15.

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27 ottobre 2000

Finalmente eccolo entrare nella sala prove.

Erano venti minuti buoni che dal mio posto preferito, il davanzale, tenevo gli occhi fissi sulla porta d'ingresso della sala. Da lì potevo anche scorgere un pezzetto della porta d'entrata alla scuola e, appena la vidi aprirsi, entrai in agitazione.

Volevo continuare a guardare per non perdermi un secondo della sua presenza, ma allo stesso modo dovevo nascondere il mio interesse. Almeno a lui, visto che gli altri mi stavano prendendo in giro da un pezzo.

Goffamente mi misi a guardare fuori dalla finestra, trovando d'un tratto molto interessante il colore delle tende da balcone di una palazzina che appena riuscivo a vedere.

L'ultima volta me ne ero andata senza rispondere al suo gentilissimo complimento che mi aveva rivolto per cordialità e ora non sapevo come comportarmi. Fare finta di niente era forse l'unica cosa sensata, sicuramente lui nemmeno lo ricordava.

«Se ti giuro che non ti dico più che hai due occhi stupendi, rimani?»

Appunto.

Non aveva il suo profumo, avrei capito che si stava avvicinando.

Mi girai verso di lui cercando di trattenere un sorriso, senza riuscirci molto. Sedetti in maniera più composta, tirando giù le gambe.

«Può darsi.»

«Va bene, ci proverò», si mise seduto accanto a me sul davanzale, prendendo posto dove prima avevo le gambe, «ma non sono sicuro di riuscirci.» Guardò altrove, verso la band che accordava gli strumenti.

Mi sentii di nuovo arrossire e non dissi niente, apprezzai il suo modo di sdrammatizzare, perché quello stava facendo.

«Se quei due lassù hanno finito di flirtare, possiamo anche iniziare le prove», Steve ci indicò col mento.

«Cosa ha detto?» Si voltò verso di me con curiosità.

«Ci ha invitato gentilmente ad andare a provare.»

Scendemmo dal davanzale e ci avvicinammo agli altri che ci guardavano sghignazzando.


Le prove furono divertenti. C'era una certa goliardia nell'aria e una leggerezza che si respirava sempre quando non erano presenti Dari o Mathias.

Damien sbagliò il testo e da lì iniziò a scherzare, Steve gli andò dietro. Ridemmo tanto e questo ci permise di scaricare la tensione e di cantare serenamente, senza impostazioni e con semplicità. Perfino io mi sentivo tranquilla.

Mi piaceva vederlo così naturale, vero, un ragazzo qualunque. Non il dio che mi ero fissata in mente. Osservarlo fare quelle smorfie simpatiche ma mai goffe lo rendeva sempre più seducente ai miei occhi. Era elegante anche quando faceva il cretino.

Quella sera, per la prima volta, uscimmo tutti insieme dalla scuola che ormai era buio, e mi sentii di far parte di un gruppo unito. Mentre Marzio chiudeva la porta d'ingresso continuavamo a scherzare, io stavo ricordando a Damien la battuta che aveva storpiato all'inizio. Mi sfiorò la fronte con le dita per controllare, per gioco, che non avessi la febbre, facendo riferimento a qualcosa detto prima. Quel gesto mi provocò una bellissima sensazione anche se un vero e proprio contatto non ci fu.

Colpi di tosse, finti, non mi distolsero da Damien.

Di nuovo.

Di nuovo.

«Ginevra, c'è...» Fabiana mi toccò il braccio per attirare la mia attenzione.

«Chi?» mi rigirai stralunata.

«Ma quello non è Enea?» proruppe ad alta voce Germana.

Io sbiancai, cercando di mettere a fuoco una figura nel parcheggio, fuori dall'auto. Possibile che fosse proprio lui? Non ci sentivamo da giorni, non mi aveva detto che sarebbe venuto a Roma e soprattutto non mi sarei mai aspettata che venisse lì a prendermi.

Rimasi impietrita, quasi fosse uno sconosciuto.

«Non vai?» mi incalzò Germana.

Mi salì di colpo il nervoso. Che ci faceva lì? Non aveva mai fatto una cosa del genere, era venuto a controllarmi? Stava invadendo il mio spazio. E poi, che figura ci stavo facendo con Damien al quale avevo raccontato che lui non si preoccupava di venirmi mai a prendere? Continuavo a farmi domande ma non mi muovevo rendendo la situazione ancora più imbarazzante.

Viviana mi diede un'occhiataccia significativa, che mi invitava ad andargli incontro.

Presi coraggio, feci un saluto generale, senza soffermarmi su Damien al mio fianco, e mi diressi verso l'auto di Enea cercando di incendiarla con lo sguardo. Mi sentii come quando un padre va a prendere la figlia nel mezzo di una festa arrivando con mezz'ora di anticipo e la guarda con aria di rimprovero perché la trova a pomiciare con qualcuno. Ecco, io purtroppo non stavo pomiciando con Damien, ma vivevo la sensazione di frustrazione della figlia in pieno.

Intanto si era creato il silenzio. Probabilmente la maggior parte delle ragazze stava trattenendo il respiro per non fare rumore e riuscire a sentire quello che stavamo per dirci.

Quando arrivai vicino a lui, a debita distanza ma non troppa, in modo da poter parlare a bassa voce, chiesi cosa ci facesse lì.

«Neanche ciao! Però, che accoglienza!» si lamentò facendosi vedere dispiaciuto. In realtà era solo infastidito dal fatto che non mi fossi avvicinata per salutarlo con un bacio, dando dimostrazione di appartenenza davanti a tutti. O più che altro a Damien.

«Cosa ti aspettavi? Non è che ci siamo lasciati bene, non mi sono dimenticata di tutto solo perché è passato qualche giorno.»

«Forse ti ho disturbata?» fece segno col mento verso il gruppetto di persone davanti all'entrata.

Sapevo bene a chi si riferiva. A quel punto mi venne anche in mente la remota possibilità che Damien si avvicinasse per presentarsi, come aveva detto giorni prima. Il pensiero mi preoccupò, Enea si sarebbe sicuramente comportato volutamente da maleducato.

«Sei venuto per portarmi a casa?»

«Certo, non è che mi stessi facendo un giretto da queste parti.»

«Flavia, Viviana! Venite, vi do un passaggio.»

Dovevamo andare via da lì e volevo farlo nel modo più tranquillo. Salutarono e corsero verso la macchina. Almeno per qualcuno la presenza di Enea sarebbe stata una buona cosa.


Durante il tragitto rimasi in silenzio, ci pensò Viviana a riempire l'abitacolo di chiacchiere. Parlò parecchio con Enea che rispondeva scherzando tranquillamente. Lui, a differenza mia, era sempre stato bravo a farsi vedere indifferente e imperturbabile davanti agli altri pur avendo qualcosa dentro che lo turbava. Sempre che fosse mai stato turbato da qualcosa, non ne avevo la certezza.

Passammo prima a casa di Viviana e poi da Flavia, che abitava a pochi metri da me. Ci salutò catapultandosi fuori, cercando di respirare aria fresca e non pesante come quella che c'era in auto da quando era andata via Viviana.

Enea parcheggiò ma non aveva intenzione di scendere e io non volevo iniziare a discutere per strada.

Quindi mi misi per obliquo sul sedile e lo guardai in attesa che dicesse qualcosa. Lui non sapeva da dove iniziare. Era venuto per provare a fare pace, il suo gesto plateale - per i suoi standard - era inequivocabile, ma non si sarebbe mai immaginato di trovarsi quella scena davanti: io e Damien che scherzavamo con complicità. Nella sua invidiabile sicurezza era convinto che non avrei avuto da parte di Damien la benché minima considerazione e per quanto ne fossi convinta anche io, la scena che si era girata davanti ai suoi occhi suggeriva altro. Purtroppo non era neanche tanto veritiera, visto che era la prima volta che si verificava una cosa del genere, ma lui non poteva saperlo.

Dopo qualche minuto di silenzio, che passò a impostare le stazioni radio sullo stereo dell'auto, decisi che come al solito dovevo iniziare io.

«Devi continuare per molto? Hai fatto centinaia di chilometri per questo?» indicai quello che stava facendo.

«Sembra ti abbia dato fastidio vedermi lì», continuò a smanettare coi pulsanti.

Attesi prima di rispondere. Sì, mi aveva dato fastidio, aveva avuto un tempismo sbagliato.

«Beh, mi sembra strano tu sia venuto solo ora dopo anni che ci vado.» Silenzio. «Sembrava volessi dimostrare qualcosa, rimediare a quello che è successo la settimana scorsa.»

«Io non devo rimediare a niente.»

«Bravo, infatti non credo sia possibile», guardai qualche secondo fuori dal finestrino frustrata. Non saremmo andati da nessuna parte, come tutte le altre volte. Mai un passo avanti. «Sono stanca di fare questi discorsi per la milionesima volta», ripresi sforzandomi. «Non mi va di discutere sempre per le stesse cose.»

«Non lo fare!»

«No? Non capisci che così per me non va bene? E mi guardi per favore invece di continuare a toccare questo stramaledetto stereo?» Finalmente ebbi la sua attenzione. «Io non mi sento considerata! Tu prendi le tue decisioni senza coinvolgermi, sono sempre l'ultima a sapere quello che fai o non fai, la maggior parte delle cose le vengo a scoprire dagli altri!» E la voce si stava alzando. «Parti per quasi tre mesi e non me lo dici? Cosa aspettavi?»

«L'avevo appena saputo!»

«Cazzate! Spari solo cazzate. Devi crescere, non puoi fare il ragazzino a vita!»

«Come lui? Ora ti piacciono quelli di trent'anni? Ti stava facendo divertire, ti facevi accarezzare il viso.»

Ecco dove voleva arrivare. La sua uscita, per quanto me la potessi immaginare, mi aveva freddata. Lui non faceva mai scenate di gelosia, perché a differenza mia, si sentiva superiore agli altri. Probabilmente stavolta no.

«Non mi stava accarezzando il viso, stavamo scherzando e poi, scusa, non era "vecchio"?»

«Se ti piacciono così...»

«Senti, non ho detto che voglio un trentenne ma mi piacerebbe che tu maturassi e dimostrassi i tuoi venti anni.» Mi grattai nervosamente il collo. «Recepisco i tuoi comportamenti come una mancanza di rispetto, non voglio soffrire per poi superare la cosa e ripiombarci a distanza di qualche mese»

«A me sembra una scusa. Vuoi finirla? Così sei libera per lui?»

«Non c'è nessun "lui". Ma stai fingendo di essere geloso, ora?»

«No, però ti è sempre piaciuto tanto, magari vuoi provarci. In fondo è un attore, ricco... se ci casca ti fa fare la bella vita.»

Mi sentii offesa. Di certo non poteva accusarmi di cercare notorietà o ricchezza in un uomo, non ero assolutamente il tipo, ma ora voleva solo ferirmi. Non abboccai. Gli feci notare che i nostri problemi non erano nati con l'arrivo di Damien, da anni discutevamo delle stesse cose. Sembrava fosse lui ad aver trovato la scusa giusta per lasciarci dando la colpa a me.

«Sei ridicolo e immaturo, se vuoi finirla dillo e basta. Però ricordati che non hai mai provato a venirmi incontro, a capirmi, a fare uno sforzo.»

«A me non sembra ma se vuoi sentirti la coscienza a posto...»

«Ok, sono stata una stupida a sperarci per tutti questi anni.»

Uscii dalla macchina e andai quasi correndo verso casa. Un dolore forte al petto mi fece capire che qualcosa si era veramente spezzato stavolta. Era finita. Era finita davvero. Dio, mi sarei strappata quell'organo inutile per scagliarlo lontano. Non ce la facevo, negli ultimi metri che mi separavano dal portone capii che non potevo salire e stare tra altre persone, anche se erano della mia famiglia.

Oddio, avevo urgente bisogno di farmi male.

Guardavo le colonne spigolose dei portici che mi chiamavano promettendomi sollievo. Ma non potevo, non lì, non ora. Il pensiero di come procurarmi dolore aveva per qualche secondo offuscato gli altri pensieri, che poi erano quelli per cui pensavo di procurarmi dolore.

Ma di nuovo sentii un vuoto che mi stava risucchiando dentro, come un buco nero che invece di inghiottire pianeti e stelle, divorava ragione e sentimenti.

Citofonai a casa chiedendo di mandarmi giù i cani, avevo la scusa per starmene da sola al buio per una mezz'ora. Roby e Meringa si scapicollarono per le scale, sgommando sull'ultima curva.

Mentre facevo il giro del palazzo mi domandai se Enea fosse andato a casa o fosse rimasto in macchina. Speravo solo che non mi venisse dietro per continuare a parlare. Ma poi, che stupida, lui? Non si sarebbe mai degnato. Ormai aveva avuto un sentore di libertà, sicuramente in quel momento stava già pensando a tutt'altro, magari se avesse registrato la stazione radio sportiva tra le prime cinque. Riguardo a noi, al massimo poteva chiedersi come avesse fatto a resistere tutti quegli anni con me.

La rabbia che mi stava pervadendo mi aiutò a distrarmi dal dolore.

Era un vigliacco, solo un vigliacco. Servirsi della presenza di Damien per farla finita, come se ci credesse veramente che potesse interessarsi a me. Non mi considerava lui, figuriamoci uno che di donne ne poteva avere quante ne voleva.

Che stupida che ero stata, che fottutissima stupida. Non potevo perdonarmi.

Uno.

Non potevo aver passato tutto quel tempo sperando che cambiasse qualcosa.

Due.

Un'idiota illusa.

Tre.

Facevo schifo.

Quattro.

Damien? Con uno obbrobrio come me? Ah!

Cinque.

Dovevo sparire, non sarei mai stata felice.

Sei.

Una cosa umida e fredda toccò la mia mano sinistra. Era Roby che cercava di attirare la mia attenzione. Mi sembrò di tornare a vedere dopo tanto tempo, chissà dove erano andati i miei occhi per qualche minuto. Ora però stavano osservando i segni sul braccio sinistro e il sangue che usciva dalle ferite che mi ero procurata con dei ramoscelli che avevo usato a mo' di frusta. Non avrei saputo dire né quando né dove avevo preso quei ramoscelli. Non mi ero accorta di aver tirato su le maniche del giacchetto e di quello che indossavo sotto per avere la pelle nuda a disposizione. E solo quando il vento mi colpì, mi accorsi di avere il viso bagnato dalle lacrime.

Guardai cosa mi ero fatta più che altro per capire se potevo nasconderlo agli altri. Supposi di sì, stando attenta. Sembravano soprattutto graffi. Avevo dei fazzoletti ma non mi andava di tirarli fuori dallo zaino, tirai semplicemente giù la manica e tamponai le ferite. Per il sangue sul maglione avrei trovato una scusa.

Passata una buona mezz'ora decisi di andare a casa, si sarebbero preoccupati se fossi rimasta di più a quell'ora e al buio.

Quindi salii, salutando in fretta i miei e comunicando che non avrei mangiato. Feci in tempo a vedere gli sguardi che si scambiarono mia madre con mio fratello Francesco.

Mi chiusi in bagno. Sotto la forte luce del lampadario mi accorsi che le ferite non erano poi così superficiali. In alcuni punti i tagli si rivelarono profondi e i bordi erano gonfi e infiammati, in pieno contrasto con la mia pelle bianca. Con ogni probabilità mi sarei ricoperta di ecchimosi. Fortunatamente non era periodo da maniche corte. Lavai al volo il sangue dal maglione nel lavandino e lo buttai nella cesta dei panni sporchi. Poi mi infilai sotto la doccia.

Dopo essermi asciugata i capelli, sgattaiolai in camera. Accesi la piccola tv che non usavo mai perché, appunto, troppo piccola, e misi su un canale dove trasmettevano di continuo documentari. Mi fermai lì ad ascoltare per la milionesima volta la storia dei templari. Avevo bisogno di annoiarmi fino a prendere sonno. A distanza di cinque minuti, mia madre entrò in camera portandomi latte e biscotti.  

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