Novembre 1669

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Il cardinale si trattenne fino alla fine del mese, sempre lasciando parte della sua giornata al colloquio con Ottavio, che durava solitamente tra una e due ore. Al momento della partenza, Giovanni Maria ebbe un colloquio con entrambi i nipoti, da cui questi uscirono rincuorati e spronati. Ormai tutto il ducato sapeva di loro, sapeva che si trovavano lì; il cardinale aveva severamente affermato che godevano della sua diretta protezione e che chiunque avesse attentato alla loro salute ne avrebbe risposto personalmente a lui. Dalla capitale arrivò la risposta sdegnata di suo fratello Ferdinando, che si arrestò a un passo dall'accusarlo di connivenza. L'altro non lo tenne minimamente in considerazione, raccolse l'appoggio di tutti gli ecclesiastici del ducato e si preparò ad affrontare il duca in un incontro fortemente auspicato da tutti via via che il tempo passava. Anche i ceti popolari presero interesse nella contesa; i mercanti e gli artigiani cominciarono a sospettare del principe Ferdinando, con la sua propensione così spiccata all'importazione di merci lontane e prodotte oltre i confini; i contadini compresero che le loro condizioni sarebbero peggiorate con un cambio dinastico; la piccola nobiltà cominciò a rialzare la testa dalle campagne, nostalgica delle libertà degli antenati. Giovanni Maria incarnava il bisogno di una redenzione che Ferdinando non avrebbe mai potuto prospettare, e questa era la sua forza. Circonfuso da un'aura di santità, il cardinale giunse in una capitale i cui muri erano stati ripuliti in fretta, in cui le strade erano linde, i selciati percorribili. La sua carrozza sobria gli comprò l'approvazione dei cittadini, che la additavano ad esempio ai cortigiani che, per una semplice passeggiata, sfoggiavano vetture dorate. Il suo volto appuntito e pulito suscitò ammirazione tra chi auspicava una nuova moralità; la sua dote oratoria, sfruttata in ogni situazione, catturò l'attenzione anche di chi sosteneva la parte opposta. Ferdinando fece fatica a porgergli omaggio, mentre Antonio si prostrò esageratamente di fronte al sant'uomo.

Il racconto, condito di particolari inutili ma intriganti, viaggiò fino al monastero della Vergine stellata: ci mise il suo tempo, certo, ma ora che i duchini vi risiedevano ufficialmente i collegamenti con i principali centri erano garantiti. Il loro tenore di vita era leggermente migliorato, nei limiti in cui la situazione lo permetteva. I monaci sembravano quasi sollevati a sapere che sì, quei due ragazzi erano proprio i duchini fuggitivi. Non c'era più motivo di temere un tradimento e, per scongiurare un avvelenamento, Maria aveva a disposizione la cucina per preparare le pietanze personalmente, poi un servo le assaggiava per assicurarsi che non ci fosse nulla di pericoloso. Passarono così le prime due settimane di novembre, senza peraltro che arrivassero notizie certe e definitive di quanto si discuteva nella capitale: sembrava che il duca intendesse tergiversare, lasciar cadere i consigli dello zio cardinale, appoggiandosi allo zio principe; poi però cominciava a circolare la voce di un litigio acceso tra i due fratelli, da cui il porporato era uscito vincitore; ma era subito smentita da una seconda versione per cui il diverbio non aveva mai avuto luogo, e anzi i due apparivano sul punto di riappacificarsi. Ottavio era consumato dall'attesa, ma la lettera dello zio cardinale tardava. Che l'avessero intercettata? Impossibile. Che non avesse ancora raggiunto l'accordo? Probabile. Ma arrovellarsi su una lettera solo ipotizzata era inutile e fiaccava le sue energie. Passeggiava al freddo, avvolto nel mantello, guardava la valle e si sentiva prigioniero. Parlava poco, dormiva poco, leggeva tanto. Non riusciva a distrarre la mente, non c'erano attività che lo interessassero. E Galatea poteva solo stare a guardare da lontano, seguendolo con lo sguardo e le mani giunte, attraverso le vetrate della piccola cappella dei pellegrini.

Un giorno si trovava lì, sola, e lo spiava come al solito, stretta dall'angoscia. D'un tratto sentì il bisogno di voltarsi verso l'altare: la Madonna ammantata di stelle era lì, la guardava impassibile come aveva guardato tante e tante persone in pena. Galatea mosse gli occhi sugli ex voto e poi tornò all'icona. Si avvicinò come volando a mezz'aria e si trovò inginocchiata di fronte ad essa; le mani ancora giunte, ma una lacrima sulla guancia sinistra. Le mani, tremanti, si protesero verso il volto benedetto e lo sfiorarono impercettibilmente.

«Aiutatemi voi, Signora - sussurrò - Vedo che soffre e non so come fare...»

Balbettate quelle poche parole, Galatea scoppiò a piangere, riempiendo la cappella di singhiozzi e lamenti. Ottavio, troppo lontano, non li poté udire.

*

Quella sera, Galatea si ritirò presto nella propria cameretta, si coricò sotto le coperte e attese che il sonno la rapisse da quel mondo che più e più la spaventava. Tentò di addormentarsi, ma il viso di Ottavio tornava e tornava nella sua mente con un'insistenza del tutto nuova. A questo si sovrapponeva il volto della Vergine davanti a cui, quel giorno, aveva mescolato pianto e preghiere. Il respiro le si spezzava di nuovo al solo ricordo, ma il desiderio di vederlo e parlargli cresceva ad ogni momento. Maria, fedele, era lì con lei, approfittando della tenue luce della candela per rattoppare un calzino bucato.

«L'altro dì vostro marito mi ha dato un giustacuore da ricucire» disse, muovendo velocemente l'ago tra i fili. Galatea annuì distrattamente.

«Voi non avete nulla da farmi aggiustare, signora?» continuò Maria.

«No...»

Ottavio si ritirò poco dopo nella camera accanto: probabilmente aveva seguito il suo esempio, sottraendosi all'abate più presto del solito. Galatea aveva sentito la porta chiudersi, la serratura scattare, poi dei passi e infine più nulla. Con uno scatto, buttò le lenzuola da una parte e mise i piedi nudi a terra. Rabbrividendo al contatto con il pavimento, si cinse in un abbraccio e per un attimo esitò.

«Cosa vi prende, signora? Vi sentite male?» trasalì Maria, alzandosi.

Ma Galatea si spostò con un salto fino alla porta; quando fu lì, volse leggermente la testa verso la serva. Aveva gli occhi grandi e insolitamente cupi: «Non aspettate il mio ritorno» bisbigliò e, subito, afferrò la maniglia. La girò piano, per fare meno rumore possibile, poi aprì uno spiraglio. Sbirciò dentro: vide Ottavio in piedi alla scrivania, con un libro in mano, accanto a una candela che mandava una triste e tremula luce. Si introdusse dentro e chiuse di nuovo la porta. Solo a quel punto Ottavio si voltò, chiuse il libro di scatto e lo poggiò sul mobile, vicino alla candela.

«Oh, Tea! Cosa succede? Non ti senti bene?» domandò con un filo di voce.

Galatea si fece avanti stringendo le mani davanti al grembo e rispose: «Mi chiedevo se potessi passare la notte qui»

Ottavio cambiò espressione, spalancò gli occhi e rimase per un attimo. Le sopracciglia leggermente aggrottate tradivano le due intenzioni che si davano battaglia nel suo cuore: farla restare o rifiutare la richiesta. Alla fine il suo sguardo si rasserenò; le indicò la metà del letto a lei più vicina, quella di sinistra: «Prego - le disse - Se non altro, staremo al caldo»

Galatea sgattaiolò sotto le lenzuola come per nascondercisi sotto. D'un tratto quell'intimità ritrovata la spaventava; forse la spaventava perché, questa volta, ci sarebbe stato qualcos'altro. Ottavio posò la candela accesa sul comodino e si coricò a propria volta. Un leggero imbarazzo, del tutto fuori luogo date le circostanze, li divideva. Galatea non lo perse di vista un attimo e quando lui si accinse a spegnere la candela, lo trattenne per la manica.

«Aspetta - gli disse - Prima voglio parlare un po'»

Ottavio abbandonò il proposito e si volse sul fianco per guardarla, senza però avvicinarsi di più.

«C'è qualcosa che ti turba?»

«Sì - rispose sussurrando - Tante cose, in verità: per cominciare, tu»

Ottavio sfoggiò un sorriso triste: «Perché dovrei turbarti?»

«Mi sembri più malinconico del solito in queste ultime settimane. Speravo che tuo zio sarebbe riuscito a restituirti un po' di fiducia, ma mi accorgo che non è stato così»

Lui aspettò a rispondere: «Neanche lui può fare miracoli...»

Galatea osò avvicinarsi per prima replicando: «Ma ci deve essere un modo!»

Ottavio scosse il capo: «Non per forza: chi siamo noi per governare il fato, noi che a stento riusciamo a controllare quel poco che è nelle nostre capacità?»

«Non essere così chiuso. Quando fai così mi sembri irragionevole e mi spaventi»

«Questa è davvero l'ultima cosa che voglio fare» scherzò amaramente.

Galatea inghiottì le insicurezze e decise di spostare il discorso su un altro terreno.

«Secondo te cos'ha pensato Maria quando mi ha visto venire qui, nella tua camera?»

Ottavio sorrise di nuovo amaramente: «Maria è pettegola; pensi ciò che vuole, lei che può volgersi a pensieri del tutto diversi dai nostri... Ti dirò, invidio la sua semplicità»

Galatea colse al volo l'occasione: «Anche noi possiamo essere semplici, Ottavio... Adesso, qui. Dimentichiamo chi siamo...»

Detto questo, con un movimento sinuoso si lasciò scivolare giù, sul materasso, senza distogliere lo sguardo dal viso del duchino che, improvvisamente, si colorò di rosso. Ottavio non riuscì a distogliere l'attenzione, e Galatea se ne compiacque: l'aveva catturato, l'aveva smascherato; era umano, dopotutto. D'un tratto, non le parve indifferente essere una donna; d'un tratto, non le parve più disdicevole la sensualità. Ottavio era sedotto. Non era però così arrendevole, anzi, non era per nulla arrendevole. Dopo il primo attimo di sorpresa, il duchino si scostò, distolse gli occhi dal suo corpo e quasi le diede le spalle; prima di farlo, però, cadde di schiena contro i cuscini, lo sguardo perso nel vuoto.

«Cosa c'è, Ottavio?» domandò Galatea, mettendosi seduta accanto a lui.

«Non posso, Tea»

«Cos'hai? Non ti senti bene?» insistette, scuotendogli il braccio. Lui si sottrasse con un leggero strattone e incrociò le braccia.

«Non voglio»

«Non dirmi che ti senti ancora vincolato alla punizione! - sbottò - E' quasi un mese che viviamo da estranei, quasi che non fossimo nemmeno sposati!»

Ottavio si scosse: «Natale: questo era il termine!» ribatté, alzando la voce.

«Noi non siamo monaci! - fece lei, agitandosi - Non dobbiamo osservare per forza l'astinenza»

Ottavio voltò un poco il viso verso di lei, guardandola con un fare da offeso: «Io non lo voglio fare»

Galatea si appoggiò al cuscino, evitando di replicare nuovamente.

«Lasciami solo» aggiunse lui subito dopo, e si volse sul fianco dandole le spalle.

Galatea non protestò; scivolò giù dal letto credendo di vivere un incubo. Sgattaiolò dalla porta e dimenticò di chiuderla dietro di sé, tanta era la confusione nella sua testa. Si lasciò cadere sul letto, il viso immerso nella stoffa ormai fredda delle lenzuola, e si abbandonò ai singhiozzi. Si scuoteva tutta, gemendo e sospirando, stringendo i cuscini per sentirsi meno abbandonata. Maria, che non era ancora andata a dormire, si scoprì impotente di fronte a una tale disperazione

Uno schiocco, Ottavio aveva chiuso la porta. Galatea sospese per un istante il pianto, il tempo sufficiente a realizzare che suo marito l'aveva confinata fuori dal suo spazio. Tornò a piangere sotto le carezze di Maria e continuò a piangere finché la stanchezza non ebbe il sopravvento.

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