62.

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Certo che sembravamo parecchio strane, in quell'auto tutte appiccicate, vestite come ventenni che stavano per fare una passeggiata sotto casa, ma truccate e pettinate come se stessimo andando a una sfilata.

«Possibile che noi ci dobbiamo subire solo i lamenti?» Viviana abbassò il volume dello stereo sporgendosi dai sedili anteriori. «Ci dici che c'è tra te e Damien?»

«Niente.»

«Diccelo prima che andiamo a chiederlo a lui. E sai che ne siamo capaci!» minacciò Flavia guardandomi dallo specchietto retrovisore.

«Niente.»

«Sì, infatti l'altra sera dalla festa di Luca ve ne siete andati mano nella mano! Proprio niente!» insinuò Fabiana.

Sospirai. Se avessi detto loro quello che era accaduto non avrebbero capito, avrebbero pensato che era fatta, che gli piacevo. Non avevano la mente aperta per capire che era molto più complesso.

«La mano... non significa niente», non sapevo cos'altro aggiungere. Mi riempirono di parolacce.

«Sentite, lo fa per farmi contenta. Lo so io, lo sa lui e lo sapete voi.»

«Non è che per farti contenta ti si è portato pure a letto?» Marta giocava col piercing al naso.

«No.»

«Ti ha baciata?» mi attaccò Viviana.

«No», ma mi sfuggì un sorriso perché mi sentivo i loro occhi inquisitori addosso.

«Ih! Ti ha baciata e tu non ci hai detto niente! Brutta stronza, sono mesi che ti stiamo dietro, ci sei costata più di fazzoletti che di altro e non ci dici che ti ha baciata!» urlò Flavia mentre guidava.

«No, ho detto di no! E guarda la strada!»

«Ma se hai fatto un'espressione che la diceva lunga...» Fabiana mi diede una spinta.

«Allora, non ci siamo né baciati né altro. Ve lo ripeto: se vedete che fa il gentile con me è perché magari gliel'ha suggerito Dari o Marzio o la voglia di portare a termine lo spettacolo senza drammi. E questo è tutto.»

«Ok, sentiamo: dove siete andati dopo essere scappati dalla festa a distanza di poco più di un'ora da quando eravate lì? E sottolineo "scappati"», Flavia mi puntava dallo specchietto.

«Al Gianicolo.»

«Se l'è scopata», chiuse il discorso Marta.


27 marzo 2001

La mattina prima di andare a scuola mi aveva mandato un messaggio. Non usavamo molto chiamarci o messaggiare, solo quando era inevitabile, come quella volta. Vedere il suo nome sul cellulare mi diede un brivido.

Alla solita ora? h. 6,38


In realtà esco un'ora prima oggi ma

se hai problemi ti aspetto o rimandiamo. h. 6,39


Sarò lì per quando esci. A dopo. h. 6,39

Dio, come mi faceva stare bene.


All'uscita cercavo di individuare la sua auto parcheggiata attraverso le vetrate del portone della scuola, in modo da non fare la figura di rimanere lì fuori a guardarmi intorno proprio davanti a lui.

Non c'era un grande via vai, le altre classi erano ancora dentro a fare lezione. A noi avevano annunciato il giorno prima che sarebbe mancato un professore.

«Uh, guarda! Di nuovo Damien!» finse stupore Germana.

«Si era capito dalla gonna corta che indossa oggi», mi provocò Flavia.

«Le metto sempre.»

«Sì, da quando c'è lui.»

«Ciao!» e me ne andai.

Entrai in macchina salutandolo sorridente. Gli occhiali da sole, il maglioncino verde, i pantaloni bianchi. Quel collo e il modo in cui solitamente se lo toccava mentre parlava facendo mille espressioni. Più passava il tempo e più mi attraeva.

«Non ho visto nessuno in giro, per un attimo mi sono preoccupato pensando di aver capito male l'orario.»

«Ti mancava la tua orda di fan?»

Sorrise della mia gelosia e fece inversione di marcia. Dopo qualche metro ritrovammo le mie compagne che camminavano lungo il marciapiede per raggiungere la fermata. Erano troppe per farle salire tutte in macchina e accompagnarle per quel tratto, quindi non lo proposi nemmeno, ma Flavia ci fece segno di fermarci e attraversò la strada venendoci incontro.

«Investila», gli ordinai prima che si fermasse. Il sorriso che la mia amica aveva dipinto in volto prometteva guai.

Ma lui si fermò, disobbedendomi, e abbassò ancora di più il finestrino. Addirittura le regalò un sorriso mentre io la guardavo truce.

«Ciao!» quasi rideva già. «Ma l'altra sera ti è piaciuta la vista dal Gianicolo?»

Maledetta stronza.

«Così tanto che ci ritorneremo», rispose col sorriso di chi stava al gioco.

Io ero diventata completamente rossa e cercavo di trovare nel mio DNA residui di qualche avo stregone per maledirla in maniera efficace, stavolta.

Se ne andò via sghignazzando con tutte le altre che aspettavano di sapere cosa si fossero detti.

«Non crederai mai che sono stata costretta semplicemente a dire che siamo stati al Gianicolo, vero? Non ho detto nulla, solo quello e solo perché sono convinta che non bisogna inventare cavolate ma giusto omettere le cose, altrimenti se si vengono a scoprire dopo è peggio.» Ero un pezzo di roccia parlante, non mi muovevo.

«Puoi dire tutto quello che vuoi.»

«No, non me lo sognerei mai. Guarda qui che risultato!» guardai le mie amiche mentre ci allontanavamo con la macchina. «Andare via dalla festa in quel modo non è stata una grande idea», scaricai la colpa anche su lui, visto che c'ero.

«In quale modo?» finse noncuranza.

Non risposi incerta se rimanerci male, ma lui mi prese la mano. Guidò di nuovo tutto il tempo stringendomela.


Questa volta passeggiammo per il centro come se fossimo due turisti nel primo pomeriggio di un inizio primavera a Roma. Intanto iniziò subito fermandosi in una gelateria per prendere due gelati enormi dentro le cialde da usare come coppe. Non provò a propormi di mangiare in qualche ristorantino e lo apprezzai. Ormai aveva capito i miei limiti.

Camminammo fermandoci ogni tanto a visitare qualche chiesa, rimase affascinato dalle opere d'arte all'interno e dall'architettura esterna. Io, invece, ero affascinata da lui.

Piazza Navona, Pantheon, Fontana di Trevi, Keira. Cazzo. Quasi ci scontrammo in mezzo alla folla di gente che occupava la piazza. Solo in un secondo momento notai anche la presenza di Mark e solo quando ci guardò le mani mi resi conto che ce le stavamo tenendo.

«Uh! Allora è ufficiale!» esordì.

«No, giusto per non perderci tra la folla», tolsi all'istante la mano da quella di Damien.

Mi guardò poco convinto.

«Pensavo fossi alle prove», Damien si rivolse a Keira.

«Avrei dovuto ma oggi è passato Mark e riparte domani, così approfittiamo per stare un po' insieme.»

«Certo.»

Ci fu un attimo di silenzio in cui notai l'imbarazzo di Damien, forse perché era con me? Certo che era per quello. Si vergognava di me, non si aspettava di trovarsi i suoi amici di fronte e doversi giustificare. Ecco, ora sarebbe diventato freddo e distaccato e io avrei fatto meglio a starmene a casa a studiare. Sapevo che sarebbe andata a finire così, perché continuavo a provarci e riprovarci? Ero una stupida. Come potevo pensare che sarebbe andata bene anche una semplice passeggiata? Cercai le mie mani per farle lottare tra di loro ma qualcosa me lo impedì. Una era intrecciata a quella di Damien. Quando me l'aveva ripresa? Stava addirittura dando loro delle indicazioni con la mano, con la mia attaccata. La guardai, come se non mi appartenesse più, meravigliata di vederla volteggiare per aria senza il mio controllo.

Mark seguì il mio sguardo, lo notai e cercai di darmi un tono guardandomi intorno. Dopo qualche minuto ci propose di proseguire con loro, ma Keira gli disse di lasciarci in pace, salutarono e andarono via.

Non sapevo cosa dire. Di tutte le persone in giro per il centro di Roma, proprio loro dovevamo incontrare?

«Cosa stai pensando?»

«Niente.»

«Ti ha dato fastidio incontrarli?»

«Mi dà fastidio che fraintendano.»

«Cosa?»

«Ok, scusa hai ragione. Non sono stupidi», chiusi il discorso, subito di malumore. Effettivamente come potevano credere che ci fosse qualcosa tra noi due? Loro erano del suo stesso ambiente, sapevano che tipo di persona poteva stargli accanto e di certo non ero io.

«Hai capito male,» si fermò, «tu pensi che diano un significato a questo...» e tirò su le nostre mani.

«Scusa, sono una cretina, lo so che non possono dargli valore. Non ne ha», lo interruppi.

«Non ne ha? Cosa dici? Mi fai finire di parlare?»

Rimasi zitta. Eravamo tornati ai discorsi che non volevo affrontare. Non volevo sentirgli dire che quello non significava niente né per lui né per il resto del mondo, perché per me voleva dire tutto. E non volevo neanche sentirgli dire il contrario, perché non gli avrei creduto.

«Cosa significhi per loro, non mi interessa. Mi interesserebbe sapere cosa ne pensi tu, ma sembra che non ne vuoi parlare e mio malgrado lo accetto. Però non dirmi che non ha valore, non ci credo», finì cercando i miei occhi che guardavano in basso.

In quel momento si avvicinarono due ragazze e ci guardarono tentennando.

Alzai gli occhi verso di lui: «Oh mio Dio! Damien Loonz!», dissipando i dubbi delle due. Io indietreggiai sorridendo e lui cominciò a firmare autografi continuando a mandarmi occhiatacce divertite. Poi mi girai e continuai a camminare lentamente. Quella era la sua vita e io non potevo uccidere tutte.


Avevo percorso circa duecento metri quando mi raggiunse su Via del Tritone, prendendomi la mano prima ancora di essermi accanto.

«Mi hai lasciato solo.»

«Non mi sembravi in una situazione spiacevole», continuammo a camminare.

«Hai una visione alterata della mia realtà.»

«Non mi fai pena.»

«Non è sempre così bello come pensi, non è sempre piacevole. Lavoro mesi senza staccare, lontano da casa e dagli affetti, concentrandomi unicamente sul lavoro.»

«Non mi fai pena comunque», continuai impassibile.

«Beh, potrei farti pena se ti dicessi che magari a causa del mio lavoro vengo allontanato proprio dalla persona che desidero avere più vicina...»

«No, neanche così.»

«Hai un cuore di ghiaccio.»

«Io? Dillo alla persona che ti allontana.»

«Hai un cuore di ghiaccio», ripeté un attimo dopo.


Percorremmo Via del Corso e Via Condotti. Venne fermato un altro paio di volte e riconosciuto molte altre. Io non mi allontanai come prima ma tenni le distanze tutto il tempo, in modo da potermi confondere con le persone che passavano, magari guardando le vetrine dei negozi.

Mi raggiunse davanti una famosissima gioielleria.

«Quale ti piace?» guardava delle parure con dei grossi smeraldi.

«Con me il tuo patrimonio rimarrebbe intatto,» gli sorrisi, «non mi attirano per niente, troppo vistosi.»

«E quelli più semplici?» indicò dei gioielli delicati con dei prezzi esorbitanti.

«Ho mani, collo e polsi troppo brutti per impreziosirli così», ripresi a camminare.

«Tu non hai nulla di brutto, neanche il carattere, anche se cerchi di dimostrare il contrario!» terminò ridendo. Mi prese di nuovo la mano e mi fermò visto che gli stavo qualche passo avanti, mettendo l'altra sul mio fianco. «Sei stupenda», con un'intensità da film romantico.

«Stiamo esattamente dove non dovremmo stare per fare queste scene,» cercai di farmi vedere fredda, «potresti ritrovarti una foto così su un giornale.»

«Non mi interessa.»

«A me sì» e continuai a camminare.


Dopo un giro a Piazza di Spagna tornammo indietro a prendere la macchina. Al ritorno, passando per il Muro Torto, gli parlai di Villa Borghese con tutte le indicazioni che sapevo dargli e cioè: «È una villa molto grande, un parco. Frequentata perlopiù da famiglie durante il fine settimana e da ragazzi che "fanno sega", cioè marinano la scuola, la mattina, tutti sdraiati sul prato». Ecco come ridurre a niente secoli di storia.

Mi guardò sollevando le sopracciglia.

«Perché non... come hai detto? Marinare la scuola.»

«"Fai sega". È un modo di dire che si usa a Roma», spiegai.

«Perché non fai sega?» ripeté piano lui, soddisfatto di aver portato a termine la frase.

«Quando?»

«Domani.»

Ci pensai un attimo.

«Mi farai bocciare. Per colpa tua dovrò ripetere questo anno!» buttai indietro la testa, guardando il soffitto dell'auto.

Mi chiese se ci fosse un reale pericolo che accadesse. No, i miei voti erano miracolosamente rimasti alti, nonostante stessi tirando la corda.

«Perfetto! Dai!» batté le mani sul volante, entusiasta.

«Fammici pensare un secondo», ma non riuscivo neanche a ricordare quali materie avessi. Ero fusa, sballata, fuori dalla mia semplice realtà.

«Ti passo a prendere la mattina, all'ora in cui esci per andare a scuola e veniamo qui. Poi pranziamo da me, se devi studiare per il giorno dopo, studi, e poi andiamo alle prove.»

Sollevò di nuovo le sopracciglia con fare ammiccante.

Come potevo dire di no?  

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