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«Emi! Emi svegliati!»
      
Emi aprì gli occhi e si sollevò dai cuscini controvoglia. In quel momento la sveglia suonò, una ridicola scatoletta a forma di gatto che non la smetteva di miagolare finché qualcuno non premeva uno di quegli spaventosi occhi bianchi. Emi la rovesciò a terra con una manata e quella smise di fare rumore. Un modo alternativo di farla smettere, ed eri sicuro che funzionava sempre.
      
Si stiracchiò come un gattino e mezza assonnata strisciò fino al bagno.
      
«Emi, sei sveglia? Amelia!» Di nuovo la voce squillante di sua madre che la chiamava.
      
«Sì, mamma, sono sveglia!»
      
«Guarda che devi essere in chiesa tra mezz'ora.» "Mezz'ora?" Emi si spogliò in fretta. "È vero, oggi è domenica, maledizione!"

Si diede una veloce rinfrescata, asciugò i capelli aggrovigliati come meglio poté. Mentre con una mano cercava di spazzolarli, con l'altra lottava per infilare i pantaloni. Quando fu pronta scese le scale di corsa e per poco non inciampò su una pantofola nell'ultimo gradino della scala, lasciata lì probabilmente da suo fratello per farle un dispetto. Si aggrappò al corrimano e sospirò di sollievo.
      
In cucina sua madre stava trafficando con una marea di pentole e padelle. Il profumo forte del caffé e quello dolce di biscotti appena sfornati le riempirono le narici. Sentì lo stomaco brontolare.
      
«Dai siediti e fa colazione» la invitò sua madre. Emi sollevò il polso sinistro e diede uno sguardo al suo orologio rosa. «No, mamma, è troppo tardi. Papà dov'è? Non viene?»
      
Si guardò intorno, ma di suo padre neanche l'ombra. «No, tuo padre è al bar con quegli altri fannulloni dei suoi amici. Invece che darmi una mano con la casa se ne sta lì a bere e giocare a carte.»

Sua madre sbuffò. Era una cinquantenne come molte altre. Dopo l'ultima gravidanza aveva preso alcuni chili di cui non era riuscita a disfarsi; i suoi capelli erano un perenne groviglio di ricci increspati raccolti in una specie di cipolla sulla nuca. Certo aveva anche i suoi punti forti, come il seno abbondante, una buona altezza e i grandi occhi azzurri così simili al colore del mare; Emi avrebbe tanto voluto avere i suoi occhi.
      
Sua madre intanto stava cercando di cacciare in forno una teglia troppo grande. La spingeva da destra, da sinistra, girandola da tutti i lati. Una scena comica a vedersi, infatti le strappò un risolino.
      
«Muoviti allora se non vuoi fare tardi» sbottò rivolgendole uno sguardo fulminante. Lasciò stare la teglia e prese un mestolo con i guantoni da cucina. Glielò sventolò davanti alla faccia. «E vedi di non attardarti a chiacchierare con le tue amiche. Lo sai che tuo padre s'incavola se arrivi tardi per il pranzo domenicale.»
      
«Va bene, mamma, tornerò presto.» Il pranzo domenicale significava tutta la famiglia riunita a tavola, ma proprio tutta. Un vero incubo. Emi guardò la pancetta che sfrigolava sulla pentola. Adorava il salato di mattina.
      
"La giornata comincia proprio bene".

Odiava saltare la colazione. S'infilò in bocca un biscotto e uscì in fretta e furia dalla cucina. «A dopo allora» urlò alla madre, mentre prendeva al volo la sua borsetta. Sperò che dentro ci fosse almeno un fazzoletto. Tastò la tasca dei jeans per assicurarsi di avere il cellulare, poi imboccò il portone e uscì di casa.
      
Fuori c'era un bel sole e non faceva tanto freddo. Più che autunno avrebbe giurato che fosse arrivata la primavera. Le nuvolette bianche sembravano rincorrerla mentre pedalava con furia sulla sua sgangherata bici rossa.
      
Sperava di arrivare in tempo per la messa, perché la faceva infuriare l'idea di aver saltato la colazione per niente. Un'altra cosa che non sopportava proprio era andare in chiesa; era sempre stata una vera tortura, ma se non ci andava i suoi rompevano per tutta la giornata e allora sì che era un vero strazio.
      
Per sua fortuna arrivò in tempo. La gente stava ancora entrando in chiesa, si spintonavano persino, neanche ci fosse da vedere chissà che di bello. Lasciò la bici appena fuori dal piazzale, dov'erano parcheggiate una miriade di automobili. Lottò con quella stupida catena attorno al palo della luce per mettere in sicurezza la sua bici.
      
Proprio mentre faceva la figura dell'idiota, fu allora che lo vide. Un ragazzo; era appena fuori dal piazzale, in piedi, immobile, statuario, le braccia incrociate sul petto. Indossava un paio di jeans scuri e una felpa blu ed era bellissimo.
      
Emi osservò a bocca aperta i suoi capelli neri come il carbone, che avevano strani riflessi bluastri probabilmente dovuti ai raggi del sole, la sua pelle chiarissima, gli occhi grandi dello stesso colore cristallino della riva del mare; occhi che la fissavano. Sì, guardavano proprio lei.
      
Distolse lo sguardo, sentendosi arrossire fino alla punta delle orecchie. Camminò in fretta fino all'entrata della chiesa. C'era un mucchio di gente che entrava, ma quel ragazzo no. Stava lì, fuori dal piazzale, non si avvicinava nemmeno di un passo. Aveva cacciato le mani nelle tasche dei jeans, ma continuava a fissarla. C'era qualcosa nel suo sguardo che le incuteva timore; un brivido le percorse la schiena, ma non poté fare a meno di continuare a guardarlo.
      
Qualcuno la spinse. Si costrinse a varcare la soglia in fretta. Lì dentro c'era più baccano che a un concerto. Avanzò tra i banchi, alla ricerca di un posto libero. «Ehi Emi!» La sua migliore amica si sbracciava per farsi notare tra la calca di gente. Sorrise tra sé. Era proprio ridicola.
      
«Ciao Lela» Si sedette accanto a lei.
      
«Per fortuna sei venuta, non so come avrei fatto a sopportarla.» Lela fece cenno con la testa in direzione della panca accanto. Emi si lasciò sfuggire un sorriso. «Vanessa?»
      
«Sì, proprio lei» annuì l'altra con convinzione. «Nessuno potrà farmi cambiare idea. Nessuno. Quella troia mi ha fregato il ragazzo.»
      
«Lela siamo in chiesa!»
      
«Che m'importa! Dio può anche tapparsi le orecchie se non gli va bene.»
      
Emi scosse la testa. Non dissero altro, perché le campane suonarono e il prete fece il suo ingresso. «Comincia.»
      
«Sì, bella fregatura» sbuffò l'amica.

Emi le sorrise, cercando di apparire incoraggiante, poi mise giù la borsa, accavallò le gambe e si preparò alla solita noia mortale.

Per tutta la durata della messa non riuscì a far altro che pensare al ragazzo che aveva visto prima. Non riuscì a togliersi l'immagine del suo volto dalla mente. Era come se lui fosse lì, davanti a lei, con quegli occhi glaciali che la fissavano. Sentiva ancora la sua presenza attorno a sé. Non sapeva se fosse maggiore la paura o più forte il fascino che aveva provato per lui.
      
L'amica cercò più volte di attirare la sua attenzione, ma la sua mente era da tutt'altra parte. Delle parole insistenti del prete, non ne ascoltò neanche una.
      
Quando uscì dalla chiesa il suo sguardo corse per tutto il piazzale, tra le macchine allineate nel parcheggio, ma di quel ragazzo non c'era traccia. D'altronde, che se ne stava a fare lì impalato in mezzo al piazzale?

A casa la stavano tutti aspettando, ma suo padre non sembrava infastidito. Forse aveva bevuto abbastanza da non accorgersi nemmeno che era arrivata solo ora.
      
"Meglio così", pensò sedendosi a tavola accanto a sua cugina Elisa. Nella grande tavola del soggiorno ci stavano fino a trenta persone e di domenica non un posto restava vuoto.

Oltre a loro quattro c'erano i suoi nonni materni e paterni, le due sorelle di suo padre, la sorella e i due fratelli di sua madre, i relativi coniugi e tutti i tredici cugini. Elisa tra le cugine era la sua preferita.
      
Gloria e Giulia parlottavano tra loro, Catia era timida e guardava il piatto, la frangetta bionda che le nascondeva gli occhi. Due posti erano riservati alla bambola di Elena, la cugina più piccola e a Whisky, il barboncino dello zio Tommaso.
      
Come ogni domenica si rimpinzarono fino alla nausea con lasagne e spaghetti, cibi preferiti di suo padre e poi purè di patate, quattro tipi di carne e un mucchio di verdure di tutti i tipi, crude, bollite e al forno. Alla fine del pranzo Emi sentì di non farcela più.
      
Quel pomeriggio, sola nella sua stanza, ripensò di nuovo al ragazzo fuori dalla chiesa. Pensò ai suoi capelli del colore del carbone, a quei vividi occhi azzurri simili a ghiaccio cristallino. Si chiese chi fosse e perché la stesse fissando. Perché proprio lei?
     
Un brivido le attraversò tutto il corpo.
"E se fosse un maniaco?" Ma era così bello... come poteva una persona cattiva essere così bella?
      
Sentiva freddo. Andò a chiudere la finestra della camera e tirò anche la tenda. Si infilò sotto le coperte, addormentandosi quasi subito con l'immagine di quegli occhi azzurri stampata nella mente come inchiostro sulla carta. E sognò di rivederlo, esattamente come quella mattina fuori dalla chiesa.

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