48.

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«Io andrei.»

«Io spero tu non...» era dispiaciuto, gli stavo facendo pena. Avrà visto in me la ragazzina delusa per aver realizzato che era solo una presa in giro.

«Nessun problema e non c'è bisogno che mi accompagni», lo interruppi bruscamente.

«Scherzi, vero?»

Provai a dire qualcosa ma non mi ascoltò. Prese la giacca, le chiavi della macchina dallo svuotatasche di pelle nera sulla mensola e si avviò verso la porta. Feci lo stesso dopo aver recuperato il cappottino e la borsa.

In auto ci fu silenzio, immaginavo ne avesse abbastanza di me. Probabilmente si era pentito di quella serata che mi aveva regalato e io non riuscivo più a trovare una cosa positiva in quello che era successo a partire dalla sera precedente. Iniziai a vedere nero, avevo sbagliato tutto. Guardavo fuori, quasi dandogli le spalle, e non sentivo per niente il suo sguardo su di me. Ecco, era finito tutto. Per aver ceduto mi ero bruciata i mesi a venire. Almeno ci avessi fatto l'amore. Ma con una come me già era tanto se era riuscito a baciare, figurarsi se fosse stato in grado di andare oltre. Era abituato a ben altro.

Arrivammo sotto casa, avrei voluto chiedergli di lasciarmi un po' distante per evitare di incontrare qualche invitato alla mia festa - farmi trovare alle 11 di mattina, con ancora addosso il vestito della sera prima, in sua presenza non mi pareva un'ottima idea – però, onde evitare di sembrargli ancora più immatura, confidai nella buona sorte. Ma quale buona sorte maledetta? Non feci in tempo a uscire di fretta dall'auto, senza dimenticarmi di ringraziarlo per la serata, mentre mi rivolgeva un tiepido «A domani», che mi sentii chiamare da lontano da Lele. Cosa aveva fatto? Aveva aspettato tutta la notte lì per vedermi rientrare? Lo salutai con la mano dirigendomi a passo spedito verso il portone. Le chiavi si erano nascoste nella minuscola borsa, manco avesse all'interno una botola segreta, e sapevo che nessuno avrebbe impedito a Lele di venirmi dietro. Quando gli sentii dire «Ciao», mi girai a guardarlo e vidi che era rivolto a Damien, che gli fece un cenno con la mano.

«Fatemi capire una cosa, il frustino lo avete usato, poi?» ad alta voce per farsi sentire da entrambi.

Gli lanciai un'occhiataccia ed entrai nel portone che ero riuscita ad aprire, Damien mise la freccia e ripartì.


Ero convinta di ritrovarmi mia madre davanti appena fossi entrata in casa, ma per fortuna si trovava nelle camere in fondo al corridoio. Quindi urlando un saluto, mi scaraventai in bagno per fare una doccia. Buttai il vestito nella cesta dei panni sporchi e attesi che l'acqua diventasse bollente prima di infilarmici sotto e lavare via i miei peccati.

Di tutte le ore vissute con lui in testa mi erano rimaste solo le ultime. I baci, quei baci. Sentivo ancora la sua bocca su di me, sul mio collo. La lingua che cercava la mia, le sue mani che toccavano il mio sedere e mi stringevano a lui. La sua erezione. Era per me. No, era per la situazione. Era fisica. Non era per me, chissà a chi stava pensando mentre mi baciava per riuscire a farlo con quel trasporto. E quando aveva iniziato a baciarmi piano? Oddio, quello era stato forse il momento più bello della mia vita. Della mia triste vita. Sarei rimasta ancorata a quel ricordo per sempre. Ma non volevo vivere per sempre, non così, non senza Damien che magari adesso si andava a sfogare con una vera donna degna di lui. Perché? Perché cazzo avevo ceduto se sapevo che poi sarebbe andata così? E ora come facevo ad andare avanti sapendo che lui si stava schifando per quello che aveva fatto? Glielo leggevo in quell'espressione distaccata che aveva avuto alla fine. Dopo di lui, chi mai avrei potuto amare e desiderare così? Cosa cazzo vivevo a fare ancora?

Mi fermai quando invece di prendermi sulla testa, mi presi sull'arco sopraccigliare. Si sarebbe gonfiato. Riposi il doccino al suo posto e mi controllai. I lividi si stavano già formando all'altezza delle anche dove avevo iniziato a colpirmi, sulle ossa. Quelli in testa sarebbero rimasti coperti dai capelli ma per il sopracciglio dovevo inventarmi una scusa. Mi misi l'accappatoio e mi specchiai, notando inizialmente solo il trucco che mi era colato stando sotto l'acqua. Mi struccai avvertendo dolore sul sopracciglio destro ma non c'erano tagli. Speravo non si gonfiasse troppo, ero già brutta di mio.


Scambiai poche parole con mia madre raccontando che ero stata in un locale dove i miei amici mi avevano organizzato una festa a sorpresa e poi avevo dormito da Viviana, ma solo poche ore per cui mi era preso un gran mal di testa.

«Hai fatto colazione?»

«Sì.» Avevo ancora il suo sapore in bocca. Dovevo lavarmi i denti, così sarebbe scomparso da me per sempre.


Saltai il pranzo e rimasi a letto fino a metà pomeriggio rimuginando. Lo immaginavo nel suo con un'altra. Dio, ero stata così felice per un attimo che l'infelicità ora era insostenibile.

Mi alzai di scatto per cercare qualcosa con cui farmi male, fui interrotta da mia madre che mi disse di prepararmi, tra non molto sarebbero arrivati gli altri.

Passai la serata cercando di inventarmi qualcosa da raccontare sulla festa del giorno prima, attingendo alcune cose dalla realtà, altre inventandole di sana pianta. E poi sì, la mia amica ballando mi aveva dato una gomitata sul sopracciglio.


«È stato mio nipote. Ieri sera per giocare, mi ha dato un calcio sul sopracciglio con tutte le scarpe. Gli stavo facendo il solletico», spiegai a Giulia. L'avevo raccontata così tante volte con questa versione che me ne ero convinta anche io, faceva parte dei miei ricordi ormai.

Facemmo lezione di ginnastica e tremai al pensiero di doverlo rivedere, ma mi ero imposta di comportarmi come se niente fosse. Avevo promesso a me stessa non molto tempo prima che lo spettacolo aveva la priorità su tutto, lo stavo facendo per Marzio, a me avrei pensato dopo. Le lacrime continuavano a scendere e non liberavo la doccia che serviva alle altre. Fui l'ultima a uscire e a raggiungere la sala prove. Già avevano iniziato e me ne andai a sdraiarmi sul divanetto in fondo alla sala, le gambe sopra il bracciolo nonostante il vestito corto - ma a collo alto - che indossavo. Damien non c'era. Perfetto. Chiusi gli occhi e rimasi a farmi travolgere dal buio, cullata dalle voci delle altre.

«Sei ancora stanca?»

Sbarrai gli occhi. Mi tirai su di scatto.

«Rimani pure sdraiata.»

Sì, così mi avrebbe visto il doppio mento.

Si sedette accanto a me e il disagio era evidente per entrambi. Che errore avevamo fatto.

Parlò solo dopo qualche minuto: «Avevi promesso che non avresti alzato un muro se avessi sbagliato».

«Nessun muro. E non hai sbagliato», cercai di sembrare tranquilla. Lo stomaco si stava impiccando con le budella.

«Invece sì. Sono stato troppo sfacciato e aggressivo. E ti ho lasciato questo», spostò con le lunghe dita il collo del vestito controllando il risultato del lavoro della sua bocca su di me. Ero già, di nuovo, partita. Riprovai di getto tutte le sensazioni e le lesse indubbiamente nei miei occhi.

«Questo me lo sono già venduto a una rivista patinata. Ti ripago pure la festicciola dell'altra sera», gli feci l'occhiolino.

«Come faccio a non avere voglia di baciarti se fai così?» Sorrise dolcemente accarezzandomi il collo fino alla guancia. Stavo per prendere la sua mano e baciarla. Aveva delle mani stupende.

«Voi due che state facendo su quel divano? Lo sapete che ci sediamo anche noi là sopra?»

Ringraziai Steve in silenzio per averci riportati alla realtà.

«Comunque nessun problema,» ripresi con finta serenità, «è rimasto tutto confinato a quel momento.»


*****


L'ultima frase non sapeva come interpretarla. Era l'inizio? La fine? Da dove dovevano ripartire?

Aveva passato le ultime trenta ore a chiedersi come recuperare quella situazione che gli era sfuggita di mano. O almeno così sembrava, visto il modo in cui si era allontanata e aveva classificato quello che c'era stato con un "non è successo nulla, è inutile continuare a giocare".

Dopo averla accompagnata, era tornato a casa sua e si era fatto una doccia e lavato i denti. Quel sapore che aveva in bocca lo avrebbe ritrovato ogni giorno a colazione. Si sarebbe eccitato tutte le mattine pensandola?

Dio, quanto era attratto da lei. Appena l'aveva vista sotto casa sua le era sembrata più grande, più adulta, e quando si era sfilata il cappotto al cinema gli aveva tolto il fiato. Dannazione quanto le stava bene quel vestito, sembrava dipinto addosso, seguiva tutte le sue curve evidenziandole e si era subito trovato a pensare che avrebbe voluto fare l'amore con lei senza toglierglielo. Durante la serata era riuscito a riconoscere i suoi amici più stretti dagli altri dal modo in cui la guardavano: certi avevano sguardi fraterni, ma la maggior parte no, la desiderava quasi quanto lui. Tutti a guardarle quel sedere perfetto che si bilanciava col seno alto e prosperoso al punto giusto. Avrebbe voluto vederla nuda, anzi no, prima avrebbe voluto vederla con ognuno di quei completini che le avevano regalato. Poi nuda. Continuava a eccitarsi e ormai era doloroso. Si rese conto che in quel momento il desiderio sessuale aveva preso il sopravvento, mentre i sentimenti provati alla festa, o ancor prima al cinema, li ricordava più delicati, romantici.

Non ne poteva più. Ci mise poco a venire.


Con il sangue che fluiva omogeneamente nel suo corpo, considerò l'attrazione spasmodica che provava per lei come il motivo per cui era andato tutto a rotoli. O forse la gelosia? Se quello stronzo di Simone non avesse esagerato, lui non avrebbe fatto altrettanto. Se prima la desiderava, baciarle il collo e sentirla trattenere ogni lamento, gli aveva fatto perdere la cognizione con la realtà. Non aveva più pensato a nulla. Poi, assaggiando quelle labbra morbide che lei aveva piano piano aperto per far entrare la sua lingua, non era riuscito a controllare le mani. Dio, che sedere sodo che aveva. L'avrebbe voluta portare sul tavolo e fare l'amore lì sopra. Il modo in cui lo mordeva, come si era abbandonata a lui, la gamba che aveva messo tra le sue mentre muoveva il sedere sotto le sue mani. Se la immaginava nel suo letto, la mattina dopo una notte insieme. Sembrava che anche lei lo volesse e allora perché se n'era uscita così e aveva visto calarle un'ombra nera sul viso? Cos'è che non capiva?


Ormai erano le 20 ed era la terza volta che Keira gli telefonava, non aveva mai risposto. Per distrarsi si era messo a dipingere, ma non ne era uscito nulla di buono, benché avesse avuto modo di vedere i suoi occhi ancora più da vicino, con una nuova luce dentro, un'altra intensità.

Lasciò che partisse la segreteria, poi la richiamò.

«Allora, com'è finita la serata?»

«Bene.»

«Con questo tono? Cos'hai combinato?»

«Perché dovrei aver combinato qualcosa io?» e le raccontò tutto.

«Quindi hai marcato il territorio!» esclamò Keira quando lui ebbe finito, interrotto durante il racconto solo per delle richieste di chiarimenti.

«No, insomma, che vuoi dire?»

«Che le hai lasciato il segno solo per far vedere a Simone che lei è tua e non sua!»

«No, non era questa la mia intenzione.»

«E quale era?»

«Non so. Cazzo. Sì,» ammise infine a sé stesso, «ma non era solo per lui.»

«Damien, hai fatto una grande cavolata. È come se l'avessi marchiata, il senso è quello. Simone scherzava, lo capisci che lo fa apposta per farti ingelosire? È così evidente! Le tasterà pure il culo e ci ballerà in maniera provocante, le avrà dato qualche bacio di sfuggita...»

«Nient'altro?» la interruppe infastidito.

«Damien, a lei non interessa Simone. È persa per te. Possibile che tu abbia dovuto vendicarti di lui lasciando un segno su di lei?» Gli disse che si era comportato da ottuso, l'attrazione che provava Ginevra per lui era inequivocabile. «Il suo mondo è cambiato radicalmente in pochi mesi, ha lasciato un ragazzo col quale è cresciuta, e tu ti comporti da ragazzino geloso?»

Non rispose, aveva centrato la situazione.

«Non è una di quelle che vuole essere portata a letto e basta. Dovete affrontare insieme un progetto che lei ha difficoltà a gestire, tu hai il doppio della sua età e sei un attore famoso che di norma lavora dall'altra parte dell'oceano. Pensi che non sia un ragionamento che fa? Non sarà questo a bloccarla e a farla tirare indietro?»

Perché non aveva il cervello di una donna? Riuscivano ad arrivare dove un uomo non arrivava, nella mente delle altre donne. Lui era lì, con lei, e non aveva capito niente, mentre a Keira era bastato farselo raccontare. Ed era sicuro che avesse ragione, ora che glielo aveva spiegato.

A quel punto le chiese consiglio su come comportarsi.

«Scusati con lei, per averla sopraffatta e per il succhiotto. Poi cerca di ripartire piano, non cercare di portartela subito a letto.»

«Non voglio portarmela solo a letto.»

«Lo so, sei innamorato perso anche tu.»

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