Capitolo 10 - Trovami

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Alex faceva fatica a respirare mentre osservava il viso della donna stesa sul letto.

Lineamenti spigolosi, mento affilato, capelli color del rame. Era la presidentessa Lawson, ogni cittadino degli Stati Uniti l'avrebbe riconosciuta, ma quel dettaglio passava in secondo piano. Perché quella donna era la stessa che gli aveva parlato nel sogno della notte prima, quello stranissimo viaggio astrale che lo aveva portato a Bordeaux a guardare in faccia un piccolo sole che si schiantava contro la città.

Nel sogno l'aveva vista soltanto di spalle e di profilo per un istante, ma quei capelli erano inconfondibili. "Trovami", gli aveva detto nel sogno, e lui l'aveva fatto, senza esserne consapevole. Certo che le cose avevano assunto un valore diverso ora: la donna del sogno esisteva ed era la presidentessa degli Stati Uniti d'America. Quante possibilità c'erano che anche la città francese e la strana esplosione nel cielo fossero reali?

Questo non è un sogno.

Già, alla fine non lo era davvero.

Hiss gli si era attorcigliato attorno al collo e aveva proteso la testa in avanti, ondeggiando eccitato su e giù, gli occhietti che si muovevano a destra e a sinistra, frenetici.

«Ok, noi ce ne andiamo,» annunciò Darren, appoggiando una mano sulla spalla di Theresa. «Jacob, è stato un piacere collaborare con te, arrivederci.»

«Voi non andate da nessuna parte,» ringhiò il federale, voltandosi e puntandogli l'indice addosso. «Siete nella merda proprio come me e non vi permetterò di andare in giro a raccontare quello che avete visto qui dentro!»

«Non hai il diritto di trattenerci,» ribatté il mezzelfo, assottigliando le palpebre.

I due si squadrarono in cagnesco per qualche secondo e il silenzio permeato di tensione venne interrotto dalla quieta voce del primario.

«Se volete la mia opinione,» esordì George Kendrick, passandosi una mano fra i corti capelli grigi. «Dovreste prenderla e portarla via, il più lontano possibile da questo posto.»

«Sei fuori di testa?» sibilò il federale. «Quegli agenti del Bureau che sono stati ammazzati erano qui per controllare lei, ci basterà aspettare l'arrivo dei rinforzi e tutto sarà sistemato.»

«No, non vi è chiara la situazione,» replicò il sacerdote di Galadar, scuotendo il capo. «C'era qualcosa di storto già da prima. Sono stati i federali a portarla qui, e si trovava già in questo stato.»

«Ma che cos'ha?» chiese Theresa a mezza voce, avvicinandosi al bordo del letto per scrutare il volto impassibile della presidentessa.

«Non lo so,» rispose il dottor Kendrick. «È in coma profondo. Non mangia e non beve, ma non deperisce. Non mi hanno mai fatto avvicinare a lungo e ho potuto eseguire solo dei semplici controlli di routine, ma posso affermare con sicurezza che goda di ottima salute.»

«Magia,» mormorò Alex, inclinando la testa e scrutando i filamenti arcani che si estendevano dalle membra abbandonate di Amanda Lawson.

Viticci lunghi, intricati e radicati, difficili da seguire e da estirpare. Chiunque fosse la persona che aveva rinchiuso la presidentessa in quel sonno, senza dubbio era molto potente.

«Sì, sono d'accordo.» George Kendrick annuì, nascondendo le mani nelle profonde tasche del camice che indossava. «Non è naturale quello che le sta succedendo.»

«Continuo a non capire come questo possa interessarci,» sbottò Darren, nervoso. «Se ne occuperanno le autorità competenti.»

«Sono le autorità competenti che le hanno fatto questo,» incalzò il primario.

«Cazzate!» urlò Jacob, facendo un passo verso il sacerdote con aria minacciosa.

«Tu non li hai visti,» replicò il medico, sostenendo lo sguardo allucinato del federale. «I tuoi colleghi sono arrivati e hanno preso in ostaggio tutti quanti, hanno rinchiuso qui questa... povera donna, come se fosse una bambola. Non la guardavano con il rispetto che merita un essere umano. Era un oggetto per loro.»

Jacob rimase zitto e Alex tornò a scrutare i lineamenti della presidentessa addormentata.

Era molto giovane per il rango elitario che ricopriva: non doveva superare i quarant'anni ed era molto affascinante. Una donna bella e allo stesso modo intelligente e talentuosa, che era arrivata a scalare i vertici del governo con la sua personalità e idee innovative.

Possibile che nessuno si fosse accorto della sua scomparsa?

Il primario aveva detto che era stata portata lì tre giorni prima, già in quello stato. Eppure non erano arrivate notizie da Washington riguardo la sparizione della presidentessa, anzi aveva anche fatto un'apparizione pubblica per un comizio un paio di giorni prima.

Non era un semplice rapimento a opera di qualche dissidente fuori di testa, era evidente che dietro quella storia ci fosse qualcosa di grosso.

I meccanismi ben oliati del cervello di Alex iniziarono a vorticare a velocità innaturale mentre cercava un senso logico a quei collegamenti che si erano fatti palesi a tutti quanti, ormai. Persino zio Darren mostrava in viso chiari segni di preoccupazione, e Theresa... Theresa era in preda al panico: non era da lei rimanere in silenzio così a lungo.

«Agente Collins, la prego,» continuò il sacerdote. Si mosse in avanti e prese le mani di Jacob nelle sue, in un gesto di supplica che fece spalancare gli occhi a Theresa per lo stupore. «Non mi importa che sia la presidentessa o che sia una povera senzatetto, ciò che mi preme è che questa persona sta soffrendo. Non so cosa sia successo là fuori la notte scorsa, Allan ne sapeva quanto me, ma ho la certezza che non è nulla di buono. Galadar mi sussurra all'orecchio parole colme di preoccupazione e allarme, e so che il fulcro del suo timore è proprio la signorina Lawson.»

«Io... io sono un agente del FBI,» sussurrò Jacob a denti stretti, ma il suo tono suonava addirittura supplichevole. «Il mio dovere è fare rapporto ai miei superiori.»

«Il tuo dovere è proteggere le persone che vivono nella nostra nazione,» replicò George Kendrick, fissando con intensità il volto combattuto del federale.

«Ma era con agenti del governo, no?» s'intromise Theresa, con voce incrinata. Aveva gli occhi lucidi e sembrava sul punto di abbandonarsi a una crisi di pianto. «Lei... lei era insieme a pubblici ufficiali, la stavano proteggendo. Non sappiamo cosa sta succedendo, non è nostro compito metterci in mezzo all'operato del FBI.»

Cara Theresa, aveva dovuto lasciare il suo accogliente nido di Filadelfia per scontrarsi la prima volta con lo scoglio delle decisioni scomode. A poco valeva quel tentativo di convincersi che tutto andava bene. Alex la conosceva come nessun altro e poteva immaginare che lotta campale stava avvenendo all'interno dell'animo della sorella.

Darren prese un profondo respiro e le appoggiò una mano sulla spalla.

«Io sono il primo che vorrebbe girare i tacchi e andarsene da questo posto,» disse. «Se ascoltassi la mia testa anche ora, avrei già tramortito Jacob e in questo momento saremmo sulla via per Filadelfia. Ma ci sono brevi attimi nella vita di ciascuno di noi in cui siamo chiamati ad agire secondo il cuore. Abbiamo fatto un patto, Theresa: tuo il viaggio, tue le decisioni.»

Alex distolse lo sguardo e scosse il capo in modo impercettibile.

Far prendere una decisione del genere a Thera... non c'era lezione da impartire che tenesse: zio Darren se ne sarebbe pentito. Se ne sarebbero pentiti tutti quanti.

Eppure non poteva negare di aver sentito un brivido di eccitazione percorrergli il collo nel momento in cui aveva riconosciuto la donna del sogno. Poteva essere un caso? No, lei voleva proprio lui... aveva chiesto ad Alex di trovarla e di aiutarla, non a qualcun altro. Thera lo avrebbe fatto per seguire una banale morale, ma lui no: lui voleva sapere, desiderava soltanto che quel rosicchiare all'altezza del cervelletto smettesse, ed era ovvio che il suono della curiosità si sarebbe fatto meno intenso solo nel momento in cui avrebbe potuto parlare con la presidentessa e chiederle, finalmente, che cosa desiderasse da lui.

Da chi doveva essere salvata?

«Dobbiamo aiutarla,» disse Theresa, ricambiando l'occhiata soddisfatta del sacerdote di Galadar.

«Siete fuori di testa,» sibilò Jacob. «State davvero lasciando una decisione del genere a una ragazzina?»

«Ha ragione,» intervenne Alex, fissando suo zio. «Io... l'ho vista. La scorsa notte. Ha bisogno di aiuto.»

Un barlume di curiosità percorse gli occhi scuri del mezzelfo, e Theresa prese una lunga sorsata d'aria dalle narici. Alex era sicuro che entrambi avrebbero capito e sarebbero giunti alla medesima conclusione: vedere in sogno la presidentessa degli Stati Uniti non era una cosa normale, neanche per lui.

«Voi tre siete pazzi,» commentò Jacob, allibito. «Non vi lascerò rapire la presidentessa. Quando torneranno i colleghi del FBI sarà in buone mani.»

«Quegli stessi colleghi che hanno isolato un ospedale e che la tenevano in coma in un letto?» replicò Darren, indurendo lo sguardo. «Svegliati, Jacob: chiunque l'abbia portata qui era più marcio di quello stronzo che Alex ha steso.»

Il federale non rispose. Era impossibile dire con certezza a cosa stesse pensando, ma la lotta che si stava consumando nel suo animo era evidente.

«Il discorso vale anche per te,» continuò il mezzelfo. «Devi decidere se seguire la testa o il cuore. Vedila così: stai indagando su un'operazione poco chiara del Bureau e quando ne saprai di più potrai fare rapporto.»

Alex si allontanò dal letto, camminando piano per non rompere quel silenzio sovrannaturale che si era formato fra di loro. Poteva quasi sentire i neuroni nel cervello di Jacob sfrigolare, sottoposti a una tensione incredibile a causa della sua palese indecisione: gli occhi gli si erano arrossati e aveva iniziato a sudare come il dottor Kendrick.

Hiss emise un sibilo basso e breve, senza staccare gli occhietti dall'immobile agente del Bureau.

In una situazione diversa, anche Alex avrebbe condiviso il suo divertimento, ma quella scena non era altrettanto buffa se vista dagli occhi di chi si trovava al suo interno. Qualunque cosa fosse accaduta, le loro vite sarebbero cambiate di netto in un battito di ciglia. Non c'era via d'uscita: niente più viaggio verso Miami, niente più tranquillo lavoro in biblioteca a Filadelfia, niente più rocambolesca vita da cacciatore di taglie.

«La portiamo via con noi,» annunciò Jacob, alla fine. «Proviamo a capire che cosa le è successo e la riportiamo a Washington. Poi me la vedrò io con i miei capi.»

Alex inspirò, nervoso, e si fermò davanti al corpo addormentato di Edgar Allan, abbandonato sulla sedia. Erano ufficialmente in ballo ed era il momento di partecipare in grande stile.

Forse a Jacob sarebbe bastato riportare Amanda Lawson a Washington ed essere premiato con un encomio speciale per il suo servizio, ma a lui no. Lui era bravo soltanto in una cosa: farsi i fatti degli altri. In quella storia c'era qualcosa di davvero strano e non voleva andarsene da quell'ospedale senza aver scoperto qualcosa di più sulla misteriosa gnoma che aveva commissionato il rapimento ad Allan e alla sua banda di tagliagole.

Il ragazzo appoggiò le dita sulle tempie dell'uomo e, prima di perdersi nel suo subconscio, l'ultima cosa che sentì fu il sibilo eccitato del suo amico rettile.




Passeggiare nei sogni di Edgar Allan era come camminare in un lungo corridoio tappezzato di poster e immagini in movimento: voci e suoni rimbombavano nel vuoto intorno ad Alex e la musica di un sassofono in sottofondo rendeva tutto quanto ancora più grottesco.

Il ragazzo e il serpente si persero per un tempo indefinito a spiare le immagini più strane che la mente dell'uomo stava creando e si ritrovarono entrambi a ridere a crepapelle davanti a scorci degli improbabili sogni che popolavano quello strano reame.

Era diverso per ciascuna persona, e quello era caotico, disordinato, rumoroso e... divertente, incredibilmente divertente. Se si fosse trovato in quel subconscio per piacere personale, ci sarebbe potuto rimanere anche per giorni interi.

«Per gli spiriti, guarda quello!» esclamò Hiss, puntando la testa verso sinistra.

Alex si voltò in tempo per vedere un grosso orso dal pelo d'oro lucente che cavalcava un umano nudo, incitandolo a correre più veloce con voce squillante e stridente.

«Questo tipo non è normale, scaviamo più a fondo!» lo supplicò il serpente, mentre Alex si lasciava andare a un sonoro scoppio di risa. «Inizio io: questo tipo è un bisessuale frustrato che nasconde la sua natura per qualche motivo... forse è colpa del giudizio dei genitori? È sempre colpa del giudizio dei genitori. Dai, tocca a te.»

Alex scosse la testa e si strofinò gli occhi.

«No, Hiss, non questa volta,» disse, distogliendo l'attenzione dai quadri variopinti che vorticavano a velocità allucinante intorno a loro. «Non siamo qui per divertirci.»

«Avanti, Alex,» disse il rettile metafisico. «Se la prendi sul ridere è meglio.»

«Non oggi.» Scosse la testa e s'incamminò attraverso il guazzabuglio di suoni e colori che si mescolavano in un'intricata tela infinita di mille realtà sovrapposte. «Dobbiamo cercare i suoi ricordi.»

«Noioso,» mugugnò Hiss, attorcigliandosi intorno alle spalle dell'amico umano e facendo dondolare la testa su e giù. «Però ammetto che questa storia è meravigliosa: quella è la donna del sogno di ieri.»

Alex annuì e non rispose.

Un grosso corridoio dalla forma cilindrica si era disegnato davanti ai suoi passi, costellato da un'infinità di svolte che conducevano verso milioni di ramificazioni della psiche di Edgar Allan.

Non si era mai trovato in una mente così contorta: era allo stesso modo strano e affascinante. E anche pauroso, sì, perché nessuno poteva dire che cosa si potesse annidare tra i meandri di una mente poco equilibrata.

In quel reame tutto era reale, persino le cose più insensate.

«Io prenderei la terza a sinistra,» commentò Hiss, a bassa voce.

Alex sorrise e gli diede un buffetto sulla testa.

«Non ci casco,» rispose, irrisorio. «Dobbiamo andare più a fondo.»

Negli anni di scampagnate nei sogni delle persone, Alex aveva imparato che c'era una parte del subconscio di ciascuno che si occupava di rielaborare i ricordi reali della vita vissuta. Spesso venivano trasformati in stupidi sogni incomprensibili dove i volti delle persone conosciute si fondevano a formare esseri dalle mille facce, intenti a recitare il copione ridicolo di una storia scritta male. Ma ogni sogno aveva un ricordo di partenza, da qualche parte: poteva essere modificato e trasformato, ma l'originale era lì nel profondo. Andava soltanto trovato.

Corsero nel corridoio della mente di Edgar Allan.

I colori si facevano sempre meno sgargianti, i suoni sempre più ovattati e la melodia del sassofono, invece, sempre più chiara e presente: malinconica e lenta, come proveniente da un grammofono di pessima qualità.

Faceva freddo in quell'ala della mente di Edgar Allan, e Alex si abbracciò il torace nudo in un vano tentativo di scacciare via quella sensazione di gelo malvagio che lo attanagliava.

Era buio, e le immagini vorticanti erano scomparse, sostituite da sfocate forme in bianco e nero appena distinguibili che scorrevano a lentezza esasperante intorno a loro. L'unico elemento nitido rimaneva lui: il brano a sassofono, che rimbombava cupo.

«Ah, Songbird,» disse Hiss, allontanandosi dalle spalle di Alex per fluttuare nel vuoto lì accanto. «Per lo meno ha gusto musicale.»

«Mai sentita,» commentò Alex, assottigliando le palpebre per tentare di distinguere qualcosa delle figure nebulose che lo circondavano.

«Ci credo, saranno passati più di due secoli!» esclamò Hiss.

Il ragazzo si mosse verso sinistra e si tuffò senza esitazione all'interno di uno dei quadri in movimento.

Si trovarono all'interno della piccola sala di un bar: non c'erano colori e l'unico rumore era un fastidioso brusio di sottofondo causato dalla manciata di avventori seduti ai tavoli sparpagliati nell'ambiente. Alex non degnò neanche di un'occhiata la conformazione della stanza, né le persone sedute a bere: i suoi occhi vennero subito catturati da una sagoma famigliare seduta su un alto sgabello.

Edgar Allan era appoggiato al bordo del bancone con i gomiti e beveva da un grosso bicchiere opaco; era inconfondibile nel suo completo amaranto che cozzava come una macchia di sangue fresco nel grigiore generale che contraddistingueva il ricordo.

Appollaiata su uno sgabello accanto al suo, c'era la gnoma. Era proprio come l'aveva descritta lui qualche minuto prima: bassa, con le tette e con i capelli lunghi. Beveva da una tazza, forse un caffè lungo.

Alex si accostò al bancone e prese a fissare intensamente il volto della gnoma: giovane e dai lineamenti morbidi, le guance rotonde e la forma ovale del viso la facevano assomigliare a un confetto. Scrutava di sottecchi l'uomo che beveva a poco meno di un metro da lei, come se stesse ponderando su quale fosse il momento giusto per fare la sua mossa.

«Lei mi sembra quel tipo di persona che sa cogliere al volo l'occasione per guadagnare qualche dollaro,» disse, appoggiando finalmente la tazza sul bancone e voltandosi a guardare Edgar Allan.

Lui abbassò lo sguardo e spalancò gli occhi, come stupito di trovarsi a fissare una donna in miniatura.

Aprì la bocca per rispondere, ma l'immagine si fece oscura e tutto il mondo onirico intorno ad Alex divenne un oceano di nera infinità, privo di suoni, colori e odori.

«Cosa?» fece il ragazzo, allarmato, girando su stesso un paio di volte per cercare di ritrovare le immagini perse.

«I ricordi filtrati attraverso i sogni sono evanescenti: vanno e vengono come il vapore dalla bocca di un uomo in inverno,» mormorò Hiss, la sua voce bassa e calda si perdeva nel buio immenso.

«Cazzo, c'eravamo quasi!» sbottò Alex, stringendo i pugni.

Il suono del sassofono emerse di botto dal silenzio e, con lui, un rapido flash bianco accecante che costrinse il ragazzo a serrare le palpebre.

Quando le riaprì, era ancora nel bar a fissare Edgar Allan e la gnoma. Stavano ridendo, e il bicchiere di lui aveva appena incontrato la tazza di lei in una sorta di brindisi scherzoso.

«Allora abbiamo un accordo!» esclamò il criminale vestito da damerino, infilando con mano rapida un fascio di banconote nella tasca interna della giacca.

«Per il resto dovrai chiedere alla donna in rosso,» disse la sua bassa compagna, con un sorriso furbo a incresparle le labbra. «Ti attenderà davanti alla cripta della famiglia Bryce, a mezzanotte del 15 giugno. Porta il paziente e lei porterà i soldi.»

«Ci puoi contare.» Edgar Allan alzò il bicchiere e se lo svuotò in gola.

«Ci siamo persi tutto!» ringhiò Alex, osservando la gnoma che si lasciava scivolare giù dallo sgabello e si allontanava.

«Vedila da un punto di vista diverso:» commentò Hiss, «abbiamo comunque assistito a qualcosa di molto interessante.»

Tutto sommato, il serpente non aveva torto. O per furbizia o per pressapochismo, quando Edgar aveva raccontato la sua storia aveva evitato di fare menzione di quell'ultimo dettaglio. Aveva un appuntamento in un luogo preciso e in un orario definito, proprio con la persona che aveva commissionato il rapimento della presidentessa.

Quello che avevano scoperto non era qualcosa, era tanto. Abbastanza forse da incuriosire persino Jacob, reticente a infilarsi in quella spinosa faccenda. Beh, reticente quanto lo era anche Alex, in fin dei conti.

«È abbastanza,» mormorò il ragazzo, annuendo.

L'immagine sfumò lentamente davanti al suo sguardo e le note al sassofono di Songbird si fecero sempre più lontane, fino a scomparire.




Spalancò gli occhi e si ritrasse dal corpo dormiente di Edgar Allan.

Scivolò sui suoi stessi piedi e rovinò a terra, riuscendo all'ultimo secondo a frapporre il braccio fra il corpo e il pavimento per attutire la caduta. Gli girava la testa e la gola bruciava come se avesse appena finito di bere dell'acqua salata bollente.

Aveva chiesto troppo alla sua mente e anche il corpo iniziava a risentire in modo pesante della nottata movimentata. Alex non ricordava di aver mai usato le sue capacità magiche così spesso in un giorno soltanto.

Gli altri parvero ricordarsi della sua presenza solo in quell'istante.

Succedeva spesso: non aveva la presenza fisica di Theresa o il fascino intrinseco di zio Darren. Alex era dimenticabile e passava inosservato, almeno finché non faceva qualcosa di stupido. In quei momenti, però, erano tutti pronti a fissarlo per non perdersi neanche un'istante delle sue figure di merda.

"Guardate, Alex culone è così grasso che è caduto da solo!"

Da quanto tempo non gli tornava in mente la vocina stridula e fastidiosa di Tim Blake.

Quel bambino merdoso all'orfanotrofio non perdeva occasione per ridicolizzarlo e puntargli addosso le attenzioni degli altri nei momenti peggiori.

«Per la grazia di Deladan, Alex, stai bene?» gridò Theresa, avvicinandosi al fratello a grandi passi.

Jacob e il dottor Kendrick avevano rimosso la presidentessa dal letto e stavano aiutando Darren a caricarsela in spalla, ma tutti e tre si erano fermati e lo fissavano.

«Ho fatto un giro nella sua testa,» rispose Alex, boccheggiando per la fatica.

«Perché l'hai fatto?» chiese Darren, accigliato. «Sei stremato, non dovresti sforzarti più del dovuto.»

E come poteva sapere lui quanto fosse quel più del dovuto?

Non era stato proprio lui a spingerlo a usare le sue capacità quella notte? E ora si permetteva anche di sgridarlo? Ok, era preoccupato per lui, ma non doveva credere di sapere ogni cosa soltanto perché era un adulto belloccio che girava per il paese a cacciare criminali su commissione!

Alex chiuse gli occhi e iniziò a respirare più lentamente, e Hiss gli posò la testa sulla spalla.

Non era da lui pensare quelle cose di suo zio: gli voleva bene e non voleva che accadesse nulla di male a lui o a Theresa.

Non ricordava come fossero i suoi veri genitori, ma lo zio si stava comportando proprio come avrebbero fatto loro. Non era, alla fine, ciò che ogni orfano sognava? Trovare qualcuno che lo guardava con quella scintilla in fondo agli occhi che emanava la stessa luce di una piccola stella.

«So chi ha commissionato il rapimento e so dove trovarlo,» disse Alex, afferrando la mano che Theresa gli porgeva per aiutarlo a rimettersi in piedi.

Hiss le sibilò addosso dolcemente, come a ringraziarla in vece del suo padrone.

«A questo penseremo dopo,» disse Jacob. Aveva il viso tirato e il tono nervoso.

«Appena sarà mattina, invierò i dottori e i miei pochi novizi in città per aiutare con i soccorsi,» disse George Kendrick, osservando il federale che faceva passare le mani inermi di Amanda Lawson intorno al collo del mezzelfo. «Quando tornerà l'FBI dirò che la presidentessa è stata rapita da alcuni degli uomini di Allan, fuggiti prima che potessero arrivare i soccorsi.»

«Cosa dirai quando ti chiederanno dove siamo andati?» domandò Darren, tenendo la presidentessa per le gambe, come fosse un ingombrante zaino.

«Che siete subito tornati in città per fare rapporto allo sceriffo,» rispose il sacerdote di Galadar. «Portatela in un posto nascosto, aspettate che le acque si siano calmate e partite subito per Washington.»

«E lui?» chiese Alex, indicando Allan che ronfava ignaro.

«Lo legheremo, lo metteremo con i suoi complici e lo faremo arrestare dalle forze dell'ordine, domattina,» rispose Kendrick, scoccando un'occhiata di disgusto all'uomo.

«Ci ha visti e sa che conosciamo l'identità del paziente speciale,» mormorò Darren, arricciando il labbro. «Sarebbe meglio non lasciare testimoni.»

«Non siamo assassini,» sbottò Jacob, aspro. «I criminali dicono qualsiasi stronzata per scagionarsi, chiunque lo interrogherà darà poco peso alle sue parole. Anche perché, diciamocelo, nessuno crederebbe a un racconto come questo.» Roteò il dito per indicare intorno a sé.

«Sarà...» mugugnò Darren, poco convinto, sistemandosi meglio in spalla il fardello umano.

Theresa aprì la porta della stanza e fece un cenno eloquente a Darren.

«Vi faccio passare da un reparto sgombro,» disse il primario, spostandosi verso l'uscita.

«Alex, recupera le mie cose,» ordinò Darren, imboccando la porta per uscire nel corridoio, seguito a ruota dal preoccupato Jacob.

Alex seguì il resto della sua famiglia e si fermò pochi istanti soltanto per raccattare la cintura dello zio.

Sentì la sorella esortarlo a sbrigarsi, dal fondo del corridoio. Hiss gli svolazzò davanti al viso e fece guizzare la lingua scarlatta nell'aria verso di lui. Bisticciavano spesso, lui e il suo serpente, ma alla fine Hiss era l'unico che si fermava sempre ad aspettarlo.

Dovette trottare qualche metro per recuperare Theresa e gli altri, e li raggiunse quando erano ormai arrivati alle scale. Il capo della presidentessa si muoveva al ritmo dei passi del mezzelfo, i lunghi capelli rossi spettinati le vorticavano intorno in una matassa disordinata.

Alex fissò il volto addormentato di Amanda Lawson e il cuore accelerò di qualche battito, ma non a causa dell'attività fisica.

"Trovami", gli aveva detto, e lui l'aveva fatto. Ma per quale motivo? Perché lei aveva bisogno di uno come lui?

Adorava viaggiare nei sogni delle persone e quando conosceva qualcuno la prima cosa a cui pensava era frugargli nella testa.

Eppure quando aveva visto Amanda Lawson aveva desiderato tutto meno che entrarle nei sogni. Era spaventato da quello che avrebbe potuto trovarci.

Però, perquanto la cosa lo terrorizzasse, era ovvio che prima della fine della giornataavrebbe dovuto violare la mente della presidentessa degli Stati Uniti.

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