Armstrong

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Terra

21 luglio 2513, ore 07:55

Montréal

Q.G. Intelligence dell'Alleanza


Attorno al direttore Miller, l'attività continuava a essere febbrile: un piccolo gruppo di analisti, tecnici, ingegneri e scienziati stava mettendo a punto gli ultimi dettagli del piano, mentre Ellen dava istruzioni via radio alla squadra di Logan.

«Uno di voi deve rimanere nella centrale.» disse Ellen. «Il Fronte manderà sicuramente qualcuno a riattivarla.»

«Posso farlo io.» propose John.

«Negativo, ci servi alla Armstrong. Ramon è il più indicato.»

«Ricevuto, Ellen.» rispose Ramon. «Ci penso io.»

Le comunicazioni cessarono momentaneamente quando Logan, John e Marcel salirono sul rover, e la schermatura bloccò i radio-auricolari.

«Siamo partiti» annunciò Logan dopo qualche secondo. «Ci dirigiamo verso il centro di comando. Qual è il piano?»

«Una volta dentro, dirigetevi verso un terminale di controllo, e attivate la chiusura di emergenza. Gli uomini del Fronte nelle cupole nord e sud saranno tagliati fuori.»


Il sistema di chiusura d'emergenza era pensato per sigillare le cupole in caso di una perdita d'aria nel corridoio che le univa fra loro, o in una camera d'equilibrio: era una procedura automatica, ma dal centro di comando si poteva attivarlo manualmente.


«Dove si trovano gli ostaggi?»

«Le ultime immagini della sorveglianza indicano che i terroristi li hanno chiusi in una camera d'aria, vicino alla sala conferenze.»

«Come li portiamo via, con la chiusura attiva?» chiese Logan.

«Eliminate le forze del Fronte nel centro di comando, trovate Rosenberg e costringetelo ad arrendersi. A quel punto potrete rimuovere la chiusura.»

«E se non dovesse collaborare?»

«Abbiamo un piano di riserva.» disse Ellen con esitazione, guardando Miller. «Ma non piacerà molto al Comando.»

«Cosa vuoi dire, Ellen?»

Il direttore Miller fece cenno a Ellen di passargli le cuffie.

«Se Rosenberg non si arrende, distruggeremo le cupole nord e sud.»

Faraday rimase in silenzio per qualche secondo. «Ma noi non abbiamo missili balistici sulla Luna. Come faremo a sfondare il guscio?»

«Useremo i LAV della Artemis e della Apollo: li riempiremo per intero di carburante, e li lanceremo contro la Armstrong. L'esplosione basterà a perforare il guscio.»


Un LAV, ovvero Veicolo di Ascensione Lunare, era la navetta che le basi lunari dell'Alleanza usavano per il trasporto alle stazioni spaziali Gateway: erano dei semplici razzi a propulsione chimica, alimentati con ossigeno e idrogeno liquido, ricavati dalle rocce lunari. Erano antiquati se paragonati ai razzi alimentati a fusione nucleare, ma più economici da realizzare.

E un razzo pieno fino all'orlo di ossigeno e idrogeno poteva essere molto pericoloso: di fatto, era una bomba pronta a esplodere. Il Fronte Lunare sarebbe stato ripagato con la sua stessa moneta.



Luna

21 luglio 2513, ore 2:40

Dintorni della Base Armstrong



«Logan, ci sono due rover diretti alla centrale.» mi informò Ellen.

«Sono stati rapidi.» risposi, portandomi alla torretta. «Maya, andiamo verso di loro: diamo una mano a Ramon.»

Impostai la potenza dell'MR-25 al cinquanta percento e aspettai di vedere i rover nello schermo; ne presi di mira uno, e sparai un colpo. Sentii il ronzio delle bobine elettriche, ma nessuno sparo: la canna dell'arma era fuori dall'abitacolo, nel vuoto.

Il rivestimento del rover venne squarciato dal proiettile, che lo attraversò da parte a parte: la violenta decompressione fece ribaltare più volte il veicolo. Chiunque fosse all'interno sarebbe morto nel giro di un minuto.

Il secondo rover iniziò subito ad attuare manovre evasive, spostandosi a zig-zag e cercando di girarci intorno. Riuscì a farmi sbagliare due colpi, che si schiantarono a terra sollevando per un breve istante una nube di polvere.

Aumentai al massimo la potenza del fucile e guardai dov'era diretto il rover: una piccola collina, dietro cui poteva ripararsi per qualche istante dai nostri colpi.

Puntai direttamente il crinale, e attesi: quando il rover ricomparve sullo schermo, aprii il fuoco. Lo centrai in pieno.

Osservai il veicolo rotolare lungo la collina, in completo silenzio.

«Bel lavoro, Maya.» esclamai. «Portaci alla Armstrong.»


Arrivati al portello esterno della base, scesi dal rover con la tuta EVA addosso: bisognava azionare l'apertura d'emergenza della camera d'equilibrio: una leva, posizionata di fianco al portello.

Quando Maya entrò con il rover, richiusi il portello e iniziai il pompaggio dell'aria.

Come la centrale elettrica, la base Armstrong era quasi interamente al buio, illuminata solo dalle luci di emergenza rosse.

John e Marcel scesero dal rover mentre io cercavo di togliere la tuta EVA: ci voleva qualche minuto, specialmente se non si era pratici.

«Il rilevatore segnala un gruppo di nemici a ore dieci, in una stanza in fondo al corridoio a destra del portello.» mi informò John. «Potremmo aggirarli passando per quello opposto, oppure possiamo attaccarli subito.»

Era una decisione difficile. Dovevamo evitare di allarmare i nemici troppo presto, o avremmo messo in pericolo gli ostaggi. Ma il Fronte avrebbe scoperto in ogni caso la nostra presenza non appena avessimo attivato la chiusura di emergenza.

«Eliminiamoli.» decisi infine. «Dovremo affrontarli in ogni caso, tanto vale farlo ora.»


Dal rover, Maya ci osservava con preoccupazione. Era pallida in viso, e visibilmente spaventata.

«Resta nel rover.» le dissi. «Se qualcuno entra nella camera d'equilibrio, distruggi il portello esterno.»

Lei annuì senza rispondere. Non la invidiavo: non poteva fare altro che stare ferma e aspettare. Il tempo le sarebbe parso interminabile.

Indossai la tuta mimetica, e mi diressi verso il portello interno. Questa volta ero io a guidare il gruppo, mentre John faceva da retroguardia.


Ci muovemmo con cautela, nascosti dall'ombra, fino ad arrivare in prossimità della stanza dove il rilevatore segnalava del movimento. Spiammo nuovamente l'interno con una microcamera.

I separatisti erano sei, e si trovavano in una stanza di monitoraggio piena di terminali.

La maggior parte di loro era distratta, intenta a osservare i dati sugli schermi: erano bersagli facili. Uno di loro camminava avanti e indietro al centro della stanza, guardando le luci rosse con aria preoccupata. Lui era il pericolo maggiore, perché avrebbe reagito più velocemente degli altri al nostro ingresso: lo avremmo eliminato per primo.

Questa volta però non potevamo usare le cariche: avevamo bisogno di agire in silenzio, o gli altri uomini del Fronte avrebbero scoperto la nostra presenza prima che potessimo azionare la chiusura delle cupole.

I silenziatori dei fucili AR-C09 erano molto efficaci: l'arma emetteva un rumore simile a un forte scatto, completamente impercettibile in un ambiente molto rumoroso, ma comunque forte nel relativo silenzio della base Armstrong.

Ci preparammo all'irruzione, dividendoci i bersagli: dovevamo essere molto rapidi, o avrebbero avuto il tempo di rispondere al fuoco, e il rumore avrebbe allarmato i loro compari.

Premetti il pulsante di apertura della porta, e questa scivolò di lato; aprii il fuoco sull'uomo al centro della stanza, sparandogli contro tre colpi: lui ebbe a malapena il tempo di portare la mano alla fondina prima di venire colpito.

Vidi gli uomini presi di mira da John e Marcel cadere a terra un istante dopo, in completo silenzio: le cuffie antirumore eliminavano completamente il poco rumore prodotto dalle nostre armi.

Spostai la mira sul fondo della stanza, dove due uomini si stavano girando verso di noi: presi di mira quello a destra, e sparai i tre colpi rimasti nel caricatore. Cadde prima di poter rispondere al fuoco, insieme agli ultimi suoi complici, colpiti dal fuoco dei miei compagni.

Ci dirigemmo verso uno dei terminali.

«Puoi azionare la chiusura da uno di questi?» domandai a John, che si abbassò per controllare.

«No, è una stazione di monitoraggio dell'aria. Ecco perché li tenevano d'occhio.»

«E gli altri?» chiese Marcel.

John esaminò i terminali uno a uno. «Stato dei filtri, integrità delle camere d'equilibrio, contaminazione da regolite, radiazioni... ed eccolo qui, integrità del guscio esterno. Da qui posso azionare il blocco di emergenza.»

John armeggiò con il terminale, e dopo un minuto sentimmo un allarme in lontananza, che avvertiva di sgomberare i corridoi intercupola.


La chiusura era attiva: tutti i terroristi nelle cupole nord e sud erano bloccati e non potevano raggiungerci. Adesso era il momento di eliminare i nemici rimasti nel centro di comando.

I visori a infrarossi e i rilevatori di movimento ci permettevano di vedere i terroristi molto prima che loro vedessero noi: non avevano alcuna possibilità di difendersi. Sapevano che qualcuno si era introdotto nella cupola, ma non potevano combattere un nemico invisibile.

Ripulimmo i corridoi del centro di comando, dando la caccia ai terroristi uno a uno, finché non rimase solo la sala conferenze, dove il Fronte aveva radunato gli ostaggi.

La sala aveva tre accessi, e noi avremmo fatto irruzione da tutti contemporaneamente. Inoltre, avremmo potuto osservare l'interno da più angolazioni.


I terroristi ci aspettavano al riparo nascosti fra gli spalti. Avevano barricato gli ingressi laterali, ma le porte non avrebbero retto alle cariche.

Io ero pronto a irrompere dalla porta principale. Avevamo una carta vincente da giocare contro i terroristi, nonostante fossero in netta superiorità numerica: flashbang.

Esistevano da secoli, con il tempo erano state migliorate ma il meccanismo restava uguale ai primi modelli: la detonazione dell'esplosivo all'interno della granata non ne frammentava il guscio, ma produceva un forte rumore e una luce molto intensa, accecando e assordando per un po' i malcapitati contro cui era usata.

Diedi il segnale a John e Marcel, e attesi: appena sentii il rumore delle cariche, aprii la porta e lanciai all'interno la flashbang: le cuffie antirumore e il visore termico ci protessero dagli effetti della granata, ma i terroristi vennero investiti dal suo pieno effetto.

Aprimmo il fuoco contro di loro.

Nei secondi seguenti, il caos piombò sugli spalti. Pezzi di poltrone volarono ovunque, strappate dai proiettili, insieme agli uomini colpiti; il rumore era appena tollerabile nonostante le cuffie, e i terroristi sparavano alla cieca sperando di colpirci.

Ripararsi era inutile: non c'era scampo dagli AR-C09: erano abbastanza potenti da perforare tutte le cinque file di poltrone e impattare la parete opposta.

La maggior parte dei separatisi cadde in pochi secondi, senza avere il tempo di riprendersi dagli effetti della flashbang.

Presto, nessuno rispose più al fuoco dei nostri fucili. Aspettai qualche secondo, verificando che nulla si muovesse con il rilevatore di movimento, poi entrai con cautela. Quando fu chiaro che nessuno era sopravvissuto, alzai il visore.

Non fu un bello spettacolo.


Gli spalti erano praticamente distrutti, i corpi dei terroristi erano sparsi ovunque, e il pavimento era imbrattato qua e là da sangue e interiora. I muri portavano i segni dei colpi: in alcuni punti erano stati perfino perforati.

La polvere aleggiava lentamente: la combinazione di aria simil-terrestre e bassa gravità faceva sì che si posasse al suolo con estrema lentezza.

Le luci rosse contribuivano a dare alla scena un aspetto da film horror.

John e Marcel entrarono appena dopo di me; iniziarono a controllare che i nemici fossero morti mentre io mi diressi verso la camera d'aria e gli ostaggi.

«Ventidue.» sentii Marcel dire via radio. «Più tredici nei corridoi, cinque dai terminali e quattordici nella centrale, sono cinquantaquattro. Ce ne sono ancora più o meno altrettanti bloccati nelle altre cupole.»

«Per fortuna non sono un nostro problema. Abbiamo quasi finito i colpi.» rispose John.

Spensi il radio-auricolare per non sentirli, e mi avvicinai alla porta della camera d'aria. Gli ostaggi mi fissarono, impauriti. Non ci badai: era una reazione più che normale, e io non ero una figura rassicurante, bardato di nero dalla testa ai piedi se non per gli occhi.

Aprii la porta e mi rivolsi loro nel tono più calmo possibile. «State tranquilli: siamo qui per portarvi in salvo.» dissi, guardandoli uno a uno.

Con mia sorpresa, fra di loro riconobbi due facce note: gli invitati cinesi alla Artemis, Tong Li Hung e la signorina Mei Ling. Tong, in particolare, tremava come una foglia, rannicchiato in un angolo.

Mi avvicinai a lui. «Siete voi i negoziatori che ha mandato la Cina?» gli chiesi.

Lui annuì, continuando a tremare.

«Non ci faccia del male.» balbettò. «Non siamo amici dei terroristi, siamo qui per...»

Mei Ling lo fulminò con lo sguardo, dicendogli seccamente qualcosa in cinese.

Rivolsi a lei la mia attenzione: era stranamente calma, per essere un ostaggio in una situazione ad alto rischio. L'unica cosa che stonava con il suo contegno glaciale era il labbro inferiore spaccato. Qualcuno, fra i terroristi, doveva averla colpita.

Non avevo tempo di scoprire perché fossero stati mandati qui; prima dovevo trovare Hans Rosenberg. Mi sarei occupato dopo di loro.

«Qualcuno di voi sa dov'è Rosenberg?» chiesi agli ostaggi.

«Nell'ufficio del comandante.» rispose Tong balbettando. «In cima alla cupola. Prenda l'ascensore dietro la sala conferenze.»

Lo ringraziai con un cenno, e mi allontanai.

«Controllate gli ostaggi, assicuratevi che stiano tutti bene.» ordinai a John e Marcel via radio. «Io penso a Rosenberg.»

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