2~Ice

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Una piccola foglia ingiallita si staccò silenziosamente dal suo spesso ramo. Il vento la prese a proprio carico e la fece danzare per alcuni secondi nel cielo per poi abbandonarla alla sua lenta ed inesorabile discesa verso terra. Una lama di luce la indorò mentre essa calava sullo specchio d'acqua che ancora rifletteva l'immagine del suo verdeggiante albero d'origine. La foglia sfiorò l'acqua, fece un lieve balzo in avanti e si trovò a navigare sopra un diverso ricamo cucito fra i flutti silenziosi. Non ci fece troppo caso finché non si scoprì a girare su sé stessa a causa di due correnti contrastanti, che così le impedirono di abbandonare l'ombra così insolita sotto di lei.
L'antica quercia che rinfrescava le acque cristalline del laghetto tingendolo di un verde acceso, era presidiata da una Ice esausta, incapace di dormire, ma enormemente rilassata. Il sole la baciava a chiazze: sul naso, lungamente sulla schiena e sulla punta della coda. La gatta lasciava penzolare con mollezza una zampa anteriore mentre seguiva con gli occhi semichiusi le tonalità che lo specchio d'acqua prendeva imitando minuziosamente il movimento delle chiome smeraldine scosse dal vento. Un'opera d'Impressionismo degna di Monet che il felino non si stufava di apprezzare.
Un daino si abbeverava, sempre all'erta, mentre Ice si dedicava al suo approfondito studio. Gli uccelli si levavano in volo oppure si appollaiavano tutto attorno a lei; talvolta Ice li scacciava con aria annoiata scuotendo la coda o stirando lievemente le zampe artigliate.
C'era una calma intrinseca, come se la vita avesse preso la consistenza e la velocità di una scia di dolce miele. Ice si leccò i baffi pensando alla dorata prelibatezza e sbadigliò per poi grattarsi una cicatrice rosea sul fianco che le prudeva insistentemente. Chiuse gli occhi qualche secondo, sollevata; quasi all'improvviso sentì il torpore calare come un velo e coprirla completamente. La gatta sorrise soddisfatta, pregustando un sonno profondo.
Morfeo si stava giusto avvicinando in punta di piedi quando un temibile grido fece quasi cadere dalla sua postazione la gatta che soffiò al nulla inarcando la schiena ancor prima di vedere che stesse accadendo. Quando il mare delle sue iridi si sprigionò dalle sue palpebre, all'urlo erano già seguiti svariati versi e suoni di remota origine.
Ciò che la gatta si ritrovò ad osservare contrariata, era la lotta di un lupo spaventosamente magro e un cervo dal palco di corna enorme, che proteggeva un piccolo cerbiatto terrorizzato. L'animale ungulato era già pieno di morsi e il sangue gli scivolava veloce sino alla pancia per poi unirsi alla cascata che inondava il terreno, infiltrandosi fra gli aghi verdi e rotolando fino al piccolo cerbiatto, indenne, ma rosso di conseguenza. Il canide, dal canto suo, si reggeva appena in piedi e, nonostante non paresse essere stato colpito dalle temibili corna, aveva l'aria di colui che aveva tentato l'ultima carta, senza crederci nemmeno in prima persona.
Ice sbuffò a tutto quel baccano nonché alla fastidiosa idea di essere bloccata in cima alla quercia: nessun pazzo si sarebbe mai buttato nella lotta fra due titani come quelli, comsumata proprio sotto il suo rifugio. Dunque si spostò scocciata appena più dietro il fogliame e si sedette, osservando lo scontro mentre si puliva il manto ancora caldo.
Fortunatamente per lei, la storia non si protrasse ancora a lungo, però: il lupo tentò un fioco assalto alla gola del cervo che lo calciò via, lanciandolo a terra e togliendogli totalmente il fiato; l'ungulato, vittorioso, gli si scagliò contro con tutte le proprie forze: il lupo, nel panico, rimase qualche attimo incastrata fra l'intricato palco, i suoi occhi strabordanti di terrore incrociarono un istante lo sguardo glaciale di Ice, poi si ritrovò esangue, abbandonato scompostamente sugli aghi. Si abbandonò totalmente, accettando la fine; ma, Fato scherzoso, realizzò di potersi ancora alzare: evidentemente lo sfortunato cervo l'aveva colpito in modo che gli acuminati coltelli che si trovava in testa non trapassasero lo stomaco del nemico ma gli creassero solo quattro minori ferite sanguinanti certo non immediatamente mortali.
Il cervo ci mise un attimo di troppo a capirlo: il lupo morente intrpretò la sua disattenzione come la pietà di un Dio che non conosceva. Si buttò con l'intero corpo, fameliche fauci spalancate in prima linea, contro il collo terribilmente morbido, su cui una vena pulsava.
La scena di sangue che si presentò agli occhi increduli e agghiacciati del piccolo cerbiatto un attimo dopo era raccapricciante: il cervo era disteso a terra, il sangue nero gli scendeva dal collo incessantemente, creando un vero fiume vermiglio che investì il cucciolo. Il lupo era esanime, il muso si trovava affondato all'interno del cadavere; si era soffocato col sangue del nemico e nel suo spasmodico dibattersi in un inutile tentativo di fuga aveva solo squarciato ulteriormente la carne, trovandosi incastrato in un mare di carne ancora pulsante.
La povera bestiola, a quella cruda vista, incespicò, scivolò muso a terra, affondando nel sangue ormai lievemente grumoso. Si tirò in piedi, ebbe un istante di panico totale: non riusciva a respirare dal naso a causa del liquido entratogli nelle narici e, copioso, nella bocca; si riprese e corse via, ignorando, nella sua animalesca e lineare mente, che stava semplicemente andando in corso a una morte sanguinosa quanto quella o lunga ed atroce, per la fame.
Il sangue si stava lentamente raggrizzendo e le fontanelle si erano oramai prosciugate: il lago, ora, era rosso acceso. Ice lo ammirò, compiaciuta. Vi rimirò il proprio manto oramai immacolato, arrischiandosi lungo il ramo. Gettò un'occhiata fugace a terra e decise che per nulla al mondo si sarebbe nuovamente inzuppata di quella roba. Così riprese la sua posizione iniziale, pancia contro la corteccia, zampa abbandonata a dondolare. Si distese, ammirò ancora un poco il bosco riflesso nel sangue in un grottesco e squisito quadretto, poi chiuse gli occhioni.
Il sonno le piombò sopra con prepotenza e lei, senza scomporsi, si lasciò avvolgere da quell'amico volubile e burrascoso.
Mentre perdeva conoscenza i primi corvi già avevano trovato di che banchettare, e decine di quegli uccellacci neri presto li raggiunsero.
I corvi, nel giro di poche ore, presero a danzare, allegri come una Pasqua, nella cupa imitazione di una festa paesana, attorno a tutto quel ben di Dio.
Presiedettero la zona indisturbati per tutta la notte, e probabilmente avrebbero continuato ancora molte ore se un animale più stupido degli altri non si fosse messo a provare a punzecchiare e mordicchiare quella gatta che stava così immobile da tempo immemorabile nella sua nera testolina. Il risultato fu immediato: Ice strappò via una buona parte delle viscere dell'animale prima che quello potessere beccarla di nuovo. La pioggia di intestini spaventò lo stormo che volò via in un'azione tempestiva. Un gruppetto, nella sua fuga, colpì Ice che si ritrovò a cadere da svariati metri, tentando, spaventata, di aggrapparsi a quella moltitudine di ali e penne.
L'atterraggio non fu dei migliori poiché la gatta non riuscì che troppo tardi e vedere la terra, dopo aver miseramente fallito nel suo tentativo di volare come gli uccelli. Sentì di colpo l'aria uscirle a forza dai polmoni; ricordò vagamente il lupo, che doveva aver provato quella stessa orribile sensazione prima della sua ultima eroica azione.
Sopra di lei un tetto nero formava un'agghiacciante uragano. Ice lo osservò senza venirne toccata. Ridacchiò senza emozione e senza fiato.
Aspettò qualche secondo poi fra i suoi pensieri confusi se ne compose uno solo, piacevolmente chiaro e ridondante "Spiacente, dea della morte, ma ti ripeto: non oggi!".
La gatta si costrinse a mettersi in piedi e riprese il suo viaggio, riposata e appena un po' stizzita per l'accaduto.

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