Capitolo 8 - Il guardiano del corridoio

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In qualche modo era andata.

Jacob aveva preso una decisione frettolosa e azzardata quando aveva deciso di assalire il secondo piano dell'ospedale senza prima ideare una tattica precisa, ma alla fine tutto si era risolto al meglio.

L'agente Davies, purtroppo, non sarebbe stato dello stesso parere. L'ultimo avanzo di galera che lo aveva attaccato era armato con un lungo coltellaccio dalla lama seghettata e nella colluttazione, poco prima che Jacob sparasse, era riuscito a infilarlo nel fianco del poliziotto.

Davies era steso a terra e grugniva, tenendosi entrambe le mani intorno all'impugnatura dell'arma che gli spuntava dal corpo; era sudato e una chiazza di sangue si stava allargando sulla camicia già sporca. Era un uomo proprio sfortunato: rischiava di morire per la seconda volta nella stessa giornata, ma Jacob non si sarebbe permesso di perdere qualcuno durante la sua operazione.

Rinfoderò l'arma e si chinò sul poliziotto per valutare meglio la ferita. Non era un medico, ma era probabile che la lama non avesse colpito parti vitali, la lesione doveva soltanto fare un male cane.

«Dobbiamo togliertelo,» lo avvisò Jacob. Provò a staccargli le mani tremanti dall'arma, ma l'uomo fece resistenza.

«No, aspetta!» esalò, con voce tremante. Aveva le pupille dilatate e il fiatone.

«Dovrebbero esserci dei medici, da qualche parte!» disse Theresa, avvicinandosi ai due agenti insieme al cacciatore di taglie e al silenzioso fratello.

«Saranno chiusi in una stanza con i pazienti,» ipotizzò Jacob.

Sua madre era lì da qualche parte e poteva aver bisogno di lui. Cazzo, quella donna aveva il fegato spappolato e necessitava di costanti attenzioni! Da quanto tempo l'ospedale era sotto il controllo di quei luridi ladri? E se avessero già ammazzato tutti quanti? Proprio come avevano fatto con quel collega al piano di sotto... no, il ragazzo aveva usato la magia e aveva detto che erano tenuti in ostaggio. Doveva correre a cercare sua madre... ma non poteva lasciare Ramon lì, riverso a terra con un coltello nelle viscere ad aspettare qualcuno che lo salvasse.

«Ramon, ascoltami:» disse il federale, avvicinando il volto a quello umidiccio e pallido del poliziotto, «devi farmi levare questo coltello, così ti fasciamo al meglio e tu non rischierai di dissanguarti mentre cerchiamo aiuto.»

L'agente Davies scosse la testa, frenetico.

Idiota testardo; com'era possibile che un cagasotto del genere fosse stato ammesso nel corpo di polizia? Jacob strinse la mascella e provò, con più forza, a liberare l'arma, ma il poliziotto continuò a fare resistenza, gemendo di frustrazione. Stava per urlargli addosso, quando notò con la coda dell'occhio Alex avvicinarsi e toccare la fronte madida del ferito senza dire nulla: dopo un istante, Davies rilassò spalle e schiena e cadde all'indietro sul pavimento, addormentato.

«Così è più semplice,» commentò il ragazzo, grattandosi l'orecchio.

Già, la magia. Jacob era così abituato a dover pensare di gestire le situazioni tramite mezzi naturali che continuava a far finta che il mondo arcano non esistesse; eppure maneggiava un'arma che sprizzava potere sovrannaturale da tutti i pori.

Si voltò verso Darren che osservava la situazione in silenzio, appoggiato all'angolo del bancone della postazione degli infermieri.

«La tua bacchetta magica?» chiese, asciutto.

Darren emise uno strano suono che ricordava una risatina beffarda.

«Non vuoi arrestarmi per utilizzo improprio, o come cazzo lo chiamate voi?» chiese, arricciando il labbro.

Il federale si alzò in piedi. In volto era calmo, ma il sangue gli ribolliva nel corpo.

«Non è il momento di fare gli stronzi,» sibilò. «Ramon è ferito e ci sono dei malati che hanno bisogno di soccorso. C'è mia madre in mano a questi pezzi di merda.»

Darren abbassò il capo e incrociò le braccia sul petto.

«Ci sono dei malati, ma anche dei dottori e dei sacerdoti di Galadar,» rispose, guardandosi intorno per non incrociare gli occhi fiammeggianti dell'agente del bureau. «La mia bacchetta serve per le emergenze, e questa non lo è. Muoviamoci a liberare gli ostaggi e andrà tutto bene.»

«Zio,» intervenne Theresa, corrucciata. «L'agente Davies sta soffrendo.»

«In realtà sta dormendo così forte che dubito si accorgerebbe di qualcosa,» fece Alex, pizzicando la guancia del poliziotto come a voler comprovare la sua tesi.

Jacob spostò lo sguardo sui tre e fu sul punto di brandire la pistola e costringere quel tagliagole da quattro soldi a fare quello che gli era stato ordinato. Però, tutto sommato, Darren e Alex non avevano tutti i torti: la maggior parte dei briganti era stata neutralizzata e i medici non dovevano trovarsi lontano. Potevano aiutare Ramon senza dover ricorrere ancora a oggetti magici illegali.

Annuì, ma non disse nulla; poi si voltò e indicò un corridoio chiuso da una pesante porta bianca a doppio battente, un cartello sullo stipite indicava che l'accesso era riservato solo al personale e ai visitatori nell'orario concordato.

«Li avranno chiusi tutti nel reparto,» disse. «Muoviamoci.»

Lanciò un ultimo sguardo all'agente Davies: sanguinava, ma il flusso era poco copioso e lento. Sarebbe stato fuori pericolo per qualche minuto ancora, giusto il tempo di trovare un dottore che l'avrebbe sistemato.

Era già stato in quel reparto; sua madre occupava una camera in fondo alla corsia chiusa da quella porta e divideva lo spazio con altre due donne avanti con l'età. Tra le tre, Agnes era decisamente quella che stava meglio: era cosciente, anche se molto provata e indebolita dalle cure che le somministravano ogni giorno per tentare di tenerla in vita pur con un fegato ormai compromesso e disfunzionale.

Jacob spalancò la porta con una spinta decisa e si ritrovò nel corridoio del reparto: lungo, grigio e tetro, intervallato da porte identiche che si aprivano sulle pareti. La luce fioca emessa dalle lampade a olio conferiva un aspetto lugubre a quell'ala dell'edificio, tanto che il federale si sentiva sempre un molesto peso sullo stomaco quando varcava quell'accesso. Non sembrava proprio un posto da dove le persone potevano uscire in buona salute. O vive.

Al centro del lungo passaggio, a qualche metro da loro, c'era un uomo. Era alto almeno due metri e la pelle del volto era di un colore simile al fango sporco; porzioni di pelle più chiara chiazzavano la testa rasata e la guancia, e dal labbro superiore, arricciato in un orrendo ghigno sghembo, spuntavano un paio di canini giallastri.

Ma non fu il peculiare aspetto fisico di quella persona a colpire maggiormente Jacob, quanto più il fucile a canna lunga che teneva tra le mani e che stava puntando contro di lui.

«Cazzo!» urlò, ritraendosi di un passo per mettersi al riparo dietro lo stipite della porta.

Theresa strillò e Alex trattenne il respiro, paralizzato; Darren, dimostrando di nuovo dei nervi saldi che avrebbero fatto invidia a qualsiasi agente federale, afferrò i ragazzi per le spalle e li spinse a terra, seguendoli nel movimento per mettersi al riparo proprio nel momento in cui il colpo di fucile esplodeva.

Le pallottole fischiarono nell'aria, e la risata gutturale le seguì dal fondo del lugubre corridoio.

«Avanti, figli di puttana!» urlò la montagna armata che stava a guardia del reparto. «FBI, eh? Non sei il primo federale che faccio fuori.»

La vista di Jacob si tinse di rosso. Quel tizio avrebbe rimpianto il giorno in cui aveva deciso di alzare quell'arma su un agente del Bureau.

Con un ringhio, si sporse dal lato della parete e puntò la pistola, sparando due volte a caso, senza neanche prendere la mira. Voleva soltanto sentire il suono confortante dell'arma che esplodeva i suoi colpi; non era importante che andassero a segno, voleva che il rimbombo dello sparo e il fischio dei proiettili gli riempissero i timpani e scacciassero via quella voce roca e insopportabile che lo canzonava.

Le pallottole colpirono le pareti, fin troppo lontano dal bersaglio. L'uomo rise sguaiato e sparò di nuovo: frammenti di metallo impattarono contro il telaio della porta, staccando porzioni di legno e mandando in frantumi i vetri opachi incassati.

Con quell'arma avrebbe potuto tenerli bloccati lì per ore. Il corridoio era troppo stretto e Jacob non sapeva se ci fosse un passaggio alternativo per arrivare alle spalle di quel pazzoide omicida. Anche in quel frangente, però, la soluzione era semplice e lampante: schiacciandosi contro la parete, il federale si girò a guardare Alex che stava strisciando lontano dalla porta, ormai ridotta a brandelli, insieme alla sorella e allo zio.

«Devi pensarci tu,» disse Jacob.

Alex, steso a terra, si voltò di scatto e lo fissò con occhi sbarrati.

«Devo vederlo per farlo dormire,» balbettò. «Se mi sporgo mi fa saltare la testa.»

Jacob trattenne una bestemmia e un nuovo colpo di fucile rimbombò alle sue spalle, questa volta più vicino, tanto da farlo sobbalzare sul posto. L'idiota si stava avvicinando, lento ma inesorabile, convinto a crivellarli di colpi. Aveva atteso qualche secondo per sparare di nuovo, forse giusto il tempo di ricaricare l'arma. Non aveva avuto modo di analizzare a fondo il fucile, ma a occhio gli sembrava un vecchio Browning semiautomatico. Dalla fine della guerra aveva interrotto la produzione, quell'oggetto in particolare doveva essere frutto di un recupero e di un'attenta manutenzione.

Comunque, ciò che importava in quel momento era solo una cosa: un Browning di quel tipo poteva alloggiare fino a due colpi prima di dover essere ricaricato.

«Aspetta che spari di nuovo,» disse Jacob, facendo cenno all'impaurito ragazzo. «Poi fai quello che devi. Avrai una finestra di qualche secondo.»

«FBI, dove sei?» urlò il pericoloso guardiano del passaggio. «Non uscirete vivi da qui, teste di cazzo!»

Il fragore di un nuovo colpo d'arma da fuoco eruttò dall'ingresso del corridoio e pericolosi frammenti di munizioni volarono nell'aria, senza colpire nessuno. Che gran peccato che un'arma del genere fosse finita tra le grinfie di un tiratore così scarso, Jacob avrebbe saputo valorizzare quel pezzo di storia molto meglio.

«Vai!» urlò il federale.

Alex sembrò indugiare, ma Darren gli appoggiò una mano sulla gamba e fu come se qualcosa si fosse acceso all'improvviso nel corpo del ragazzo. Serrò la mascella, scattò in piedi e si diede la spinta per sporsi dal riparo della parete, fermandosi proprio al centro della porta, ormai divelta.

«Alex!» urlò Theresa con le lacrime agli occhi, tentando di buttarsi per riportare il fratello al sicuro, ma Darren la bloccò, trattenendola per i fianchi.

Passarono alcuni secondi di silenzio: Alex era immobile e fissava un punto imprecisato davanti a lui, nel corridoio. Jacob contò i secondi, misurando quanto tempo avrebbero impiegato le sue dita allenate per ricaricare le due cartucce nella camera di scoppio dell'arma. L'ignorante buzzurro che stavano fronteggiando non sarebbe certo stato veloce quanto lui, ma la differenza non poteva essere che più di qualche secondo.

Trattenendo il respiro per non rischiare di perdersi qualsiasi suono pericoloso, il federale rimase immobile a contare a mente. Decise di rilassarsi soltanto quando vide Alex stramazzare al suolo, come se le gambe lo avessero abbandonato; non sopraggiunse nessuno sparo e la voce ringhiante e roca del loro pericoloso nemico sembrava essersi spenta.

Theresa, in lacrime, si chinò sul fratello che boccheggiava a terra: era sudato, aveva le pupille dilatate per lo spavento ed era persino più pallido del normale.

Jacob lasciò la sicurezza della copertura e sbirciò nel corridoio: a qualche passo da loro, il corpulento criminale era riverso a terra, il fucile abbandonato a qualche centimetro dalla sua mano aperta. Respirava profondamente ed emetteva dei grugniti regolari. Dopo tutto il casino che aveva combinato si permetteva anche di russare, quel pezzo di merda.

«Alex, stai bene?» chiese Darren, avvicinandosi al nipote con aria preoccupata.

«Sì,» ansimò lui, portandosi la mano al petto. «Sì, io... ho solo bisogno di riprendere fiato. Cazzo, che spavento...»

In parte Jacob lo poteva capire: non si dimentica mai la prima volta in cui qualcuno ti rivolge una pistola addosso con lo scopo preciso di ucciderti. L'agente del FBI si chinò sull'uomo addormentato e storse il naso: puzzava come una carogna. A giudicare dal suo aspetto, nonché dal suo odore, poteva giurare che avesse sangue di orco nelle vene; probabilmente era frutto di qualche incrocio strano che aveva dato vita a quel mezzo umano, mezzo orco. Non si stupiva che una sagoma come quella fosse finita a fare il brigante di strada: gli orchi erano bistrattati da tutte le altre razze e Jacob non riusciva neanche a immaginare come fosse visto dalla società il miscuglio tra un orco e un umano.

Raccolse il fucile per la canna, ma l'avrebbe studiato in un secondo momento; aveva cose ben più urgenti da risolvere, come trovare sua madre.

Iniziò a spalancare tutte le porte che si aprivano sul corridoio: le prime due stanze erano vuote, se non per i letti sfatti e gli armadi austeri che coprivano la parete.

«Tu guarda qui, io vado più avanti,» disse Jacob a Darren, quando il cacciatore di taglie lo raggiunse.

Il mezzelfo fece solo un cenno d'assenso e riprese a ispezionare le camere dei pazienti, mentre Jacob avanzava a grandi passi verso il fondo del corridoio, dove si trovava la stanza di Agnes. Spalancò la porta con il cuore in gola e quasi si sentì le gambe cedere dal sollievo quando vide il familiare letto occupato dall'anziana madre. La camera era rimasta identica a come l'aveva lasciata tre giorni prima, l'unica differenza erano le tre persone vestite da medico che si muovevano nella stanza, dividendosi tra un paziente l'altro.

Un uomo e una donna vestiti da infermieri e un medico si bloccarono di scatto quando lo videro spalancare la porta e rimasero fermi a fissarlo, chiaramente terrorizzati. Jacob non riconobbe nessuno dei tre e si chiese per un istante che fine avesse fatto l'odioso medico che aveva in cura sua madre.

«FBI, state tranquilli,» disse, mostrando il tesserino con la sinistra.

Si rese conto di avere ancora in mano il grosso fucile del mezzorco; lo posò contro la parete e avanzò nella stanza con le mani libere bene in vista.

«È tutto a posto, siete liberi,» continuò.

«Jacky, grazie al cielo.»

La voce flebile e arrochita di Agnes emerse dalla coperta sotto la quale l'anziana era imbacuccata. Ma come faceva a non avere un caldo dell'accidente lì sotto? Malgrado il temporale che aveva schiaffeggiato la città per tutta la giornata, la temperatura non si era abbassata neanche di qualche grado, anzi il clima si era fatto persino più umido e fastidioso.

Jacob sorrise e si accostò al letto, trovando la grinzosa mano della madre. Il volto rugoso di Agnes spuntava dalla trapunta, la testa affondata in un doppio cuscino dall'aspetto morbido e inconsistente. Il colorito della sua carnagione era quasi giallastro e le conferiva un aspetto malaticcio e per nulla confortante, la sclera aveva assunto una tonalità molto simile. Non c'erano dubbi che Agnes stesse molto peggio rispetto al loro ultimo incontro.

«Eccomi, mamma; sono qui,» disse.

Vedere le condizioni in cui versava gli mozzò il fiato, tanto che non riuscì a dire altro. Sua madre era sempre stata una forza della natura e non si era mai fatta fermare da niente e nessuno; nemmeno la morte di suo marito aveva spezzato il morale solare ed esuberante della donna. Non c'era riuscita la perdita dell'uomo amato, ma ci stava riuscendo una malattia del cazzo. Insieme al Whisky della signora Khemdur. Appena tornato a casa avrebbe preso una torcia e avrebbe raso al suolo quella cazzo di casa e tutto il fetido alcool che quella nana bastarda spacciava ai vicini.

«È tutto ok, Jacky, sto bene,» disse Agnes.

Doveva avergli letto nel pensiero, oppure ciò che gli covava nelle mente era così palese da essere perfettamente comprensibile soltanto guardandolo in faccia.

Per non farle vedere gli occhi velati, Jacob si voltò a cercare il medico: si era sporto oltre l'ingresso della stanza e guardava nel corridoio, titubante.

«Dottore, come sta mia madre?» gli chiese, avvicinandolo e afferrandolo per la spalla.

Lui sobbalzò e si voltò, tremante. Doveva avere una certa età, ma non portava sul camice i simboli della chiesa di Galadar, segno evidente che non fosse un sacerdote ma solo un semplice medico.

«Ecco, Agnes...» Esitò un istante per passarsi la mano sul mento coperto da una ridicola barbetta di qualche giorno. «Siamo chiusi qui da più di ventiquattr'ore, non siamo riusciti a darle la terapia che stava seguendo. È cosciente e non sta soffrendo... non troppo, ancora.»

Jacob strinse i pugni e la mano appoggiata sulla spalla dell'uomo si contrasse in uno spasmo d'irritazione.

«Ora siete liberi, cosa stai aspettando ad andare a recuperare quello di cui mia madre ha bisogno?» ringhiò.

Il medico, atterrito, schizzò fuori dalla porta, seguito a ruota da un infermiere.

Jacob lanciò un'ultima occhiata al letto dove Agnes stava stesa, poi si mordicchiò l'interno della guancia e uscì nel corridoio. Aveva trovato sua madre e poteva mettere da parte almeno una delle tante preoccupazioni che gli affollavano il cervello, ma il pericolo era molto lontano dall'essere passato: Alex aveva detto che il capo di quel gruppetto di tagliagole si trovava al piano superiore, i pazienti e i dottori della struttura non sarebbero stati davvero al sicuro finché anche quel tizio non fosse stato neutralizzato.

Ripercorse il corridoio per tornare al punto dove aveva lasciato Darren, ma si fermò dopo qualche metro per lanciare un'occhiata dentro una camera attraverso la porta spalancata. Theresa stava abbracciando una ragazza vestita da infermiera e piangeva a dirotto, mentre Alex osservava la scena in silenzio da un angolo. Anche lei aveva trovato la sua amica Erika, all'apparenza in buona salute. Sembrava incredibile, ma erano riusciti ad agire in tempo per evitare altre vittime.

Jacob si bloccò e si schiantò il palmo aperto della mano sulla fronte. L'agente Davies! Cazzo, doveva mandargli un medico! Non era riuscito a pensare ad altro che a sua madre e la preoccupazione aveva del tutto cancellato l'urgenza di trovare qualcuno che potesse aiutare il poliziotto ferito.

Si girò, spasmodico e sudante, e bloccò il primo infermiere che gli passò accanto.

«C'è un uomo ferito più avanti, nella sala fuori dal reparto,» indicò.

L'infermiere dalle pesanti occhiaie e dal viso pallido annuì e si allontanò, chiamando alcuni colleghi durante il tragitto. Con un lungo respiro di sollievo, il federale si concesse qualche secondo di tregua: si appoggiò alla parete e socchiuse le palpebre, mentre la tensione defluiva da tutti i muscoli.

«Jacob.»

La voce di Darren lo raggiunse da qualche metro di distanza e l'agente corrugò la fronte per un istante. Stava iniziando a sentire la stanchezza esplodergli nelle membra, dopotutto era in piedi da quasi ventiquattr'ore e quella giornata non era proprio stata leggera.

Riaprì gli occhi per guardare il mezzelfo avvicinarsi a grandi passi, seguito da un giovane ragazzo avvolto in un camice verdognolo; il simbolo della chiesa di Galadar ricamato sul petto lo identificava come un sacerdote, forse un novizio, a giudicare dalla sua età. Sembrava turbato, ma non spaventato quanto gli altri medici e pazienti che si trovavano nel reparto.

«Abbiamo un piccolo problema,» esordì Darren, fermandosi davanti al federale.

«Figurarsi,» commentò Jacob, massaggiandosi con due dita la radice del naso.

«Il capo della banda tiene in ostaggio il primario al piano di sopra,» spiegò il cacciatore di taglie.

«C'è anche un paziente particolare con loro,» aggiunse il novizio, pallido in viso. «Dovete liberarli prima che quel pazzo decida di farli fuori.»

«Cosa vuol dire paziente particolare?» chiese Jacob.

Il novizio tacque e gli occhi saettarono verso il lato del corridoio, come a cercare una risposta.

«Non lo so,» rispose, alla fine. «Padre Kendrick ce ne ha parlato così: ha detto che avremmo ospitato per qualche giorno un paziente speciale la cui identità doveva rimanere segreta. Giovedì abbiamo chiuso l'ospedale ai visitatori e il paziente in questione è arrivato in un'auto scortata da un gruppo di agenti federali.»

L'interesse di Jacob schizzò alle stelle all'improvviso. Staccò le spalle dalla parete e si avvicinò al ragazzo, corrugando la fronte.

«Sanificazione degli ambienti, eh?» chiese, con gli angoli della bocca inclinati verso il basso in una smorfia di disgusto. «Io l'avrei chiamato mettere in pericolo la povera gente malata, invece.»

«Abbiamo agito come ci è stato ordinato,» rispose il giovane, con un filo di voce. «L'ospedale è rimasto blindato da giovedì mattina; anche noi abbiamo ricevuto l'ordine di tenere i pazienti nei loro reparti, limitare gli spostamenti all'interno dell'edificio e, in nessun caso, entrare all'ultimo piano. C'erano agenti del FBI dovunque, ci sentivamo in prigione.»

Jacob ripensò alla signora Khemdur e alle sue parole fataliste della notte precedente. Alla fine aveva ragione lei, la pancia di un nano non si sbagliava mai: era proprio un gran cazzo di casino. Lavorava nel Bureau da troppi anni e aveva seguito troppi casi per non rendersi conto di quanto tutti gli elementi di quella faccenda sembrassero collegati. Il paziente speciale, l'ospedale in isolamento, la banda criminale che assaliva la struttura, il cannone che si attivava... no, quello era l'unico elemento che, comunque, era impossibile spiegarsi. Eppure poteva essere un caso?

«La notte tra venerdì e sabato, tantissimi federali se ne sono andati,» continuò il ragazzo, sotto l'attento sguardo di Jacob e del silenzioso Darren. «Qualche ora dopo c'è stata l'esplosione, eravamo tutti spaventati a morte. Non abbiamo avuto neanche il tempo di riprenderci dallo shock che ci siano trovati invasi da questi... queste persone. Non so come siano entrati, hanno preso di sorpresa gli agenti federali che erano rimasti e li hanno ammazzati a sangue freddo, poi hanno sequestrato il primario e l'hanno chiuso al piano di sopra con il paziente speciale e noi siamo rimasti qua sotto in balìa di questi animali. È stato orrendo!»

Tutto troppo calcolato, le tempistiche erano precise al secondo. Edgar Allan e la sua banda di furfanti erano arrivati proprio quando la sorveglianza dei federali si era allentata, nello stesso istante in cui il cannone aveva fatto fuoco. Sapevano quando agire e cosa cercare, era ovvio.

Jacob incrociò lo sguardo di Darren per un istante e quel bagliore di preoccupazione che vide in fondo alle pupille gli lasciò intendere che anche il cacciatore di taglie fosse arrivato alla stessa conclusione. Quella storia puzzava di merda a decine di miglia di distanza.

«Va bene,» disse Jacob. «Occupatevi dei pazienti, noi andiamo a cercare il capo della banda.»

Darren annuì in silenzio.

«Se non è scappato in qualche modo, sarà ancora nella camera del paziente speciale,» commentò il giovane sacerdote. «Al piano di sopra, nel reparto di terapia intensiva. L'hanno svuotato per l'occasione.»

Gli sembrava impossibile che quella fosse opera del Bureau. Non era la prima volta che l'FBI adottava tattiche particolari per svolgere un lavoro, ma occupare un ospedale e mettere in pericolo le vite di civili innocenti era tutta un'altra storia.

«Non preoccuparti,» disse Darren, poggiando una mano sulla spalla del ragazzo. «Riporteremo padre Kendrick senza un graffio.»

A Jacob sarebbe piaciuto molto avere lo stesso ottimismo del mezzelfo. O la stessa ipocrisia, almeno: le sue parole erano cariche di gentilezza esasperata, ma il suo sguardo diceva ben altro. Era preoccupato, forse più di quanto non lo fosse lui stesso. In parte lo capiva, dopotutto Darren era responsabile della vita dei suoi nipoti, così come Jacob aveva temuto per la vita dell'anziana Agnes.

Per la prima volta da quando il cannone si era attivato, Jacob si sentì senza certezze, quasi allo stello livello del cacciatore di taglie che aveva tanto denigrato fino a qualche ora prima. All'improvviso, la sicurezza che i suoi colleghi sarebbero arrivati e avrebbero sistemato tutto quanto svanì, lasciando il posto alla cruda consapevolezza che il Bureau era già arrivato, ben prima dell'episodio della notte precedente.

E non solo non aveva sistemato tutto, ma c'era anche la possibilità che avesse contribuito a causare quel misterioso incidente.

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