Gennaio 1668

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Paolo era di fronte a lei, ai suoi occhi sognanti. Non proiettava ombra e Galatea era attenta a questi dettagli per evitare di fare figuracce davanti ai cortigiani. Eros era incomparabilmente bello quando assumeva per lei le fattezze del suo Paolo. La sua presenza le faceva dimenticare la lontananza dall'oggetto reale del suo amore e, contemporaneamente, accresceva ogni minuto di più il desiderio di vederlo e di parlargli. Perché la contemplazione aveva molti aspetti positivi, ma un solo aspetto negativo li controbilanciava tutti: l'irrealtà, la vacuità dell'immagine che si presentava allo sguardo innamorato facendo più rapidi i battiti del cuore.

Galatea aveva potuto vederlo di persona due giorni prima; un'eternità prima, avrebbe potuto dire. Avevano chiacchierato un po' del nulla e avevano percorso i giardini senza tenersi per mano: non dovevano dare nell'occhio e una confidenza inusuale avrebbe attirato più facilmente i pettegolezzi che il miele le mosche. E lei, questo, non lo voleva. Era proprio il segreto a conferire al loro amore il tocco superlativo: nessuno avrebbe dovuto sapere, eccetto ovviamente persone fidate come Bice. Bice sapeva tutto perché Galatea, dopo ogni incontro, correva a raccontarle di cosa si era parlato e di quanto lui fosse bello e gentile e rispettoso. Tutte cose che Bice sapeva già, ma non si stancava mai di ascoltare. Da quando il suo Giovanni aveva troncato la loro relazione si sentiva vuota, come se là dove teneva il suo amore per lui non ci fosse ora che una distesa arida bruciata dalla forza del sentimento che, forte com'era nato, così rapidamente se ne era andato.

Galatea non le disse che il motivo del suo annichilimento era stato un capriccio di Eros: un bel giorno si era semplicemente stancato e quindi era uscito da loro, Bice e Giovanni. Senza volerlo forse, aveva fatto loro un favore. Se si fosse trattenuto più a lungo in uno dei due, di certo il disgraziato avrebbe consumato gli occhi in lacrime prima di rendergli l'albergo scomodo. Era capitato a Caterina, innamorata persa di un giovane conte fuori dalla sua portata, che probabilmente non aveva mai saputo nemmeno che lei esistesse. Era sprofondata nel pianto e nulla riusciva a consolarla. Alla fine Eros aveva deciso che bastava, aveva cambiato obiettivo e aveva lasciato Caterina con le sue guance rigate dal sale delle lacrime, senza un chiaro motivo per cui piangere ancora. E così aveva smesso, tornando in breve tempo quella di un tempo; se non che, di tanto in tanto, rimaneva malinconica a fissare qualche coppia a braccetto e sospirava. Ora che era vuota, ma diversa da com'era prima dell'incontro con Eros, non riusciva a non invidiare se stessa in lacrime per amore. Avrebbe preferito lo struggimento vano all'apatico stato in cui si trovava.

Galatea smise di rincorrere il teatro di Eros quando Tessa irruppe nella stanza: le bastò un'occhiata svogliata per vedere Discordia, grossa come un topo, sulla sua spalla sinistra.

«Tea, io so tutto» disse con un sorrisetto da guastafeste.

Galatea sollevò gli occhi come se la prendesse in considerazione solo in quel momento. Si aspettava un qualche attacco da parte sua, ma l'ambiguità della frase la raggelò. I loro rapporti erano andati sempre più deteriorandosi da quando Eleonora era subentrata ad Elisabetta. La duchessina non aveva fatto che coltivare la naturale predisposizione di Tessa alla vanità e le aveva messo in testa strane idee di predilezione che non si erano mai sentite prima tra le damigelle. E siccome Galatea era stata da subito la pecora nera, anche Tessa aveva cominciato a vederla come vittima dei suoi scherzi e delle sue sfuriate.

«So tutto di te e Paolo» chiarì subito la damigella. Ma Galatea vide che a suggerirle quelle parole era stata Discordia, aggrappata con le unghie al lobo del suo orecchio.

«Lasciami stare, Tessa» tagliò corto, guardando altrove.

«Lo dirò alla duchessina, stanne certa: una tresca con uno stalliere, quale orrore!» rincarò l'altra con una smorfia di disgusto.

«Tu provaci» minacciò Galatea, facendo per alzarsi dalla poltroncina.

«Non credo che la stupirà, dopotutto. Tu sei del loro mondo, non del nostro... Cerchi solo un tuo simile, come richiede la natura. Uno struzzo non farà mai la corte ad un pavone, no?»

Galatea sbuffò, chiudendo le mani a pugno.

«Tra oche invece ci si comprende bene...» bisbigliò, e Tessa non la sentì.

«Sbuffa quanto vuoi...» dettò Discordia, e la damigella le fece subito eco, convinta di parlare per conto suo.

La figlia del mercante sentì pizzicare all'improvviso l'orecchio sinistro e, con la coda dell'occhio, scorse una piccola Discordia (grande come una cimice) anche sulla propria spalla. Sapeva di non doversi abbandonare alla sua influenza, ma d'altra parte non era divertente lasciare sempre agli altri la parte dei cattivi.

«Dille che piace anche a lei!» le suggerì Discordia.

«Tu vorresti Paolo per te, vero? – insinuò Galatea ubbidiente – Ma Paolo non ti vuole... Sai com'è, gli struzzi sono alti, mentre le pavonesse... come dire? Quasi non si notano, dato che sono del tutto prive di qualsiasi bellezza»

«Come osi?!»

«Solo buone a strillare nei giardini...» proseguì Galatea con le mani piantate sui fianchi.

«Lo dirò alla duchessina!» strillò appunto Tessa, mentre Discordia si gonfiava sulla sua spalla.

«Ammetto che il paragone con il pavone ti siaddice molto...» concluse Galatea. Tessa probabilmente non riuscì ad udirel'ultima frecciatina, perché stava già correndo verso la propria camera. Finitolo scontro con quella che riteneva una sfolgorante vittoria, Galatea scacciòcon la mano una Discordia divenuta minuscola dalla sua spalla e si risedette, chiudendogli occhi. 

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