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Terra,

30 gennaio 2514, ore 23:11

Località ignota



I dottori e gli infermieri parlavano fra loro, davanti al letto del paziente addormentato da antidolorifici e sedativi e attaccato a un respiratore.

«La donna?»

«Non ce la farà, le ustioni sono troppo gravi.»

«E gli altri due?»

«La ragazza potrebbe farcela, ma è ancora troppo presto per dirlo. Lui invece non avrà problemi.»

«Che cosa gli è successo?»

«Qualcuno ha manomesso la loro automobile, sono caduti in un burrone. La batteria ha preso fuoco e gli acidi hanno iniziato a fuoriuscire.»

«Come si è salvata la ragazza?»

«Sembra che suo padre non abbia perso subito conoscenza: ha rotto il parabrezza con il suo braccio artificiale, è uscito, e in qualche modo l'ha tirata via dal rottame. Se abbiamo ragione, è viva solo grazie a lui, sarebbe bruciata come la madre in pochi minuti.»

«È dei servizi? Mi sembra di averlo già visto.»

«Sì, è il maggiore Logan Faraday, il comandante della nostra sezione antiterrorismo.»

«Come mai il Comando l'ha fatto portare qui? Un ospedale civile lo avrebbe curato altrettanto bene.»

«Lui sì, ma sua figlia no. Il Comando ci ha ordinato di non badare a spese.»

«Davvero?»

«Faraday è classificato come "personale chiave", quindi il Comando lo vuole operativo, e lo stesso trattamento è riservato alla sua famiglia. Dopotutto, perdere moglie e figlia in un colpo solo sarebbe uno shock troppo forte per chiunque.»

Uno dei dottori sospirò e scosse la testa.

«Povera ragazza. Ricordate come ha reagito quella donna, Marianne, quando si è vista allo specchio?»

«Certo che mi ricordo!» esclamò un'infermiera. «Ci sono volute ore per pulire la stanza dai frammenti di vetro!»

Uno dei dottori interruppe il discorso, incoraggiando i colleghi.

«Basta chiacchierare, al lavoro. E non preoccupatevi della ragazza, non ha niente che non possiamo risolvere. »

I dottori si allontanarono dal letto del paziente, discutendo fra loro.

«Proviamo il bio-gel?»

«Sì, è una buona occasione per testarlo. Dovrebbe andar bene per rigenerare i tessuti e curare le ustioni, e forse possiamo recuperare anche i polmoni: se siamo fortunati, potremmo doverle sostituire solo la mano.»



31 gennaio 2514, ore 10:23

Località ignota



Mi svegliai in una stanza completamente bianca, e capii di trovarmi in un ospedale.

Passati i primi attimi di disorientamento, iniziai a ricordare frammenti dell'incidente: il fuoco, il fumo, l'auto ribaltata, l'adrenalina che non mi aveva fatto sentire alcun dolore.

Ero certo di essere riuscito a sottrarre Elise alle fiamme: la portiera posteriore si era aperta senza troppo sforzo. L'avevo trascinata lontano, e poi ero tornato a prendere Morgane. Non ricordavo altro.

La porta della stanza si aprì; vidi entrare un dottore, intento a guardare una cartella clinica. Un cartellino lo identificava come "C. Galvani".

«Si è svegliato, maggiore?» disse quando vide che ero sveglio. «Non si muova, le servirà ancora qualche giorno per riprendersi del tutto.»

«Che giorno è?» dissi, parlando con fatica.

«Il 31. Sono passati quasi due giorni dal suo incidente.»

«Come sta Elise?»

Il dottore esitò un secondo. «La mano destra di sua figlia è stata irrimediabilmente danneggiata dall'acido della batteria che ha bucato il sedile: purtroppo dovremo sostituirla con una protesi meccanica.»

Lasciai cadere la testa sul cuscino. Sapevo per esperienza cosa si provava: il mio intero braccio sinistro è artificiale.

Anni addietro, durante un'operazione a Buenos Aires, ero stato colpito dai frammenti di una granata che avevano danneggiato i nervi del mio braccio. Non avrebbe mai più recuperato la piena mobilità, quindi l'Intelligence me lo aveva fatto sostituire mentre non avevo ancora ripreso conoscenza, approfittando dell'occasione per dotarmi di una lunga serie di impianti cibernetici sperimentali.

Il SAS aveva piena autorità su queste decisioni, a prescindere dall'assenso degli agenti. Potevo quindi anche immaginare la reazione di Elise, una volta che si fosse svegliata.

Mi resi conto che ancora non sapevo in quale ospedale mi trovassi. «Dove siamo, dottore?»

«Siamo nell'Istituto Clinico Galeno, a Roma.»

Imprecai sottovoce: l'Istituto è ben noto agli agenti del SAS, perché dietro la facciata di un normalissimo ospedale nasconde un sito sotterraneo, sede di innumerevoli esperimenti scientifici e tecnologici moralmente discutibili finanziati dal Comando Centrale.

Fra le altre cose, qui vengono sviluppati gli impianti cibernetici usati dal SAS e dai soldati dell'Alleanza.

Nonostante facessi parte dell'Intelligence da molti anni, non ero a conoscenza dei dettagli riguardo alle ricerche dell'Istituto: forse solo il direttore Miller conosceva tutta la verità.

«Dovrebbe esserne felice, maggiore.» disse il dottore vedendo la mia espressione. «Qui abbiamo la tecnologia medica più avanzata che esista. Senza, sua figlia sarebbe morta di sicuro.»

«Di che tecnologia parla?» esclamai.

«Di quella in grado di rigenerare i tessuti ustionati e salvare sua figlia.» esclamò il dottore, spazientito dalla mia diffidenza. «Soltanto la mano destra era irrecuperabile, ma l'abbiamo sostituita con una protesi cibernetica avanzata, ben superiore a quelle disponibili al pubblico: è perfino calda al tatto.»

Annuii per gentilezza, ma non mi importava di quanto fosse avanzata la mano artificiale di Elise: non avrebbe mai riavuto indietro quella vera. Sapevo che non mi sarei mai dato pace per questo: avrei dovuto tirarla fuori più in fretta, o meglio avrei dovuto evitare l'incidente. Ma avevo fallito.

«E invece Morgane? Lei come sta?» chiesi.

Vedendo l'espressione del dottore, non ebbi bisogno di risposte.




27 febbraio 2514, ore 10:28

Istituto Clinico Galeno


«Come ti senti oggi?» dissi, guardando Elise con preoccupazione.

«Tu cosa dici?» rispose lei fissando la sua nuova mano: la aprì e richiuse un paio di volte, ascoltando il flebile ronzio dei servomotori in azione. «Non mi ci abituerò mai.» esclamò con un sospiro.

«Guardi il lato positivo, signorina Faraday, avrà una presa davvero molto salda.» intervenne scherzosamente il dottor Galvani, che le stava controllando i parametri vitali con uno scanner.

Il suo macabro senso dell'umorismo mi dava sui nervi: gli rivolsi uno sguardo tagliente, ma lui nemmeno se ne accorse, assorbito com'era dalla lettura dei dati.

«Ottime notizie!» esclamò .«Non c'è alcun rigetto, e di questo passo si riprenderà in fretta. Anche i suoi impianti oculari sono già pienamente interfacciati: ci vedrà anche meglio di prima.»

«Non capisco perché è stato necessario impiantarli.» esclamai, seccato.

«Avevo un leggero danno all'occhio destro.» spiegò Elise. «Ho chiesto io che li cambiassero, altrimenti avrei dovuto portare gli occhiali.»

Incrociai le braccia. «D'accordo, ma dovevi proprio sceglierli rosa?» le chiesi, ma non avrei dovuto sorprendermi: Elise aveva sempre avuto una spiccata preferenza per i colori sgargianti.

Io, al contrario, preferivo che i miei occhi sembrassero naturali, e avevo mantenuto il loro colore naturale, un penetrante azzurro chiaro. Ma questa scelta era anche dettata dalla necessità di nascondere uno dei miei tanti assi nella manica.

Oltre al braccio sinistro e agli occhi avevo vari impianti cibernetici, nonché una struttura ossea e muscolare rinforzata. Niente di eccessivo, per gli standard dell'ospedale: alcuni degli agenti che escono da qui arrivavano a sembrare più androidi che uomini.


«Quanto dovrò rimanere ancora in osservazione?» chiese Elise.

«Almeno una settimana.» rispose il dottore. «Dobbiamo essere sicuri che si sia ripresa completamente prima di dimetterla.»

Il dottor Galvani alzò gli occhi dallo scanner. «Se non c'è altro, devo visitare altri pazienti.» disse, e alla risposta negativa di Elise uscì dalla stanza, già immerso nella lettura di un'altra cartella clinica.

Elise si girò verso di me.

«Come... com'è stato?» chiese, con esitazione. Il giorno prima c'erano stati i funerali di Morgane.

«Più o meno come mi aspettavo. Sua madre ha urlato davanti a tutti che è colpa mia se lei è morta: l'hanno dovuta portare via di peso.»

«Povera nonna. Mamma era l'unica figlia che aveva.»

«Infatti non le ho detto niente, anche se avrei voluto.» esclamai. A quella vecchia strega non ero mai piaciuto.

«E il nonno?»

«Non me l'ha detto in faccia, ma la pensa alla stessa maniera, è evidente.»

«Beh, si sbagliano.» esclamò Elise. «Tu hai fatto tutto quello che potevi. Senza di te, nemmeno io sarei qui, adesso.»

«Non sareste state in pericolo, senza di me.» risposi a mezza voce.

Elise mi guardò, confusa.

«Hanno trovato l'uomo che ha manomesso l'auto: un georgiano, Kombayn Botkoveli. Suo fratello è morto in carcere, in Australia. Sono stato io a mandarcelo, l'anno scorso.»

«E ti incolpi per questo?» replicò Elise. «Papà, la colpa è di quell'uomo, non tua.»


Elise aveva ragione, ovviamente, ma questo non mi aiutava a sentirmi meno in colpa. Mia moglie era morta, e seppur indirettamente io avevo causato l'incidente che me l'aveva portata via. Come avrei potuto non sentirmi in colpa?

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