April

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Il Lunedì dell'Angelo, Pasquetta, non fu un giorno molto gradevole a livello di condizioni meteo. Spirava di nuovo vento ed il cielo in mattinata aveva alternato scrosci a schiarite. Avevo guardato la finestra desiderosa di un po' di tregua e nel pomeriggio, pur rimanendo vento, le nuvole si fecero più chiare, e gli squarci di sereno più ampi.

Caterina mi trascinò a farsi un giro perchè a casa i genitori continuavano ad avere gente e lei aveva sopportato abbastanza.

«Maty, giuro, è uno strazio, abbiamo gente in casa da venerdì sera: parenti, amici, gente che conosce mio padre per il lavoro. Una cosa insopportabile! Sarei uscita anche con la neve oggi pomeriggio, ho raggiunto il limite!» mi disse, mentre con pedalata più spedita del solito, si allontanava da casa mia per dirigersi verso il lungomare.

Parlò lungamente di tutti i suoi parenti, dipingendoli come una squadra di mostri con orrende abitudini, segreti degni del peggior sprezzo. La parte peggiore venne riservata ai conoscenti paterni, gretti e supponenti, che le avevano lanciato occhiate un po' troppo interessate, a sua detta.

«Che ti va di fare?» le chiesi, mentre cercavo di raggiungerla. Parlare mentre pedalavo mi provocava immediatamente un gran fiatone.

«Andiamo sulla scogliera del porto!» mi rispose, tutta allegra, una volta che la raggiunsi.

«Ma non è che ci infradiciamo?».

«Ma che infradiciarsi, dai!» mi incalzò, aumentando la pedalata fino a raggiungere il porto. Legammo le bici e ci avviammo per i pontili bagnati dalla pioggia mattutina, con il rombo del mare già nelle orecchie. Le onde colpivano un po' lateralmente il bacino, ed ogni tanto vedevamo alzarsi qualche schizzo di schiuma oltre i grandi sassi. Giungemmo in fondo, dove i moli si allungavano nell'acqua per qualche decina di metri. Il vento si infilava tra gli alberi delle barche, producendo un continuo tintinnio.

«Maty guarda che onde!» disse Caterina, tutta gasata. Guardai il mare infrangersi con forza sugli scogli.

«Fammi due foto dai!» continuò, arrapicandosi lestamente dopo avermi ceduto il cellulare. Non feci in tempo ad inquadrarla che le arrivarono alcuni schizzi che le fecero fare un paio di gridolini inframmezzati da parolacce che di solito sentivo dire a certi miei compagni mentre giocavano a calcio.

«Cate! Ma come parli?!» risi scandalizzata. Lei scese di corsa chiedendomi se si era bagnata molto sulla schiena. Nel guardarla notai delle figure in riva al mare oltre l'imbocco del porto. Erano tre, erano in calzoncini da mare come se fossimo a luglio, e le felpe grosse con il cappuccio. Guardavano l'acqua in uno strano modo, come se stessero fremendo. Sì saltavano addosso, si spintonavano e sembrava mimassero una strana lotta.

Tra di loro riconobbi Federico, i capelli schiariti dal sole che saltellavano a ritmo dei suoi movimenti eccitati. Mi sembrava molto diverso dal ragazzo sciatto e distaccato che vedevo a scuola. Guardava il mare muoversi e sembrava attraversato da fremiti come se ogni sferzata di vento fosse per lui una scarica di adrenalina.

Lo vidi saltare addosso ai suoi due amici, ragazzi forse poco più grandi di lui, in una maniera energica, "forte". Le sue mani e le sue braccia che tiravano e avvolgevano con fare coinvolgente gli altri corpi. Le immaginai addosso, in maniera prepotente. Ritornai in me quando Caterina mi chiese cos'era quella faccia da pesce lesso e guardando nella direzione in cui stavo guardando riconobbe le tre figure.

«Cara la mia Matilde ci mettiamo a guardare anche noi i ragazzi, vero?» mi chiese con un sorriso furbo, dandomi di gomito.

«Cate, smettila! Volevo solo vedere se per caso ne conoscevo qualcuno, non c'erano secondi fini» replicai, leggermente insicura.

«Peccato, speravo ci fossero secondi fini» disse con finta delusione, «potremmo andare a vedere chi sono».

«Non scherzare su queste cose. Ora che montiamo in bici e andiamo dall'altra parte loro saranno già chissà dove».

«Matilde, tu sei troppo negativa».

In quel momento ebbi una strana sensazione, come se dentro di me lottassero una Matilde che voleva attraversare anche a nuoto il canale, pur di raggiungere i tre ragazzi e fare non so bene cosa, e la Matilde che voleva semplicemente passasse quel momento, o addirittura quella giornata. Fatto sta che i tre ragazzi, un po' bighellonando, un po' saltandosi addosso, si avviarono lungo la linea della risacca verso nord. Noi tornammo a concentrarci sugli spruzzi ma il momento era passato e così riprendemmo poco dopo le bici per dirigersi al parchetto dei marinai.

L'erba era bagnata, le pozzanghere punteggiavano la ghiaia, i giochi erano umidi. Ci dondolammo un po' sull'altalena e Cate tornò sull'argomento.

«Dai non ci credo che volessi solo capire se uno dei tre lo conoscevi. Chi stavi puntando? Dai confessa».

Probabilmente arrossii e così lei mi incalzò fino a farmi dire il nome di Federico. Una volta riuscita a strapparmi il nome, si mise a battere le mani per l'eccitazione, poi riprese un certo contegno e si mise a dire che Federico non le sembrava nemmeno completamente a posto con quella faccia sempre da chi è da un'altra parte con il cervello, quell'andatura strascicata e quel cappuccio perennemente sopra la testa.

Vidi l'opportunità di chiudere il discorso:

«Sì forse hai ragione, non è proprio il ragazzo più coinvolgente della scuola»

E detto questo, mi sorbii un elenco di preferenze di Caterina. I minuti colarono via e si fece l'ora di tornare a casa, pedalai lentamente, come se il freddo mi avesse stancata, feci volentieri la doccia sia per togliermi di dosso il freddo patito durante il pomeriggio che per liberarmi di tutti i pensieri che si erano accavallati.

In realtà la doccia non mi fece passare i pensieri e il corpo elettrizzato di Federico continuò a tormentarmi fino a dopo la cena, fin nel letto.

«Sei agitata, vuoi imitare il mare?» mi chiese Rex, dopo averlo strusciato circa cinque minuti sul pigiama.

«Oggi va così, ho visto un...».

«Hai visto un ragazzo. Me lo posso immaginare. Certi pensieri non si fanno se non c'è almeno qualcuno, anche solo vagamente, che ti piace. Dico bene?».

«Si».

«E ti stai immaginando tutte quelle cose che vi immaginate voi ragazze. Le carezze, i baci, il contatto della pelle, i respiri».

«Si... si».

«Che altro immagini?».

Mi vergognai alla sua domanda, così lui sbuffò e zampettò verso l'inguine.

Si appoggiò con le zampe posteriori al centro e iniziò a premerle ritmicamente ed a parlarmi.

«Dovresti piantarla di farti dei problemi a dire ciò che pensi. Il tuo corpo ti parla, perchè non puoi parlare del tuo corpo?» disse, con un filo di voce, quasi un uggiolìo, «basta conoscerlo un po' meglio, sapere cosa succede. E affidarti a uno che sa quello che fa».

Non avevo mai avuto un vero orgasmo. Alla fine di tutto il lavoro che fece Rex, rimasi totalmente attonita, dopo quella sensazione così bruciante, una sensazione "sospesa", come come quando sali fino in cima alle montagne russe e ti si mozza il fiato, per poi precipitare in un piacere fisico squisito, che mi provocò un misto di risa e pianto, seguito subito dopo dalle contrazioni incontrollate, là sotto.

Rex mi guardò scodinzolando dopo aver "combinato" quel disastro. Gli chiesi se quello era un orgasmo, lui disse «Direi di sì» e poi sbadigliò vigorosamente.

«Matilde, mi hai fatto fare gli straordinari, devo assolutamente dormire» e venne a cacciarsi sotto la mia ascella. In fretta si mise a russare, lasciandomi nei pensieri.

Il giorno dopo io e Cate andammo a casa di Chiara, completamente disabitata dato che i suoi genitori erano entrambi al lavoro. Sapevo che era un rischio andarci, perchè Cate non era proprio la più discreta delle amiche che avevo, e poi era una artista del fomento. Così si finì a parlare del giorno prima.

«Dai, dillo anche a Chiara chi punti, su! Anche se, vabbè, è un 'po...» mi sgomitò Caterina, imitando poi il fare semiaddormentato di Fede, con la lingua a penzoloni. L'altra rise all'imitazione ed ovviamente si fece interessata. Ma subito ci ripensò.

«Maty, tranquilla, se non vuoi essere stressata, diccelo pure. Io e anche Cate non ti romperemo le palle. Giuro» mi disse, seriamente.

Dopo i giorni di freddezza a seguito della proposta di "darmi una mano" le cose erano tornate piano piano serene. Mi aveva dato qualche consiglio per gli outfit, quando avevo capito che forse mi serviva qualche lezione in merito. Quel suo difendere la mia privacy era l'ennesima dismostrazione che era una vera amica.

Tuttavia, mi chiesi a cosa servisse nasconderglielo, ed in generale a cosa servisse fare finta di non avere sogni, non avere desideri, di essere un pezzo di legno senza sentimenti, magari non ricambiati, ma quello non era il punto.

«No Chià tranquilla, mi piace Fede. Fede Toschi».

«Beh, beh, Maty, mica hai scelto male» replicò lei.

«Chià, fisico ok, ma mamma mia sembra sulla luna» replicò Cate, e intonò il pezzo di Caparezza «Io vengo dalla luna! Io vengo dalla luna!».

Chiara si fece seria.

«Cate, però, mica ci devi fare una ricerca di Scienze. Fede va molto bene. Molto! Mhm... ma gli hai visto quelle robe bellissime che ha qui?» indicandosi l'addome, «te Cate fai troppo scarto. E infatti vai ancora a dita».

«Mi risulta che anche tu vada a dita, bella mia».

Dopo quattro o cinque battute sempre più grevi sulla masturbazione, si accorsero della mia presenza e si fecero silenziose.

«Scusa Maty» mormorò Chiara.

«Tranquilla Chià. Mi sono... un po' sbloccata».

«Wow!» dissero quasi in coro. Sembravano felici per me, ma smisero comunque di parlarne. Ero io che avrei voluto dire e chiedere, ma lasciai stare, avevo già mostrato sufficienti lati nuovi di me.

Giovedì mi attardai giusto un attimo in classe per recuperare tutto il mio materiale e dirigermi verso la palestra per le ore di educazione motoria. In realtà era perché non amavo quella materia e ogni minuto di motoria perso era un minuto guadagnato per la mia vita. Mentre mi dirigevo pigramente verso gli spogliatoi pensando decisamente ai fatti miei, mi ritrovai un tornado lanciato dentro la scuola da un omone grosso, che si lamentava urlando «La tua cazzo di giustificazione ce l'hai in tasca, coglione!».

Il ragazzo era girato verso di lui quando rispose «meglio mille volte la tavola al banco» e il (suppongo) padre tentò di allungargli un calcio negli stinchi tanto da farlo balzare indietro e venirmi completamente addosso, mandando entrambi gambe all'aria

«Scusami» mi chiese volgendomi uno sguardo preoccupato, immaginando di aver fatto un danno, se non di avermi fatto proprio male. Mi ritrovai di fronte Federico e quell'urto e quella sensazione di corpo addosso prese tutta un'altra piega. Se sue ciocche sembravano ancora umide, le labbra avevano ancora una vaghissima venatura di violaceo. Ricacciai in fondo al cervello l'idea di insultarlo e sussurrai un semplice «Non ti preoccupare, non è successo niente».

Lui, preso un po' alla sprovvista da quella risposta conciliante, tentennò un attimo e si infilò un dito nell'orecchio esclamando a mezza voce «Maledetta sabbia!».

Sorrisi e gli chiesi perché non si lavasse meglio le orecchie alla mattina, stupendomi io stessa della mia domanda quasi ironica. Non ero una da battute simpatiche.

«Non ho avuto tempo di lavare un bel niente. Credo di puzzare ancora di salsedine!».

Rise e io risi con lui, poi a costo di passare per idiota gli chiesi. «Ma questa mattina sei andato a fare surf?».

«Sì» mi rispose Lui, «è l'unico buon motivo per svegliarsi presto alla mattina».

«È bello avere un buon motivo per cui svegliarsi alla mattina» risposi.

La cosa che mi stupì di più fu che non scostai lo sguardo mentre gli parlavo, così, dopo un momento di imbarazzo, lui disse semplicemente «Torno... torno, anzi, vado in classe, che si è fatta ora».

«Ciao Fede».

«Ciao dunque vediamo...» cercò il mio nome nella sua testa, ma non poteva saperlo, così lo anticipai.

«Io sono Matilde».

«Allora ciao Matilde. Bel nome» mi rispose, nei suoi occhi vidi brillare qualcosa. Di sicuro era semplicemente l'eccitazione per essere andato in acqua quella mattina, ma fantasticai che fosse per quel breve dialogo, di cui mi rimase solo un vago odore di mare.

Quella mattina fui quasi inutilizzabile, ma tenni un contegno accettabile. La mia giornata trascorse in una maniera che non saprei nemmeno riassumere da quanto fui sconnessa. Era come se fossi in una specie di coma vigile.

La sera, mi rifugiai prestissimo nel mio letto e non mi riuscì nemmeno di leggere qualche pagina di Breaking Dawn, le parole si accavallavano, lottavano, come lottavano e si accapigliavano Fede ed i suoi amici lungo la spiaggia. Mi tornò alle narici l'odore di mare, ma un odore diverso da quello estivo. In estate l'odore di salsedine si frammischiava alle lozioni solari ed ai profumi. Quell'odore di mare, che avevo sentito addosso a lui era solo mare, era sabbia impregnata di acqua marina.

Desiderai essere tirata e afferrata da lui su quella sabbia, desiderai cadere con lui con la schiena su quella superficie, avvertirlo addosso con gli occhi nei miei, sentire i respiri che ci scaldavano da tutto il freddo che c'era attorno.

«Ehi, Miss Mutandina, hai fatto presto a dimenticarti del tuo migliore amico, o pare a me?».

Rex mi fissava, muovendo lentamente la coda, poi spostò lo sguardo verso le mie mutandine, su cui vidi la mia stessa mano. La ritrassi in fretta, quasi vergognandomi di quello che stavo facendo. Ma lui mi sembrò serafico, mi salì sul petto appoggiando la pancia tra i miei due seni tutt'altro che floridi. Si mise a leccarmi il mento, finchè non mi strappò un sorriso.

«Dai smettila!».

«Non penso proprio, e tra l'altro qui si sta comodi» disse slittando verso il basso quel tanto che bastava ad appoggiare il muso dove prima era il ventre. Sentii la lingua di feltro corrermi sulla pelle.

«Se hai pensieri particolari puoi raccontarmeli. Sono pensieri, mica sono geloso».

La sua lingua si spostò di lato, al centro del mio seno destro, dove ero, ehm, piu sensibile. Nel frattempo ricominciò con le zampe posteriori.

«Non sono geloso, anche perchè certe cose, le so fare meglio io. Ne sono certo».

Tutto quello che fece il mio adorato cane di pezza mi fece confondere i pensieri riservati a Fede. Finii per concentrarmi sul mio corpo e su quello che lui, con le sue zampette ed il suo naso, riuscì a procurarmi. Mi soddisfò profondamente, tanto che dovetti trattenere a fatica gli ansimi, per paura di svegliare qualcuno in casa.

Quando tutto terminò, risalì vicino al mio viso, con il naso bagnato.

«Il tuo corpo non è per nulla male, Matilde. E mi sembra che un paio di cosine riesca a fartele funzionare piuttosto bene, vero?».

Annuii, ancora con un vago fiatone.

«Impara a conoscere il tuo corpo, magari mi darai una mano quando sarò al lavoro su di te, e ti divertirai ancora di più» mi disse, anche se in maniera un po' meccanica. Sembrava che fosse compiaciuto di quello che era successo, ma non pensai certo che fosse un problema.


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