Maggio 1668

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Maggio era il mese dei fiori, del risveglio corale della natura che si riempiva di suoni che sembravano quasi nuovi, dopo il silenzio dell'inverno. Gli uccellini cantavano al sole gonfiando i teneri petti piumati, risplendendo nella leggerezza del loro corpicino e delle loro voci. Galatea seguiva i loro voli alzando di tanto in tanto il viso. Sedeva tra l'erba con le altre damigelle e la duchessina, che aveva pensato di passare un pomeriggio di svago in loro compagnia.

Quando, guardandosi attorno, vedeva giovani coppie passeggiare a braccetto, o quando scorgeva in lontananza la livrea di paggi e scudieri, il suo cuore sembrava stringersi sotto la pressione delle lacrime trattenute. No, il momento del pianto era passato; e assolutamente non era questa la situazione ideale per sfogare le emozioni che lottavano in lei. Eros la perseguitava di giorno e di notte, beffandosi di lei e del suo povero cuore. Le si presentava inaspettatamente, tra un battito e l'altro delle sue ciglia, mentre volgeva lo sguardo da un oggetto a un altro con distrazione. Un fulmine a ciel sereno, e allora scuoteva la testa per distogliere la mente da pensieri dolorosi come stiletti nel costato. E come se ciò non bastasse, Eleonora aveva da poco cominciato a insistere con la questione dei fidanzamenti: ogni occasione le sembrava propizia per intavolare il discorso, sperando di trovare nelle damigelle lo stesso entusiasmo che provava lei al pensiero dell'approssimarsi della partenza per la Spagna. Se sua sorella maggiore, infatti, aveva trovato in Francia un marito, un bel palazzo, gioielli e vestiti, e vi aveva già dato alla luce due bambini biondi e sani, orgoglio della sua nuova famiglia, lei era destinata a dare prole sotto il caldo sole spagnolo. Ed essendo lei naturalmente scura di capelli e di temperamento vivace, la si chiamava vezzosamente "la Spagnola" per farle un complimento. Un insegnante privato le impartiva lezioni di lingua ogni giorno, con conversazioni anche molto lunghe, letture di testi in voga alla corte della duchessa Marianna, e inoltre la istruiva sulla moda, i costumi e le tradizioni della terra in cui avrebbe vissuto per il resto della sua vita: tutte queste conoscenze erano necessarie per fare buona impressione laggiù.

Il tempo sembrava stringere, dunque non bisognava esitare nella ricerca e nella scelta del giusto pretendente: Bice era stata la prima a trovarsi legata in fidanzamento a un giovane nobile di nome Vincenzo Monteni, posato e d'animo tranquillo. Poi era stata la volta di Ginevra, quindi di Aura. Per Caterina più di uno scapolo si era fatto avanti e la duchessina si riservava l'esclusiva della scelta; per Tessa Eleonora puntava al miglior casato disponibile e si muoveva con circospezione per sondare il terreno attorno a sé, in modo da soddisfare sia le proprie aspettative per la favorita, sia le aspettative della damigella sul futuro sposo. Solo per Galatea sembrava non esserci fretta: certo, Eleonora non intendeva lasciarla nubile, perché questo sarebbe stato uno smacco. No, semplicemente sarebbe stato più difficile trovare qualcuno che si accontentasse di una fanciulla nobile solo a metà, per cui era meglio non forzare il corso degli eventi.

*

La bella stagione, però, non offriva al duca altrettanti motivi di rallegrarsi: la malattia che lo affliggeva, domata negli ultimi tempi, ma erosiva come un fiume sotterraneo, si era ridestata con prepotenza con l'aumentare della temperatura, cagionando al sovrano dolori lancinanti alle estremità e ulcere sempre più estese. C'era poco che i medici potessero fare di fronte ai segni della sifilide. Pomate e creme erano sufficienti a lenire un poco la sofferenza, ma i loro effetti duravano sempre troppo poco. La duchessa promise ricompense a chi, nel ducato e fuori, potesse procurare una cura o per lo meno un metodo per tenere sotto controllo il dolore. Il duca, invece, si perse rapidamente d'animo, dichiarando di volersi consegnare al proprio fato senza opporre condizioni: riteneva che il suo momento fosse giunto, che poco ormai si potesse ancora sperare. Una guarigione era insperabile; già in molti, prima di lui, avevano contratto quella malattia e di quella malattia erano morti. Era, in fondo, la punizione del suo peccato più grave.

Luigi, l'erede, viveva appieno la sua vita, come se l'esempio del padre non valesse per lui. Era risaputo che aveva numerose amanti a palazzo e che non disdegnasse nemmeno i furtivi incontri con le donne della città: non erano poche le notti che passava aldilà dei cancelli dorati. Lasciava alla giovane moglie un bambino di tre anni e una bambina che appena gattonava per altri abbracci e altri baci; non pareva nutrire sentimenti di vergogna al ritorno, e passava spesso l'intera mattina a dormire. Nonostante questo, non si dubitava che avesse buone doti pronte a dare frutti, se messe alla prova. Era stato educato al solo scopo che diventasse un sovrano illuminato, sensibile alle preghiere dei sudditi e oculato nella scelta dei collaboratori. E sua moglie chiudeva un occhio sulle sue scappatelle, accontentandosi, si direbbe, delle adulazioni dei cortigiani che lodavano i suoi boccoli biondi e la sua carnagione diafana e la paragonavano alla dea Venere dipinta in uno splendido affresco del salone delle Udienze. A quanto si poteva evincere da una conoscenza superficiale, la giovane non soffriva poi tanto l'infedeltà del marito: era d'altronde sicura di poter garantire un numero di eredi sufficienti al futuro duca. Eredi che avrebbero portato anche il suo sangue alla vetta del potere e degli onori.

Antonio aveva tenuto testa al fratello fino a due anni prima: benché fosse più giovane, era stato precoce nella scoperta della compagnia femminile. Si vociferava che una contessina fosse rimasta incinta di lui poco prima dell'incidente, ma non se ne aveva la certezza poiché la ragazza, insieme alla famiglia, si era trasferita nei possedimenti di campagna. A quanto si sapeva, non si era mai sposata. A distanza di due anni, Antonio era diventato tenebroso, malinconico e incline al gioco d'azzardo. Sfogava insomma gli umori repressi in altre attività, che andavano da quelle violente come la caccia a quelle più innocue come il collezionismo di pietre preziose. Non dimostrava nessun interesse per le questioni di governo, probabilmente perché vedeva avanti a sé troppi pretendenti legittimi per pensare, un giorno, di raggiungere il titolo paterno.

Le due duchessine più giovani, Maria Teresa e Livia, trascorrevano gran parte dell'anno in un monastero di clarisse, dove venivano educate insieme. Una decisione, però, era stata presa: Livia sarebbe rimasta lì, avrebbe cominciato a breve il noviziato, dopo la consegna di un'ingente dote. Maria Teresa, con tutta probabilità, avrebbe contratto matrimonio con qualche italiano, ma ogni prospettiva era ancora aperta e al vaglio dei ministri e del duca.

«Che giornata meravigliosa! – sospirò Eleonora giungendo le mani – Bice, sai che questa sarà la tua ultima estate da fanciulla?» aggiunse, con un sorrisetto malizioso.

Bice arrossì e involontariamente mosse lo sguardo verso Galatea, che si riscosse proprio in quel momento dai pensieri che l'avevano trascinata via da quel prato e da quella conversazione.

«Sì, Vostra Grazia» pigolò, con la voce di una bambina.

Galatea ricambiò il suo sguardo e sorrise per incoraggiarla.

«Non pensarci» sussurrò.

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