io voglio stare qui con te e con nessun altro".

Aveva l'orecchio poggiato sul suo cuore. I battiti risuonavano con violenza nella cassa toracica.

"Tu come fai?" domandò Andrea, ammirato. "Sei così coraggiosa, sembra che nulla ti faccia paura".

Emilia accennò una risata. "Fidati, non è così. Fingo, semplicemente. A me non importa se io ho paura, l'importante è che non lo vedano gli altri".

"E di cosa hai paura?".

La ragazza restò in silenzio alcuni istanti. Non era abituata a mostrare le proprie fragilità a qualcuno, a mostrarsi vulnerabile. Emilia era sfacciata, testarda, litigiosa. E a volte dimenticava di essere un milione di altre cose non incasellabili in quei tre aggettivi in cui aveva imparato a riconoscersi.

"Ho paura di perdere le persone a cui voglio bene per qualche mia cazzata. Ho paura di non combinare niente nella vita, dato che non ho mai voglia di studiare e fosse per me nemmeno farei l'università. Ho paura dei conigli".

Andrea non riuscì a trattenere le risate. "Cosa?".

"Sì, i conigli mi mettono un'inquietudine che nemmeno puoi immaginare" esclamò la ragazza, ridendo. Quando fu tornata seria, attese alcuni istanti prima di riprendere il discorso.

"Ho anche paura di mio padre, perché se scopre che sono qui si incazza come una belva. E io odio litigare con mio padre, perché ho paura che se perdo lui poi io rimango da sola".

Andrea non capì. "Rimanere da sola?".

Emilia era abituata a dare quel genere di risposte. Di mamme si parla sempre, soprattutto da bambini e da adolescenti. Eppure raccontare quella triste sventura della sua vita ad Andrea le costò un'enorme fatica.

"Mia madre è morta di tumore al seno quando avevo due anni".

Andrea restò in silenzio. L'aria era così ferma che sembrava avesse smesso anche di respirare.

"Non so cosa dire, Emilia. È terribile, non puoi capire quanto mi dispiaccia".

Tutti si dispiacevano. Emilia era abituata a sentirselo dire. "Povera piccola, che vuoto incolmabile crescere senza una mamma". "Un trauma immenso per una bambina". "Che famiglia sfortunata".

Il dispiacere di Andrea, però, le parve sincero. Il più sincero di tutti.

"Io e mio padre siamo agli opposti, è una cosa incredibile" aggiunse, con un sorriso amaro. "Sei lui dice bianco, io dico nero. Se io dico andiamo al mare, lui dice andiamo in montagna. Una vita intera così e figurati che trauma, da poliziotto, realizzare che sua figlia adolescente è di estrema sinistra".

"Neanche sinistra normale, estrema proprio".

"Ovviamente" rispose Emilia, ridendo. "E quindi boh, non posso davvero dire che mi manca mia mamma, perché non l'ho mai conosciuta. Perdere un genitore a due anni non è come perderlo a dieci e nella tragedia io mi sento persino fortunata. È assurdo, lo so. Però mi piace pensare che lei sarebbe potuta essere un'intermediaria tra me e mio padre, un ponte".

"Com'era?".

"Mio padre dice sempre che le assomiglio tantissimo, sia fisicamente sia caratterialmente. Tranne per l'irascibilità, quella l'ho presa tutta da lui".

"Allora doveva essere sicuramente una persona meravigliosa. E anche molto bella".

Emilia sorrise e abbracciò il ragazzo con ancor più forza. "Grazie".

Restarono abbracciati per un tempo che parve interminabile, avvolti dalla coperta e da un silenzio denso.

E senza staccarsi l'uno dall'altra, scivolarono pian piano tra le braccia di morfeo, in un sonno profondo e senza sogni.

"Svegliatevi subito, cazzo".

Emilia spalancò gli occhi, una voce urlante nelle orecchie e un paio di mani che la scuotevano con violenza.

"Che succede?" biascicò, con la voce impastata e metà cervello ancora addormentato.

"È entrata la polizia" strillò Elia, strappandole di dosso la coperta. "Dobbiamo andarcene subito".

Quella parola fece sparire in un secondo tutto il sonno.

Emilia e Andrea schizzarono in piedi e raccolsero in fretta e furia tutte le loro cose.

"Da dove cazzo usciamo?" urlò Emilia, inseguendo Elia per i corridoi bui. Dal piano terra proveniva un gran trambusto e quei rumori le raggelarono il sangue nelle vene.

"Non lo so, è pieno di sbirri ovunque".

Elia arrestò il passo ed Emilia andò a sbattergli contro la schiena.

"Saba, cazzo".

"Non rompere i coglioni". Il ragazzo si guardò attorno, le pupille che saettavano veloci scrutando ogni angolo. "Dobbiamo capire da dove cazzo si esce".

Andrea era un cencio. Teneva gli occhi spalancati e il suo volto aveva assunto un colore grigiastro.

"Va tutto bene, Andre" mormorò Emilia, stringendogli la mano. Il senso di colpa era insopportabile: se fosse successo qualcosa, non sarebbe mai riuscita a perdonarselo. "Ce ne andiamo da qui".

"Le scale antincendio" esclamò Elia, riprendendo la sua corsa. "Non so se sia una buona idea, ma è l'unica che ho".

Si precipitarono lungo il corridoio, con così tanta adrenalina in corpo da non sentire la stanchezza. In fondo intravidero il portone che conduceva alla scala, con il maniglione antipanico, e la ventina di metri che li divideva da esso parve interminabile. Lo spazio-tempo era dilatato in maniera surreale.

"Fermi". Una voce tonante alle loro spalle li costrinse a voltarsi.

Due agenti della Digos in tenuta antisommossa correvano nella loro direzione, le torce puntate contro e i manganelli in mano.

Andrea si fermò all'istante, come un cerbiatto sulla strada di fronte alle luci di una macchina. Restò impietrito davanti alla luce abbagliante, sempre più bianco, quasi avesse smesso di respirare e il sangue non scorresse più nelle sue vene.

Emilia correva così veloce che fermandosi per poco non inciampò. Guardò terrorizzata i due poliziotti e per istinto si avvinghiò al braccio di Andrea, stritolandolo così forte da lasciargli i segni.

"Oh cazzo". Elia aveva già una mano sul maniglione antipanico, ma, vedendo i due amici rimasti indietro, arrestò la sua corsa. C'era quasi. Era così veloce che sapeva che gli agenti non sarebbero mai riusciti a inseguirlo per le scale.

Emilia e Andrea erano davanti a lui, le loro schiene in controluce e i poliziotti a pochi metri da loro. Li maledisse per essersi fermati, ma ritrasse la mano dal maniglione. Non li avrebbe mai abbandonati lì da soli.

"Mani in alto" urlò un agente, puntando il suo lungo fascio di luce verso Elia, che obbedì senza farselo ripetere due volte.

Emilia per poco non vomitò tutta la pizza mangiata per terra. Avrebbe riconosciuto quella voce tra mille, anche se distorta dal casco davanti alla bocca.

"Papà?".

L'agente si impietrì. Puntò la torcia verso la ragazza e dopo alcuni istanti la abbassò.

"Emilia, che cazzo ci fai qui?".

Emilia sapeva che c'era una sola cosa peggiore che essere beccata dal proprio stesso padre durante uno sgombero notturno in una scuola: essere beccata durante uno sgombero notturno in compagnia di due ragazzi.

"Martucci, cosa facciamo?" domandò l'altro agente, che continuava a tenere la torcia puntata addosso ai ragazzi.

"Intanto abbassa quella cazzo di torcia". Dentro la divisa antisommossa, che gli dava un'aria minacciosa, Giovanni Martucci era un uomo tarchiato e stempiato. "Tu sei diventata totalmente pazza! Come ti è potuto anche solo venire in mente di occupare la tua scuola e di fermarti qua tutta la notte, tra l'altro raccontandomi stronzate come se io fossi un coglione".

"Tanto anche se te l'avessi detto non sarebbe cambiato nulla" strillò Emilia, sotto lo sguardo sbigottito non solo di Andrea, ma persino di Elia. "Non saresti mai stato d'accordo".

"Ovvio che no, ma lo sai che occupare è un reato? Come cazzo ti è venuto in mente, sai anche a livello scolastico quante conseguenze ci saranno?".

"Non me ne importa niente delle conseguenze". La ragazza urlava così forte che la sua gola iniziava a raschiare. "Io sono qua per lottare per i miei diritti, ma tu non hai mai capito un cazzo di queste cose, sei solo uno sbirro che prende a manganellate la gente che non è d'accordo con i valori di questo Stato di merda".

Cadde il silenzio. Giovanni Martucci era in servizio. E in servizio, le faccende familiari non dovevano emergere.

"Portiamoli giù" disse, infine, placando il tono di voce. "Io e te parliamo poi a casa".

Emilia sollevò il mento, fiera. Suo padre rappresentava per lei l'incarnazione di tutti i valori più sbagliati della società: un servo dello Stato, nel corpo di polizia che più di tutti ha il dovere di reprimere il dissenso. Nulla la rendeva più orgogliosa che essere cresciuta stando dalla parte opposta alla sua.

L'altro agente prese Andrea per un braccio e fece per strattonarlo, ma Giovanni lo fermò con un gesto della mano. "Non ti permettere di toccarli. Sanno camminare da soli".

Raggiunsero il piano terra con una sfilata che aveva un qualcosa di funereo. L'atrio sembrava il set cinematografico di un attentato terroristico, con i banchi usati per creare la barricata sparsi per il pavimento, cartoni di pizza e lattine di birra vuote e una decina di agenti in divisa.

"Dobbiamo prendere i vostri dati" esclamò Giovanni, indicando un collega con un plico di fogli in mano. "È più che altro una formalità".

Se nell'atrio la situazione era drammatica, fuori era anche peggio. Via Parini era presidiata da volanti della polizia con le luci blu sguainate e centinaia di genitori, accorsi a recuperare i propri figli, chiedevano preoccupati agli agenti se ci sarebbero state conseguenze gravi.

Il preside se ne stava accanto a una volante tutto fiero, le braccia incrociate sul petto e il suo abito migliore indosso. Emilia avrebbe tanto voluto raggiungerlo e tirargli uno schiaffo in pieno volto, oppure in testa, lasciandogli una bella manata rossa sulla pelata luccicante.

"Emilia, oh Dio". Alessia era a pochi metri dall'amica e, non appena l'ebbe notata, corse ad abbracciarla. "Come state? Eravamo preoccupati per voi".

"Noi stiamo bene" esclamò, sollevata nel rivederla. "Tu sei rimasta da sola? Denisa dov'è?".

"No, c'era Ruben con me. Stavamo quasi tutti dormendo quando abbiamo sentito le volanti arrivare, io me ne sono scappata subito e pure Ruben, mentre Simone e Denisa sono rimasti con Federico, che come al solito doveva fare l'eroe di 'sto cazzo". Indicò con il pollice una volante. "Ora sono tutti lì, vedi? Vogliono portare Del Boca in questura".

"Merda" mormorò Emilia, senza reale stupore. Era scontato che sarebbe successo ed era certa che Federico sarebbe riuscito, persino da un episodio come quello, a trarne qualcosa di positivo per la propria immagine.

"Comunque scusami se non sono venuta a chiamarti" mormorò Alessia, mortificata. "Ma lo sai che sono lenta e avrei solo peggiorato le cose. Appena abbiamo sentito le sirene Elia è schizzato in piedi ed è corso a chiamarvi a una velocità che non ho mai visto in un cristiano".

Emilia ed Elia si scambiarono uno sguardo d'intesa e la ragazza sorrise, grata.

"Tranquilla Ale, non ti devi scusare di nulla. In queste situazioni di panico è tutto un casino, l'importante è che ora stiamo tutti bene".

"Merda" mormorò Elia. "Se lo stanno portando via"

Le ragazze si voltarono a osservare la scena. Federico venne caricato su una volante, che partì a tutta velocità con le sirene spiegate.

"Povera Den" esclamò Alessia, notando l'amica in lacrime, abbracciata a Simone. "Vado da lei".

La raggiunse di corsa e nel mentre molte persone si allontanarono, lasciando la via sempre più vuota. Quella scena rappresentava la ritirata degli sconfitti.

"Quindi finisce così". Elia sembrava sereno, nonostante tutte le peripezie vissute. A stonare c'era solo una leggera nota di delusione nella voce. "Bello".

"Bellissimo" aggiunse Emilia, ancora sotto shock.

Rivolse un'occhiata di sottecchi ad Andrea. Non aveva ancora detto una parola, ma aveva ripreso un po' di colorito.

"Ehi bimbo, come stai?" mormorò, abbracciandolo dalla vita e dandogli un bacino sul naso.

Il ragazzo sorrise e appoggiò la propria fronte alla sua. "Meglio, meglio".

Il senso di colpa che Emilia provava nei suoi confronti si affievolì pian piano. Era riuscita a mantenere la promessa: alla fine era andato tutto bene, o almeno, al meglio che potesse andare, date le circostanze.

"Attenti, che vi vede Martucci Senior" esclamò Elia, intromettendosi tra i due.

Andrea si ritrasse come colpito da un taser ed Emilia scoppiò a ridere.

"Comunque, Emilia". Elia si portò una mano al petto, con aria d'importanza. "Quando le cose sono evidenti io non ho problemi a riconoscerlo. C'hai delle gran palle, te lo devo dire".

"Non si dice a una ragazza che ha le palle" lo corresse Andrea, guadagnandosi uno sguardo fiero da Emilia. "È una cosa sessista, devi dirle che è coraggiosa, non che ha degli attributi maschili".

"Mamma mia, che scassa maroni tutti e due" esclamò il ragazzo, provocando una risata negli altri. "Vedete, non è colpa mia che non so fare i complimenti, siete voi che non sapete accettarli".

"Ecco, ho portato qua Denisa così fate un po' ridere anche lei". Alessia, con Denisa, Ruben e Simone al seguito, si intromise nella conversazione.

"No, Den" esclamò Emilia, abbracciando con forza l'amica. "Andrà tutto bene, vedrai. Federico è uno tosto e anche questa volta cadrà in piedi".

Nel dirlo, un brivido le attraversò la spina dorsale.

"Lo spero tanto" singhiozzò la ragazza, sforzandosi di sorridere. "Mamma mia che nottata, non ne posso più".

"A chi lo dici" intervenne Andrea, esausto.

La stanchezza si leggeva negli occhi di ognuno di loro. Avevano addosso due ore di sonno e, oltre a non aver dormito molto, erano anche stati costretti ad affrontare uno sgombero da parte della polizia.

"Sapete che vi dico" esclamò Ruben, battendo le mani. "Secondo me dovremmo andarcene tutti a casa a farci un bel sonnellino".

Nessuno degli altri fu contrario all'idea. Telefonarono ai loro genitori per farsi venire a prendere e si salutarono con abbracci affettuosi, rassicurandosi a vicenda sulle conseguenze di quella nottata.

"Allora, ciao" mormorò Emilia, rivolgendo un sorriso ad Andrea.

"Ciao" rispose quello, con una risata nervosa.

Si guardarono negli occhi, in silenzio. Non avevano bisogno di parlare per ribadire quanto fosse speciale quello che era accaduto tra loro quella notte.

"Buonanotte, Andrea".

"Buonanotte" mormorò il ragazzo, torturando il proprio labbro inferiore con i denti. "Sono davvero felice di averti incontrato".


Spazio autrice

Ehilà lettori, grazie per aver letto questo capitolo! Tra mille casini, l'occupazione al Massimo D'Azeglio si è conclusa. Vi aspettavate tutto questo? Secondo voi ci saranno conseguenze?

Tutte le risposte le troverete nel prossimo capitolo. A venerdì❤️

Baby Rose

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro