Capitolo 46: La nuova casa

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Andando a prendere alcune cose di cui avevo bisogno dal reverendo, diedi un'occhiata a Salem che si rialzava a un nuovo giorno e a una nuova vita, ormai del tutto lontana dai tragici eventi del giorno prima. Solo nella piccola casa della strega che avevo fustigato, il tempo sembrava essersi fermato al tragico momento in cui la ragazza era stata riportata a casa priva di sensi e lorda di sangue.
Ciò che rimaneva ancora della mia coscienza mi aveva spinto a offrire il mio aiuto a Sara, mentre il profondo egoismo maturato in me nei secoli non voleva separarsi da quella luce che avevo scoperto nel posto più oscuro del mondo; così trovai un compromesso che mettesse d'accordo entrambe le parti della mia anima e decisi di avvisare la famiglia della ragazza che si era ripresa, ma che aveva ancora bisogno delle mie cure.

I suoi genitori ringraziarono Dio per il miracolo ricevuto. Pensavano che fosse merito delle loro preghiere se Sara avesse riaperto gli occhi quella mattina, ma la verità era che Dio non c'entrava assolutamente niente, non era stato lì a proteggerla quando veniva accusata, torturata e neanche quando mi fu portata via.
Dio non si era mai curato di lei.

«Eccellenza, vi ringraziamo» mi disse il reverendo. «Suor Rose ci ha detto che state vegliando su di lei per evitare che il maligno se ne impossessi, ora che è così debole.»
«Mi occuperò di lei fino a che non starà meglio e poi me ne andrò,» specificai con il solito cipiglio cupo e gelido, cercando di convincere me più che loro «ma ho bisogno di alcune cose per poterla curare. Non avete nessuno qui che ricopre il ruolo di medico o cerusico?»

«No, eccellenza, l'ultimo è stato accusato di stregoneria e bruciato, ma se mi dite cosa vi occorre vedrò di procurarvelo.» Il reverendo era felice che Sara stesse bene, l'aveva vista crescere e diventare la donna buona e piena di luce che era. «Vedremo di procurarvi anche un alloggio in cui spostare la ragazza.»
«Va bene» annuì pensieroso. «Avete qualche conoscenza di erboristeria? Mi servono delle determinate piante.»

Molto del lavoro lo avrebbe fatto il mio potere, ma dovevo comunque fingere che la stessi curando normalmente, utilizzando i comuni mezzi disponibili in quell'epoca tanto arretrata. Non potevo far nulla di strano o sarebbe stato solo peggio, avrei condannato entrambi e così facendo l'avrei persa per sempre.

«Abbiamo un orticello dietro la chiesa in cui coltivo diverse erbe, altre le posso procurare dai paesani» annuì lui, sinceramente grato che mi occupassi di Sara e che stessi cercando di aiutarla.

«Vi scriverò una lista di cosa mi serve, intanto darò un'occhiata al vostro orto» spiegai serio guardandomi attorno, incuriosito dalla reazione dei paesani a ciò che era successo il giorno precedente. Nulla sembrava essere mutato in loro; una vita si era spenta in modo atroce, una ragazza era stata torturata fino quasi a essere uccisa e altre due avevano corso il rischio di fare la stessa fine, eppure la gente sembrava essere completamente estranea a questi eventi, forse troppo avvezza a scene simili e troppo condizionata dal timore di poter finire sotto accusa. Lì le emozioni duravano davvero poco.

«Certo, eccellenza, venite, vi faccio strada» mi invitò il reverendo, facendomi segno di seguirlo.

Presi dall'orto ciò che mi serviva e ringraziai l'uomo, per poi tornare celere dalla ragazza, conscio della precarietà delle sue condizioni.

Mi sentivo diverso, dopo anni che non mi prendevo cura di nessuno fuorché di me stesso, mi ritrovavo a darmi da fare in quel modo per una comune mortale, spinto da qualcosa di strano che ancora non sapevo spiegarmi.

In vita mi ero trovato spesso a fare i conti con la precarietà della condizione umana, avevo vissuto in un'epoca ancora più arretrata di quella in cui era vissuta Sara e avevo condotto un'esistenza piuttosto pericolosa. Avevo avuto spesso a che fare con ferite mortali, dovendo quindi imparare per necessità a prendermi cura dei miei compagni e degli uomini sotto il mio comando.
Con lei avevo di nuovo l'occasione di fingere di essere davvero un mortale, potevo tornare a essere l'uomo che ero stato un tempo, trovando davvero semplice essere quel me stesso di un tempo.
Avevo interpretato i ruoli più svariati in quei duecento anni, e poter tornare a vestire i panni che avevo dismesso il giorno della mia morte, non dover fingere di essere un temibile mietitore di anime, era una sensazione inebriante.

Il reverendo, prima di congedarmi, mi aveva indicato una casa abbandonata. La famiglia che vi abitava era stata stroncata dalla febbre, una cosa piuttosto comune in quell'epoca. C'era da sistemarla, ma potevo usarla come dimora provvisoria e per curare la ragazza, dopotutto la sua famiglia non poteva certo trasferirsi in chiesa.

Per l'epoca era improponibile che una donna non sposata vivesse sotto lo stesso tetto di un uomo che non fosse suo parente. Era ammissibile solo se l'uomo era un messo del Signore o se lei fosse ammalata. In quel caso erano vere entrambe le cose, anche se il Signore che servivo non era lo stesso da loro venerato, per cui nessuno avrebbe osato macchiare la sua reputazione o opporsi alla soddisfazione della mia volontà.

Valutai la casa e mi feci un'idea dei lavori da fare. Sara non si sarebbe svegliata se non qualche ora più tardi e, anche se messa male, in giornata sarei riuscito a metterla abbastanza a posto da trasferirla in serata o il giorno successivo.

Chiesi di preparare un carro con il quale poter trasportare la ragazza da casa dei suoi genitori a quella nella quale mi sarei preso cura di lei. Solo adesso che ci ripenso mi rendo conto di essermi innamorato di quel luogo sin dal primo sguardo, pur non sapendo che in breve tempo avrei iniziato a identificarla come la nostra, un posto solo mio e suo che potevo davvero considerare come tale.
Un posto dove mi sentivo a casa, purché ci fosse anche lei.

Chiesi aiuto per sistemarla ai paesani, consapevole che non avrebbero negato nulla a un potente inquisitore, terrorizzati come erano dal mio potere sulle loro vite e su quelle dei loro familiari, chiedendo in prestito lenzuola pulite, della legna, del cibo e dell'acqua. Ci mettemmo solo qualche ora per fare i lavori necessari, per cui non rimasi molto lontano da lei.

Le cambiai le fasciature, approfittando per conversare un po', per poi darle di nuovo la stessa tisana che le avevo somministrato la volta precedente e a cui attribuivo ufficialmente i suoi miglioramenti. Attesi che si addormentasse di nuovo prima di tornare a occuparmi della casa, così da sistemare le ultime cose.

Ritornai da lei verso sera, pronto a trasferirla.
«Sei tornato» mi disse sorridente, come se quel semplice evento così banale e insignificante la rendesse felice, puntandomi addosso quei grandi occhi color miele colmi di gioia. Si emozionava per ogni cosa, soprattutto per quelle che per tutti gli altri non avevano nessun valore.

«Te lo avevo detto che sarei tornato» le risposi con un sospiro rassegnato, per quanto nascondessi un sorrisetto divertito. «Ora dobbiamo trasferirti in un altro alloggio per qualche giorno. Lì continueremo le tue cure fino a che non sarai guarita» le annunciai osservandola. «Te la senti? Non è distante, ma comunque lo spostamento potrebbe causarti problemi alle ferite che hai sulla schiena.»

I segni delle frustate che le avevo inferto non si erano ancora del tutto chiusi. Camminare, o anche spostarsi con il carro, di certo non le avrebbe giovato, era piuttosto probabile che qualcuna delle ferite potesse tornare ad aprirsi e nel migliore dei casi gli scossoni le avrebbero causato dolori e sofferenze.

Usare i miei poteri infernali per spostarla in modo indolore era assolutamente fuori questione. Ero costretto ancora una volta ad assistere impotente mentre le facevo del male.

«Se preferisci possiamo farlo domani mattina.» L'idea di vederla soffrire ancora probabilmente mi innervosiva più di quanto innervosisse lei, ancora stordita da erbe, dolore e febbre.

«Cambierà qualcosa sulla mia schiena tra adesso e domani mattina?»

«No, non cambierà nulla, ma la scelta è comunque tua» specificai incrociando le braccia. «Quando saremo lì ti darò anche una pulita, se me lo permetterai.»

«Allora tanto vale che mi trasferisca stasera. Immagino che la mia famiglia voglia tornare a casa; ho già causato loro fin troppi problemi e imbarazzo.» La sua espressione divenne più triste e distolse lo sguardo. Era loro grata per tutto, ma non desiderava incontrarli, temeva il loro giudizio più di qualunque altra cosa. Era stata accusata di stregoneria e adesso era sfregiata, credeva di essere solo un peso e una vergogna per la sua famiglia. Nessuno l'avrebbe più voluta e avrebbe dovuto sopportare il loro biasimo per il resto della vita. Sapeva di non poter sopportare, ma in quel momento non aveva abbastanza forza per pensare a una soluzione, voleva solo essere grata per la vita che le era stata concessa.

«Non credo che per i tuoi genitori sia un problema purché la loro bambina sia ancora viva e vegeta» sbuffai io indovinando i suoi pensieri, mentre recuperavo alcune delle cose che mancavano nell'altra casa. «Metto questo sul carro e poi vengo a darti una mano per alzarti in piedi, se non ce la dovessi fare da sola.»

«Nessuno mi vorrà in moglie» constatò. «Graverò su di loro per il resto della mia vita, ma ti sono comunque grata per quello che hai fatto e stai facendo per me.»

La guardai mentre si alzava. La potevo aiutare, ma era tenace ed orgogliosa e la lasciai fare osservandola. «Troverai un buon marito, di certo non ti mancano le qualità, e poi quella cicatrice non la vedrà nessuno, tranne tuo marito.»

«Non è solo la mia schiena, sono stata accusata di essere l'amante del diavolo e quei segni ci sono anche sulla mia reputazione e sulla mia anima. Nessuno vorrà sposare una concubina di Satana e mettere a repentaglio sé stesso e la propria famiglia» confidò guardandomi, per poi stringere le labbra, in difficoltà. Aveva timore di chiedere il mio aiuto, non era vissuta in una società molto moderna, lei era una donna ed io un uomo, era un essere senza diritti, non avrebbe potuto neanche sollevare lo sguardo di me e già si prendeva molte libertà che non le erano concesse.

«Credo che qui sappiano tutti che erano solo le parole di Parris perché voleva portarti nel suo letto» ribattei avvicinandomi a lei, dopo aver messo sul tavolo quello che avevo raccolto e portandomi al suo fianco per aiutarla. «Sei una bella donna, hai carattere e sei intelligente. Per quanto molti dei cittadini di questo posto siano degli stupidi, magari uno di essi non lo sarà così tanto e vedrà...» mi fermai, come a cercare una parola adeguata «... la luce che emani» conclusi, distogliendo lo sguardo dal suo.

«Tu la vedi?» mi chiese ingenuamente, portandomi il braccio dietro al collo per aiutarsi.

«Sì, la vedo» ammisi in tono più basso, continuando a tenere distolto lo sguardo. Abituato all'oscurità dacché ne avessi memoria, vedere lei era come osservare direttamente la luce di un faro o quella del sole stesso, una brillantezza e intensità tale da accecarmi gli occhi e scaldarmi il cuore.

«Allora deve essere vero.» Sorrise, persa in chissà quale fantasia.

«Perché deve essere vero?» domandai perplesso, senza capire la sua frase mentre la portavo all'esterno.

«Perché tu riesci a vedere le tenebre che ti circondano, quindi se dici di vedere la luce che le dissipa allora non posso non crederti.» Si voltò a guardarmi con quei grandi occhi color miele, irradiandomi di luce e di una sensazione di benessere che non riuscivo a spiegarmi.

Non risposi, distogliendo nuovamente lo sguardo e ammutolendomi. Aveva terribilmente ragione, aveva capito in che razza di mondo mi muovessi e quanto questo potesse corrompere ed eclissare l'anima di un uomo e non la spaventava. Chiunque altro sarebbe fuggito, lei invece voleva mostrarmi la strada che conduceva all'uscita.

La issai sul carro e la feci stendere a pancia sotto sul giaciglio che le avevo preparato, coprendola come potevo per non farla ammalare, per poi, senza dire una parola, prendere il mulo che lo trainava e iniziare a tirarlo verso la strada. Non dissi nulla per tutto il tragitto e neppure risposi alle sue domande.

Neanche sentivo la sua flebile voce, avevo per la mente le sue parole e ancora ci stavo riflettendo, mi risuonavano nella testa come un'eco.

Arrivammo di fronte a quella che sarebbe diventata la sua casa di cura e tornai ad avvicinarmi a lei con l'intenzione di aiutarla. Aveva l'espressione rammaricata, credendo forse di aver offeso chi le aveva salvato la vita e la stesse aiutando.

La portai dentro praticamente di peso e l'adagiai sul letto. «Come va la schiena?»
«Fa un po' male.» Doveva farle parecchio male, in realtà, ma lei aveva visto il mio malumore e non voleva peggiorare la situazione con le sue lamentele, considerandole banali e superflue.

«Stenditi e fammi vedere» ordinai a bassa voce. «Dopo ti dirò cosa fare per pulirti, ti lascerò tutto quello che ti serve e se dovessi aver bisogno di aiuto basta che tu me lo dica.» Non sarebbe stato semplice farle mettere da parte la mentalità arcaica con cui era stata cresciuta e la sottomissione che mostrava nei confronti degli uomini, ma avrei almeno tentato di liberarla da quelle invisibili catene sociali con le quali l'avevano repressa per tutta la sua esistenza.

Si stese obbediente con una smorfia di dolore e io iniziai a toglierle le bende , osservando le ferite: erano messe sicuramente meglio della prima volta che le avevo viste ma si erano per gran parte riaperte a causa degli scossoni del viaggio e avevano ricominciato a sanguinare.

«Ti pulisco la schiena e ti rifaccio le medicazioni» spiegai lanciandole un'occhiata senza fare cenno allo spettacolo che stavo osservando e alla possibilità che la febbre potesse tornare a salirle. Se fosse stata all'oscuro della reale situazione sarebbe stato molto più semplice intervenire con i miei poteri in suo favore. «Nel frattempo preparerò da mangiare, non sarà un granché, ma ti aiuterà a guarire più in fretta.»

Misi di nuovo l'acqua sul fuoco con infuse alcune erbe disinfettanti e antisettiche per fare scena, per quanto tali proprietà fossero ancora ai più sconosciute in quell'epoca, dopodiché mi avvicinai nuovamente a lei.

Strinse i denti, sapeva che le mie cure avrebbero fatto molto male e iniziavano a formarsi anche gli ematomi intorno ai segni lasciati dalla frusta. «Sono pronta, inizia pure quando vuoi.»

Appena la toccai si irrigidì e tremò con un gemito. Le lacrime iniziarono a scendere mentre serrava le dita sulle coperte. Non disse una parola, intenzionata a sopportare in silenzio.

Continuai imperturbabile a pulirle le ferite, cercando di essere celere, preciso e delicato. Conoscevo benissimo il dolore che stava sentendo, avendolo provato anche io nell'arco della mia lunga vita, per questo non mi fermai neppure un attimo, avrei solamente allungato la sua sofferenza. Pulì meticolosamente, terminando poi con un sospiro scocciato, irritato dal non poter usare i miei poteri per aiutarla a guarire subito e completamente.

«Ho finito» le annunciai con un tono che tradiva la mia frustrazione.
Non si lamentò, né mi chiese di fermarmi, sopportò tutto in silenzio. Alla fine era stremata, con il lenzuolo stretto tra le dita e il viso arrossato premuto sul letto rigato dalle lacrime, ancora rigida e tremante.

«Vuoi che ti aiuti a darti una pulita?» domandai accucciandomi all'altezza del suo volto. «Ovviamente nei limiti del pudore» aggiunsi calmo, spostandole i capelli incollati al volto.

Annuì debole «Sì... non credo di farcela da sola.»
«Va bene» risposi mentre andavo a buttare il panno sporco di sangue per prenderne un altro pulito dall'acqua calda, impregnato di olii essenziali più consoni alla pulizia, per quanto comunque utili per le loro proprietà. «Ti farà decisamente meno male» la rassicurai mentre mi sedevo accanto a lei, iniziando a passare il panno caldo con più delicatezza sulle spalle e sulle braccia, togliendole sangue e sudore.

Sara si irrigidì al contatto, scossa da brividi, ma piano piano iniziò a rilassarsi, sospirando.
«Va meglio?» domandai pulendole le braccia e le mani per poi passare il panno sui fianchi senza toccare le ferite.

«Molto meglio... è piacevole.» Il suo sorriso tornò ad accendersi, appena accennato, mentre si rilassava chiudendo gli occhi, scaricando tutta la tensione e la sofferenza che ancora una volta le avevo impartito.
Passai sulle gambe, pulendole anche quelle, tralasciando ovviamente le parti più intime. Già questo contatto era a dir poco considerato indecente, ma era troppo stravolta per poter obiettare qualcosa.
Appena finii alzai lo sguardo su di lei. «Come facciamo per la parte davanti, vuoi pulirti da sola?» domandai senza nessun tono in particolare.

«Non riesco a sollevarmi» mi disse lei tranquilla, riaprendo gli occhi. «Ha un buon profumo» constatò osservando il panno che avevo in mano.

«È lavanda» le rivelai spostandomi appena, in modo da afferrarla per un braccio per aiutarla ad alzarsi in piedi, per poi andare a recuperare un altro panno per coprirle il petto. «Ha diverse proprietà... sai... era da tanto che non mi prendevo cura di qualcuno, mi mancava» ammisi, più a me stesso che a lei.

«Allora devo essere molto fortunata» si tenne il panno stretto davanti, imbarazzata da quella situazione indecente.
«Te lo dovevo» risposi distogliendo lo sguardo dal suo, pulendole il collo e sopra il petto, scendendo poi sull'addome con delicatezza e lentezza, rialzando lo sguardo su di lei e fissandola attentamente.

Aveva il respiro alterato ed era arrossita. Credo che nessuno l'avesse mai toccata prima di quel momento e non sapeva cosa fare. Tremava e aveva la pelle d'oca, mentre si sforzava di non sollevare lo sguardo e tenere l'attenzione concentrata su un punto qualsiasi della stanza.

Io, al contrario, non le tolsi per un attimo lo sguardo di dosso, restando serio e attento, come a voler sondare i suoi stessi pensieri. Indugiai sull'addome qualche altro istante, prima di chinarmi di fronte a lei, passando a pulirle le gambe, scivolando lentamente all'interno del ginocchio e risalendo l'interno coscia, senza staccarle gli occhi di dosso.

Arrossì fin sopra la punta delle orecchie, in completo imbarazzo. «Credo... credo di poter continuare da sola, grazie» si affrettò a dire incespicando con le parole.

Accennai un sorriso per poi alzarmi divertito e porgerle il panno. «Vado a preparare la zuppa, non hai ancora mangiato oggi» dissi come se niente fosse, voltandomi e dirigendomi verso il cucinino.
Decisamente se non mi avesse fermato lei non lo avrei fatto io, ma era stato meglio così, le sue condizioni fisiche erano piuttosto precarie.

Lei mi guardò allontanarmi, prima di riscuotersi e pulirsi come poteva e fin dove riusciva a giungere senza far riaprire le ferite. La vidi dalla cucina dare un'occhiata ai suoi vestiti laceri e sudici e corrucciare la fronte.
«Se vuoi dei vestiti puliti ci sono sul tavolino accanto al letto» le dissi senza voltarmi, iniziando a organizzare la zuppa per la cena.

Mi lanciò un'occhiata, coprendosi meglio per poi afferrare i vestiti puliti ed altalenare lo sguardo tra loro e me. Non sarebbe stato semplice per lei indossarli ma dubitavo volesse il mio aiuto, a dire il vero sembrava si preoccupasse che la guardassi.

«Esco un attimo, così hai il tempo di cambiarti con calma» l'avvisai, infatti, senza voltarmi uscendo poi dalla casa, sentendo a mia volta il bisogno di prendere un po' di aria.
Ero abituato a corrompere e sedurre e il tutto mi era venuto spontaneo, come se stessi giocando, ma appena avevo sentito la sua voce mi ero bloccato. Era decisamente tutto diverso con lei.

Le diedi il tempo necessario prima di rientrare. Si era vestita con le sottovesti che le avevo dato, unico indumento che si chiudesse sulla schiena. Essendo ferita e bisognosa di cure e dovendo restare a letto era inutile che indossasse vestiti particolarmente complicati da togliere, l'importante era che fossero puliti.

Indossava solo quel sottile strato di tessuto e teneva i capelli sciolti, senza cuffia. Quando entrai, la sua reazione fu incrociare le braccia davanti per coprirsi e distogliere lo sguardo, ancora rossa in volto.

«Stai tranquilla, non farò più nulla di scomodo o che possa essere frainteso» la rassicurai tornando alla cucina. «Sdraiati di nuovo, dopo passeremo a lavarti i capelli.»
All'epoca i capelli non venivano mai lavati ed erano un nido perfetto per sporcizia o peggio. Di certo non era positivo lasciarli in quelle condizioni, considerato che erano anche macchiati dal sangue.

Si sedette sul letto, tenendomi gli occhi addosso. «Mi dispiace non poterti aiutare, sono brava come cuoca.» Stava provando a cambiare argomento, quello era il suo modo per dire che non aveva importanza cosa fosse successo, aveva capito che non avevo cattive intenzioni. «Sono veramente esausta, non servo a molto in queste condizioni.»
«Allora cucinerai quando starai meglio, non sono abile in questo ambito» risposi sogghignando. «Hai mai lavato i capelli?» domandai tornando a guardarla.

«Qualche volta, quando il clima è più caldo» ovviamente stava parlando di bagnarli con l'acqua e la cenere, per poi lasciarli asciugare vicino al fuoco.

«Sono in pochi a farlo» osservai mentre mi avvicinavo con un catino d'acqua. «Dopo dovrai stare vicino al fuoco per asciugarli mentre mangiamo» spiegai prendendo un piccolo flacone contenente un liquido semitrasparente. «Conosci la saponaria? Un piccolo fiore rosa che qui si trova abbastanza facilmente» la informai sedendomi accanto a lei. «Con esso si può fare un... tonico, diciamo, che serve per pulire i capelli meglio della cenere. Ti va bene se lo uso?»

Annuì. «Sì, va bene.»
Le donne non lavavano spesso i capelli, soprattutto d'inverno, perché non avendo modo di asciugarli rischiavano una polmonite, ma l'aria non era molto fredda in quel periodo e accendendo il fuoco non avrebbe corso rischi. Non che io lo avrei permesso. Si fidava di me, si affidava a me, e questo mi creava strane sensazioni. Per la prima volta avevo qualcuno che dipendeva da me e della quale dovevo prendermi cura e tutto mi sembrava diverso, quasi fosse una novità di qualcosa che non avessi mai provato, o che forse non ricordavo più, ma che trovavo decisamente piacevole e interessante.

«Devi spostarti un po' più verso di me, per evitare di bagnare il letto» le consigliai iniziando poi a bagnarle i capelli con l'acqua calda prima di usare la saponaria per iniziare a pulirglieli e infine risciacquarli con altra acqua appena tolta dal fuoco. «La saponaia la puoi usare anche per pulirti normalmente, ma devi fare attenzione ad usarla perché potrebbe darti fastidio, tipo come l'ortica, ti è mai successo di toccarla e poi grattarti? Più o meno è lo stesso effetto» spiegai, conoscendo gli effetti tossici della pianta se usata erroneamente.

Lei ascoltava rapita le mie spiegazioni. Lo aveva sempre fatto, le piaceva ascoltare e imparare.
«Sai davvero tante cose» mi disse, spostandosi più verso di me e puntandomi gli occhi addosso.
«Questa è medicina, un rimedio naturale per aiutare gli altri, semplice. Era quello che sarei dovuto diventare e che ero, in un certo senso. Poi le cose sono cambiate» mormorai chiudendo il discorso e avvolgendole i capelli in un panno asciutto. «Sei curiosa, ti piacerebbe imparare?» domandai inarcando un sopracciglio.

«Mi insegneresti?»

«Se vuoi, ma non avrò molto tempo per insegnarti, non posso fermarmi a lungo qui» valutai distogliendo lo sguardo, alzandomi e dirigendomi poi verso la cucina, iniziando a prendere le ciotole con la zuppa. «Non so poi se tornerò mai qui a Salem in futuro, ma se conoscessi i rudimenti per curare potresti aiutare il reverendo. Immagino tu non sappia né leggere né scrivere.» Poggiai la ciotola avvicinandomi poi a lei. «Sarebbe meglio che mangiassi la zuppa al tavolo» constatai avvicinandomi per aiutarla ad alzarsi. «Ti avviso, non avrà un buon sapore.»

«Mi piacerebbe poter fare del bene e aiutare il prossimo.» Strinse le labbra, lasciandosi aiutare senza obiettare. Tuttavia notai che qualcosa in quello che le avevo detto le fosse dispiaciuto.

«Una donna non dovrebbe saper leggere e scrivere, ma ti insegnerò ciò che posso prima di partire. Adesso mangia, ne hai bisogno, poi va a dormire. Domani vedremo che cosa fare» affermai pensieroso, senza curarmi di cosa l'avesse incupita. Con il senno di poi mi sarebbe stato fin troppo chiaro che riguardasse la mia partenza, ma non ci pensai, forse perché non volevo pensarci.

Lei mi obbedì con la più ceca e assurda fiducia. «Resterai con me? Mentre mi addormento.» Mi guardò speranzosa e io non potei fare a meno di accennare un sorrisetto, intimamente soddisfatto.

«Nel tuo stesso letto? Come stanotte?» Avevo una stanza tutta mia, ovviamente, ma non potei fare a meno di provocarla.

«Solo mentre mi addormento.» Posò il cucchiaio, aveva paura, glielo leggevo sul viso, non voleva restare sola. «Non voglio riaprire gli occhi e trovarmi in quella cella» mormorò a voce bassa, come se si vergognasse. Aveva subito un trauma e per quanto lo stesse affrontando bene ne era comunque innegabile la presenza. Ricordo molte notti in cui si svegliava piangendo, spaventata, credendo di essere ancora sotto il giogo di Parris, pronta a essere frustata e arsa viva.

Le era stato sempre difficile dormire quando non c'ero o stavo via per lunghi periodi. Solo se le ero accanto riusciva ad avere un sonno tranquillo e me ne accorsi solo più avanti di quanto la mia presenza fosse per lei protettiva. «Tranquilla, resterò qui fino a che non ti sarai addormentata. Finisci tutta la zuppa, poi va a letto. Resterò finché non ti addormenti.»

«E al risveglio? Ci sarai ancora?» chiese ansiosa.

«L'idea era di andare a dormire nel mio letto nella stanza accanto, ma posso rimanere a dormire sulla poltrona accanto al camino, se ti fa stare meglio» proposi guardando poi le fiamme.

Abbassò lo sguardo, colpevolizzandosi per quella richiesta che non si sentiva in diritto di poter fare. «Penserai che io sia una sciocca, non ho il diritto di chiedertelo.»

«Sto qui volentieri, non ti preoccupare. Se ti fa stare meglio resto qui,» la rassicurai sedendomi sul divano «non vado da nessuna parte.»

«Mi fa stare meglio.» Riprese il cucchiaio, un po' più rincuorata dalla mia promessa. «Se ci sei tu mi sento... protetta, al sicuro, so che niente potrebbe farmi del male» mi confidò ricominciando a mangiare.

«Non lo permetterei» confermai guardando le fiamme. «Nessuno ti farà del male, te lo garantisco.»

Ci credevo davvero, pensavo veramente di poterla tenere al sicuro, di essere la cosa peggiore che quel mondo avesse mai conosciuto, ma commisi un errore di valutazione che costò caro a entrambi e di cui ancora oggi non riesco a perdonarmi.
Per lei quelle parole invece suonavano vere e sincere, tanto che sembrò rilassarsi, riuscendo così a finire la cena.

Finii anche io, per poi mettere via tutto mentre lei si stendeva sul letto e io sulla poltrona, osservando il fuoco.
«Cerca di riposare, ne hai bisogno» le dissi in tono calmo.

Chiuse gli occhi obbediente e davvero stremata, provando ad addormentarsi e riuscendoci senza troppi sforzi.
Le lanciai un'occhiata attenta, senza rischiare che lei se ne accorgesse. Nonostante tutte le donne con cui potevo contare di essere stato, lei era decisamente diversa e riusciva a tenere ben vincolata la mia attenzione. Già il solo fatto che avesse bisogno di me per rilassarsi e addormentarsi era un qualcosa che mi dava una strana sensazione. Vederla tranquilla e senza paura grazie alla mia presenza mi faceva sentire strano. Aveva bisogno di me ed era tanto che non accadeva. Era piacevolmente strano essere così necessario per qualcuno. Ero avvezzo alla morte, alla paura e all'odio e ormai mi ero abituato a quella vita.

Avere qualcuno che ti sorrideva spontaneamente e che provasse in un certo qual modo affetto era decisamente bello. Eppure non potei fare a meno di chiedermi se quello stesso sorriso e quel bisogno che aveva di me sarebbe rimasto immutato se avesse saputo chi fossi veramente. Mi rabbuiai a quel pensiero, rendendomi conto che non volevo lo sapesse, che non desideravo vedere sui suoi occhi il terrore e la paura, il rifiuto e il disgusto. Già allora mi resi conto che non avrei mai voluto affrontarlo. Era meglio non lo sapesse, che continuasse a credere fossi l'uomo pio che aveva conosciuto.

Non avevo ancora capito quanto lei avesse bisogno di me e quanto io di lei. 

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