Settembre 1669 pt. 2

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Dopo la sera, la notte; Galatea era nel suo letto accanto ad Ottavio, che dormiva già, esausto dopo l'ennesimo litigio con Antonio. Dopo che lei si era sfogata parlando di Ferdinando - senza però accennare alle minacce - Ottavio aveva fatto altrettanto parlando del fratello: non facevano che litigare da quando il maggiore era diventato duca. E dopo lo sfogo avevano recitato le orazioni, scambiato il bacio di rito; quindi si erano coricati uno vicino all'altra e in breve lui si era addormentato.

Galatea invece preferiva vegliare, impiegando il tempo per riflettere sulle parole di Prudenza. Le immagini che durante il loro dialogo si erano materializzate nella sua memoria erano rimaste lì, le comparivano a turno davanti agli occhi, accompagnate da una sensazione di impurità, di vile contagio. Si accarezzava le braccia, come cercando un abbraccio che la confortasse. Ottavio mugugnò qualcosa e lei, per un attimo, temette che si fosse svegliato. No, il suo sonno era turbato ma profondo. Non sarebbero stati i suoi leggeri movimenti a destarlo dagli incubi. Perciò Galatea si sedette, trovando la nuova posizione più conveniente allo scopo di meditare. Il cuore le sembrava tanto pesante, inspiegabilmente più pesante di prima, e ad aggravare la sua sensazione contribuiva l'eco delle parole di Ferdinando, in particolare tre: bella, potere e circostanze. Erano le parole che le avevano fatto più paura, più ancora che le sue dichiarazioni appassionate. E non se ne dava ragione, ritenendo più comune una reazione come la sua davanti alla seduzione di un uomo che si odia intimamente. Ma non era la seduzione a turbarla, probabilmente perché Ferdinando non avrebbe mai potuto sedurla.

"Non regge il confronto con Ottavio" si trovò a pensare, e quando se ne rese conto sorrise spontaneamente e allungò una mano verso il duchino che era addormentato accanto a lei. Ottavio si rigirò nelle lenzuola e mosse una mano che andò a posarsi sulla sua coscia. Galatea rabbrividì senza sapere perché, gli prese quella mano maliziosa e la strinse tra le sue.

E fu così che le tornò in mente la minaccia, nemmeno così velata, che Ferdinando aveva rivolto contro il suo stesso nipote, sangue del suo sangue. Fino a che punto si sarebbe spinto con l'intento di spaventarla? Accortosi che era inutile allettarla con promesse di potere e ricchezze, aveva deciso di tentare l'arma degli affetti? A quel punto diventava quasi pericoloso lasciarsi andare alle effusioni più tenere e innocenti, perché avrebbero potuto risvegliare istinti brutali e portare a conseguenze imprevedibili. Galatea rabbrividì ancora, e questa volta consapevole, tristemente, del motivo: non voleva che ad Ottavio capitasse qualcosa di male. L'unico modo per salvarlo dall'odio di suo zio era tenerlo a distanza, evitare che l'affetto si trasformasse in qualcosa di più impegnativo e incontrollabile. Prima di qualsiasi cambiamento, il loro primo pensiero doveva essere la sicurezza dell'altro: se ciò avesse dovuto includere la loro separazione, Galatea avrebbe accettato questo piuttosto che...

Ma perché a tanto? Perché uno zio minacciava la morte al nipote? Solo per una questione amorosa? Le corti di tutta l'Europa erano percorse da tresche e raramente si arrivava all'omicidio per amore di una donna. Ferdinando non sembrava porsi ostacoli che non fossero facilmente sormontabili. L'obiettivo doveva essere ben più cogente che qualche umore focoso nel corpo di un uomo maturo.

Prudenza aveva detto che tutto ha origine in qualcosa che ormai è passato: Galatea chiuse gli occhi, ripensò ai ricordi che aveva di lui. Ed ecco, all'improvviso tutto fu chiaro. Bastò semplicemente richiamare un episodio del tutto marginale, ossia quei pochi secondi in cui Galatea l'aveva visto durante il suo colloquio con la Morte. Ferdinando aveva visto la Morte. E le sue parole presero un altro aspetto sotto quella luce: bella non era che un'esca per agguantarla; potere era il suo obiettivo; circostanze era il mezzo con cui intendeva arrivarci. Non voleva semplicemente lei: voleva il suo dono.

La rivelazione la spiazzò al punto da farla sobbalzare violentemente; il cuore cominciò a batterle all'impazzata, le braccia e le mani diventarono fredde. E, come se ciò non bastasse, Ottavio si svegliò.

«Tea?» bisbigliò, sollevandosi lentamente sulle braccia.

«Non è nulla, non è nulla...» si affrettò a rispondere, respirando piano.

Ottavio si sedette contro la testiera del letto. Inutile cercare di accendere una candela; tastando il materasso, lui raggiunse la sua mano e solo dopo osò domandare: «Un incubo?»

Doveva giustificarsi, dire qualcosa; e allora rispose: «Sì, ma non ricordo...»

«È tutta colpa di mio zio. Questa cosa deve cessare immediatamente - affermò lui con voce dura, e il buio dava alle sue parole un tono estremamente inusuale per lui - Con l'approvazione di mio fratello, o anche senza, noi partiremo questo venerdì. In questo modo entro domenica saremo alla Villa Reale»

La Villa Reale era una tenuta piuttosto ampia, situata nel nord del ducato, a ridosso delle montagne. Il clima era temperato dal mare vicino e dalle valli che convogliavano i venti caldi verso l'interno. Era lì che avevano progettato di passare l'estate, dato che, per quanto fosse ampia, non era la preferita di Antonio.

«Darò ordine ai miei servi di ultimare la preparazione dei bagagli. Tu di' a Maria di tenersi pronta: sarà l'unica ad accompagnarci»

«E Monteni?» obiettò.

«Con una moglie in dolce attesa sarebbe un matto a mettersi in viaggio su una carrozza»

Galatea riportò lo sguardo davanti a sé. Sì, andarsene sarebbe stata la cosa migliore: con Ferdinando avrebbe potuto dimenticare le minacce contro Ottavio e lasciar perdere quel proposito di raffreddare i loro rapporti. Qualcosa cominciava pian piano a cambiare. Sospirò, sentendosi di colpo leggera. Si volse e si coricò, cercò il suo braccio e, trovatolo, lo strinse, avvicinandoglisi come mai prima di allora. Lo sentì un po' imbarazzato, ma non ci badò: «Grazie» bisbigliò, baciandolo delicatamente sulla fronte.

*

Ottavio era davanti alla carrozza e la aspettava. Era appena l'alba, il cielo si tingeva d'azzurro e rosa, e Galatea sfilò tra due file di servi indossando un abito comodo e per nulla appariscente. A un'occhiata distratta sarebbe parsa la moglie di un ricco mercante; e se non fosse stato per la spilla alla giacca anche suo marito non sarebbe parso che un borghese in procinto di partire. Lasciare il palazzo dava a entrambi un'impressione di libertà e ogni respiro sembrava già una conquista rispetto alle costrizioni della vita dorata della corte.

«Siamo pronti?» domandò lui a bassa voce. Galatea annuì e fece cenno a Maria di avvicinarsi. Il primo a montare in carrozza fu Ottavio, quindi la duchessina e infine la serva. Un valletto chiuse la portiera e il fantino diede di sprone ai cavalli. Insieme alla vettura, piccola e agile, si mosse un drappello di cavalieri in scintillanti armature: il primo recava uno stendardo con lo stemma della famiglia reale.

Alla fine ce l'avevano fatta: i cancelli dorati si aprivano, la capitale si svegliava al passaggio dei loro principi e indicava la carrozza. Quando si sparse la voce, la gente cominciò a raggrupparsi lungo il tragitto sventolando fiori e fazzoletti; la scorta fendeva la folla permettendo al cocchiere di mantenere una velocità di sicurezza. Non ci furono incidenti: i sudditi salutavano i loro sovrani sperando di attirare la loro attenzione, ignorando molto spesso di chi realmente si trattasse.

Una volta che anche la capitale fu alle loro spalle, Ottavio sganciò la spilla e la ripose in un cofanetto, si tolse la giacca e slacciò la cravatta. Fuori dai finestrini scivolava placida la linea dell'orizzonte, turbata solo raramente dal profilo aguzzo di case lontane, o da quello più morbido dei boschi. Il viaggio era di per sé scomodo, con le ruote di legno che trasmettevano all'abitacolo un moto irregolare e traballante, ma regalava viste che altrimenti non si sarebbero potute apprezzare.

I cavalli corsero fino alla prima stazione di cambio, da dove la carrozza ripartì trainata da animali freschi e forti. Alla successiva stazione si ripeté l'operazione. Prima di sera cambiarono altre due volte l'intera squadra di cavalli. Verso l'ora di cena giunsero in una cittadina di provincia che Galatea conosceva dai ricordi del padre, che vi era stato più di una volta per lavoro. Trovarono alloggio in una bella villa di proprietà del podestà. Al mattino ripresero la via.

Si parlò molto poco all'interno della cabina: Ottavio era costantemente in allerta, come se non si fidasse delle persone cui era stata affidata la loro sicurezza. Galatea tentò una conversazione leggera con Maria, ma il clima non favoriva chiacchiere.

La sera di sabato non si fermarono, proseguirono la corsa fino a che non giunsero a destinazione. Villa Reale li attendeva a braccia aperte, si potrebbe dire, e anche loro volevano riposare le ossa su un letto comodo. Tuttavia, appena si furono chiusi la porta alle spalle, Ottavio prese da parte Galatea e le bisbigliò all'orecchio: «Ricordi quando ti ho detto che avrei dovuto avere dei segreti?»

«Sì, certo!»

«Ecco, ora te ne scioglierò uno: questa non è la nostra meta definitiva. Sono in contatto con alcuni amici che ci aiuteranno a trovare riparo in un luogo più sicuro»

Galatea sbigottì e aggrottò la fronte, pronta a protestare: «Come ti salta in mente di fuggire? Quella scorta ci tiene gli occhi addosso peggio che se fossimo dei tagliagole da spedire al patibolo»

Ottavio annuì: «Lo so, per questo dovremo stare molto attenti»

«Da chi intendi trovare rifugio?»

Lui si portò un dito alle labbra e: «Shht - le disse - Questo, per il tuo bene, deve rimanere segreto»

«Ti confesso che non è tanto piacevole» ribatté scontrosa, incrociando le braccia.

*

Domenica passò tranquillamente e così pure lunedì. Ottavio non diede a vedere di avere alcun motivo di lamentela, nonostante il capitano della scorta non gli lasciasse muovere un passo senza pedinarlo. Altro che sicurezza personale: con quell'uomo alle calcagna, sempre con la mano sull'elsa della spada, Ottavio aveva un bel daffare ad atteggiarsi sempre rilassato. Ma aveva una tempra forte ed era estremamente paziente, doti che Galatea gli invidiava molto. Lei aveva già avuto un diverbio con una guardia che, a suo dire, la seguiva come fosse la sua ombra anche nelle situazioni inopportune; Ottavio aveva stemperato la tensione con una battuta di spirito che aveva suscitato le risate della guardia e l'aveva allontanato promettendogli un buon boccale di birra tedesca. La sera era il momento in cui entrambi si sfogavano: mentre in un angolo Galatea borbottava ricordando uno per uno tutte le mancanze di rispetto che aveva dovuto subire, dall'angolo opposto Ottavio ripeteva a memoria le orazioni stringendosi forte tra le braccia.

«Domani andrò un po' a cavallo per i boschi. Vorresti venire con me?» disse lui appena si furono coricati sotto le lenzuola.

«Sei audace ad uscire solo con quei masnadieri» commentò, senza rispondere al suo invito.

«Avrò la compagnia di alcuni notabili cittadini; dubito che vorranno accopparmi davanti a dieci e più testimoni» replicò, mettendosi le mani dietro la testa.

Galatea lo fissava distesa sul fianco. La candela si consumava sul comodino e per illuminare la stanza si condannava alla dissoluzione. Ottavio rimase immobile per un po' con gli occhi spalancati verso il soffitto, inespressivo come un monumento funebre.

«Allora?» domandò all'improvviso, causando a Galatea un leggero sobbalzo.

«Verrò - rispose - Non mi fido a restare qui da sola»

Il mattino dopo si svegliarono molto presto. Maria aveva già preparato i due completi da cavalcata e, mentre Ottavio si faceva aiutare da un servo in una stanza attigua, lei assisteva la giovane padrona mentre si preparava. Il vestito era sui toni del rosso, leggero ma resistente, adatto a montare all'amazzone. Un'acconciatura semplice, senza riccioli, era completata da un cappellino sormontato da due piume di fagiano.

«Non ricordo di aver mai commissionato un vestito del genere» commentò guardandosi allo specchio.

«No, signora. È un dono»

Galatea non insistette oltre.

Si recarono alle scuderie per scegliere il cavallo migliore: Ottavio era entusiasta e conteneva appena l'eccitazione di tornare a cavalcare dopo tanti anni. Galatea, al contrario, non aveva mai tratto piacere dalle uscite a cavallo perché trovava una certa difficoltà a entrare in sintonia con i movimenti dell'animale. Ciononostante strinse le briglie e, con l'aiuto di uno stalliere, montò in sella. A loro si unì metà dei soldati della scorta; poco prima delle otto del mattino sopraggiunsero i notabili della vicina città e la passeggiata poté cominciare sotto la guida di un guardacaccia.

Il bosco era ben tenuto, gli alberi - soprattutto castagni e querce - crescevano ben ordinati, imponenti con i loro tronchi rugosi come le braccia di un uomo anziano. Le foglie viravano già ai colori autunnali, ma erano ancora per lo più attaccate ai loro rami e sventolavano come tanti fazzoletti, quasi salutassero i visitatori inattesi. Galatea ripensò alle mani che si protendevano verso il finestrino della carrozza, ai saluti e alle preghiere che aveva raccolto lungo la strada per arrivare lì. Ed ora era silenzio, si bisbigliava nel bosco: aleggiava come il timore di offendere la foresta parlando a voce troppo alta. Anche i cavalli sembravano posare gli zoccoli con più grazia, per far meno rumore calpestando le foglie rinsecchite. Ben presto, Galatea ripensò ai boschi di Ariosto e cominciò a cercare fonti magiche, antri di streghe, castelli incantati. Nulla di tutto questo si palesò durante la passeggiata, ma il fascino misterioso le rimase addosso insieme con l'odore forte del cavallo. Di tanto in tanto cercava Ottavio, più per assicurarsi che stesse bene che per un reale bisogno: lo vedeva trasognato quanto lei, mentre si guardava intorno perdendosi nei riflessi del sole che filtravano dalla cupola verde e gialla che li sovrastava. Le guardie avevano gli occhi ben puntati avanti; i notabili invece erano attenti a seguire i gesti dei due signori, per assecondare i loro desideri ed essere pronti a cogliere la più minima traccia di ordini. Era evidente che la loro presenza in quella veste ufficiale era più imbarazzante che trionfante: non rispondevano all'immagine di sovranità che i sudditi si aspettavano di ritrovare in loro e questo li disorientava. Erano proni ai loro ordini, ma di ordini non se ne parlava. Ottavio non era stato educato al comando e tanto meno lei: avvertivano il potere più come un peso sulle spalle che come un piedistallo su cui ergersi. Quando i loro sguardi si incontravano, c'era un'aureola verde intorno alle loro teste e spalle, un sorriso sollevato sul viso. Se fossero stati soli...

Rientrarono alle scuderie quasi all'ora di pranzo: avevano poco tempo per cambiarsi d'abito e indossare qualcosa di più comodo, prima di sedere a tavola con i notabili che avevano tenuto loro compagnia nel bosco. Nella fretta di smontare, Galatea rischiò di storcersi una caviglia. Fortunatamente il capo stalliere lì accanto se ne accorse e la prese al volo, evitandole la caduta. Risollevandosi, Galatea alzò gli occhi per ringraziare il suo salvatore e le parole le morirono sulle labbra; impallidì.

«State bene?» la riscosse la voce di Ottavio, sopraggiunto di corsa.

«Sì, grazie» sussurrò, senza staccare gli occhi dallo stalliere. Ottavio sospirò di sollievo e tese la mano al giovane uomo accanto a lui: «Vi ringrazio di cuore» disse. Lo stalliere ricambiò il gesto di stima inchinandosi profondamente. Galatea, ancora pietrificata, fece fatica a rivolgergli il saluto. Avviatasi ormai verso il palazzo non resistette al desiderio di voltarsi un'ultima volta. E Paolo Zuffini la guardava con gli stessi occhi di un tempo.

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