Capitolo 25

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Tobias




Di colpo il buio cessa e ho di nuovo il controllo sul mio corpo, una voce mi sussurra di svegliarmi e una mano calda è posata sulla mia. «Tobias, ti prego, svegliati.»

Mi lascio trasportare da queste parole e finalmente apro gli occhi. Faccio fatica a tenerli socchiusi, la luce mi provoca bruciore. La stanza risulta sfocata e per qualche secondo, potrei giurarci, ha iniziato a girare. 

Pian piano riesco a mettere a fuoco quella che inizialmente sembra una sagoma scura, ma con mia grande sorpresa si rivela essere in realtà una bella ragazza. Menomale che ho recuperato la vista, sennò non sarei riuscito a godermi il panorama. 

Ma per mia sfortuna non la conosco, deve sicuramente essere una che mi sono fatto da Lucas e probabilmente ero troppo sbronzo per memorizzare il suo bel visino.

Con la bocca impastata e molta fatica mi decido di farle la fatidica domanda: «Ciao piccola… Scusa, ma chi sei tu? Dove mi trovo?»

La ragazza indietreggia esclamando: «No, Tobias, ti prego non prendermi in giro! Non è il momento di scherzare. Per favore, dimmi che è uno scherzo.» 

Non riesco a capire che cosa le prende, non penso che una scopata sia tanto indimenticabile da farla reagire così. Sarà un’altra esaltata che pensa che io sia il suo amore eterno, e tutte quelle stronzate lì. 

«Fidati che una ragazza come te non la dimenticherei», magari si leva dai piedi se le do corda, «ma possiamo rimediare, dimmi il tuo nome, o almeno dove ci troviamo.» 

Il suo viso viene inondato di lacrime e le sue ginocchia cedono facendo cadere il suo esile corpo a terra. Per fortuna qualche istante prima era entrato Chris, che con delicatezza la sorregge portandola via dalla mia camera.

Non ho idea di chi sia quella ragazza, ma come ho sempre detto: l’amore è una stronzata che sta nelle favole. Si sta insieme solo per l’istinto primordiale di ricevere piacere e procreare portando avanti le generazioni, nulla di più. E io non intendo fare nulla di tutto ciò. Spero che la svitata si riprenda, sicuramente sarà scappata dal reparto di psichiatria, bah che gente strana.

Dopo circa cinque minuti dallo spettacolino della matta, entrano Chris e mia madre. Lei ha il volto ricoperto di lacrime «Tobias, tesoro mio!», neanche il tempo di finire la frase che si catapulta sul mio povero corpo provato, aggrappandosi con le braccia al mio collo. «Mi sei mancato così tanto piccolo mio.» 

«Mamma ora sto bene, ma se mi stringi ancora un po’ rischio di crepare di nuovo.»

«Hai ragione tesoro», esclama staccandosi leggermente e tirando via l’ennesima lacrima caduta. «Ti lascio qui con Chris io vado a parlare con i dottori.» Prima di alzarsi si china verso di me stampandomi un bacio sulla fronte «Non abbandonarmi più, bambino mio.» 

Esce dalla stanza lasciando me e Chris da soli, «Allora, amico mio. Vedo che neanche la morte ti vuole» esclama Chris scoppiando in una fragorosa risata. Nonostante questo sembra provato: ha gli occhi lucidi ed è molto strano vederlo così, sembra ci sia qualcosa che lo turba. 

«Si si tanto lo sappiamo chi attira di più da queste parti.» 

Mi unisco alla sua risata contagiosa. «Parlando di cose serie: gli affari come procedono?» 

Chris ci mette qualche secondo a rispondere, come se stesse pensando ad altro: «Ah si! Va tutto alla grande. Ho chiuso un grosso affare con Lucas.» 

«Bene, quando uscirò da questo postaccio voglio essere aggiornato su tutto. Ogni minimo spostamento e qualsiasi cosa deve passare sotto la mia supervisione.»

«Signorsì capitano», sghignazza sotto i baffi come un deficiente. «Tornando a prima, quella ragazza che era qui la conosci?» 

«Non ho idea di chi fosse, sicuramente sarà una che mi sono fatto da qualche parte ed è diventata un’ossessionata.»

Chris sembra rimuginare sulle mie parole, rimanendo quasi stupito da ciò che ho appena detto. Dopo qualche minuto di silenzio si avvicina al mio letto tirandomi una pacca sulla spalla. 

«Che cazzo fai? Sono ancora indolenzito.»

«Volevo accertarmi che fossi veramente vivo.»

«Sei sempre il solito deficiente, Chris.» 

«Bene, amico, io vado. I soldi non si guadagnano rimanendo a poltroneggiare su un lettino», si dirige verso la porta ma prima di andarsene si volta guardandomi negli occhi. «Mi sei mancato amico.» 

Uscendo definitivamente dalla stanza, mi lascia con quelle parole che riecheggiano nella mia mente. Chris non è mai stato uno da grandi gesti, per lui una pacca sulla spalla significa già davvero tantissimo, non oso immaginare quanto ha sofferto per la mia mancanza.

Oltretutto gestire il nostro giro d'affari è già complicato in due, figuriamoci da solo quanta fatica avrà dovuto fare. Fin dall'inizio abbiamo sempre lavorato insieme, spalleggiandoci e affrontando le difficoltà come dei veri fratelli di sangue. 

Mia mamma entra nella camera seguita da un medico con uno spocchioso camice bianco, interrompendo i miei pensieri.

«Tobias questo signore è il Dottor Hamilton, è stato lui a salvarti la vita.» si sposta facendolo avvicinare. 

«Buongiorno, Tobias. Allora come ti senti?» dice controllando il monitor al mio fianco. 

«Come se mi avesse travolto un camion.» rispondo sospirando. Sento dolori ovunque e la testa pulsa fastidiosamente, come dopo una sbronza. 

«È più che normale dopo un mese di coma, soprattutto dopo un intervento come quello che hai subito tu. È già un miracolo che riesci a parlare.»

«Un mese di coma?», chiedo esterrefatto.

Mi sembra impossibile che sia passato tutto questo tempo. Per me è come se fosse trascorsa una semplice notte, nulla di più. 

«Si, Tobias. Quando sei arrivato qua da noi, esattamente un mese fa, avevi un trauma cranico che ti ha portato ad una piccola emorragia del lobo frontale dovuto all’incidente in auto.» 

Ascolto le sue parole in assoluto silenzio, come se stesse narrando una storia che non è la mia… Non mi sembra possibile.  

«Qualche ora dopo, sei entrato in coma. Sembrava che l’emorragia si stesse riassorbendo, essendo di piccole dimensioni nutrivamo grosse speranze. Ma sfortunatamente, una settimana fa, l’emorragia si è espansa così ho dovuto operarti d’urgenza. L’intervento non è stato semplice, ma per fortuna è andato bene», un lieve sorriso si forma sul viso del dottore, fino a quel momento teso. «Per questo è normale che tu abbia dolori o indolenzimento degli arti.» 

Il dottor Hamilton mi scruta, forse per capire come abbia preso questa notizia. Anche se nel suo sguardo vedo una scintilla strana, quest'uomo sembra molto pragmatico. 

Non ci posso credere ho passato un mese intero della mia vita steso qui in questo lettino e tutto si è fermato, l’ultimo ricordo che ho è quel maledettissimo incidente e poi nulla, il buio più totale. 

«Dottore, quando potrò uscire da qui?»

«Non lo sappiamo ancora. Tutto sta nel come reagirà il tuo corpo: potresti riscontrare perdita di sensibilità o addirittura paralisi. Quindi prima di farti uscire dovremmo eseguire alcune analisi approfondite per controllare le funzionalità ricettive del cervello. E per garantire che non ci siano lesioni alle altre parti del cervello; per esempio, il lobo temporale, che potrebbero causare danni sulla memoria a breve e lungo termine. Dopo che si sarà chiarito il quadro clinico e se non ci saranno altre complicazioni potrai tornare a casa.» 

Comincio a sentirmi meglio sapendo che a breve potrei andarmene, ma il dottore prosegue a parlare: «Ovviamente però dovrai fare della fisioterapia, considerando che il tuo corpo è stato immobilizzato per così tanto tempo, alcune capacità fisiche come il semplice camminare potranno risultare complicate inizialmente. La muscolatura è atrofizzata, quindi per riacquistare il cento per cento delle capacità motorie, ci vorrà qualche mese di fisioterapia.» 

Il dottore si congeda dicendo che a breve sarebbero passati a prendermi per fare gli esami. Mia madre, incapace di parlare, rimane seduta nella poltrona accanto a me fissando il vuoto.  Sento la sua piccola mano stringere con forza la mia, come per cercare di dirmi con quel piccolo gesto che andrà tutto bene.  

Le parole del dottore sono peggio di un pugno in pieno viso, evidentemente il destino ce l’ha con me. Potrei perdere l’uso delle gambe, ma pensando a tutto quello che ho ora, alla fine sono solo soldi e potere. Sono completamente solo, ho passato tutta la mia vita senza capire cosa significasse amare. Senza attaccarmi sentimentalmente a qualcuno.

Forse a causa dell'esempio che mi hanno dato i miei genitori: quello che mia mamma chiamava amore l’ha portata all'autodistruzione, al dolore più oscuro. E io non volevo nulla di tutto ciò. Sono cresciuto con l’idea che amare è sbagliato, che amare significa soffrire, che nulla è per sempre, che non esiste nulla di reale nel provare affetto verso un’altra persona. Ma che solo il piacere fisico può darti benessere, e così ora mi ritrovo qui con i miei rimpianti. Capendo che forse avrei potuto fare di più, che forse l’amore poteva esistere, una famiglia che ti sostiene e supporta, che ti aiuta. Ora invece rimango solo io con le mie paure, come sempre.

Abbasso lo sguardo sulle candide lenzuola e noto che sul fondo, proprio dove si trovano i miei piedi, ci sono delle strane chiazze scure. Mi sforzo per arrivare a toccarle. Le dita si sporcano di grigio scuro, porto le dita vicino al volto per capire cosa sia: sembra qualcosa di familiare, qualcosa che ho già visto… Ma questa è cenere! L'odore è inconfondibile. 

Ma che cazzo è successo qui? Con molta fatica mi sporgo per vedere fin dove arriva questa strana scia: noto delle impronte quasi impercettibili che vanno verso l'uscita della camera… 

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