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Le tenebre erano scese sulle mangrovie e il vento continuava a percuoterle, col suo ritmo incessante, sintomo di un'imminente tempesta; ma non sarebbe stato il temporale a sopraggiungere.

Genew sedeva su un ramo al limitare dei territori, un bel posto, cui erano legati tanti ricordi. Le braccia abbandonate lungo il corpo, gli occhi spenti persi nel vuoto, la bocca che talvolta emetteva sospiri silenziosi, unico manifestarsi del cuore che pian piano stava morendo dal dolore, il capo del clan non era mai stato visto tanto affranto, e dagli occhi di nessuno avrebbe dovuto essere osservato. Era solo, secondo l'ultimo volere tacitamente espresso: non doveva essere ricordato così.

Gli occhi erano colmi di lacrime, che si ostinava a trattenere, ancora spinto da quei precetti che gli erano stati insegnati da sua madre e dagli allora Anziani e che non aveva mai abbandonato. «Il capo non piange» gli ripetevano, se da bambino gli capitava di piagnucolare. «Il capo è l'uomo più forte del clan: se lui piange, gli altri cosa dovrebbero fare? Un giorno, quando il capo sarai tu e quando il tuo popolo sarà nella peggiore delle situazioni e piangerà per questo, tu non dovrai neanche osare esibirti in una smorfia di dolore: affronterai ogni circostanza, con coraggio e forza, buttandoti contro il nemico e rischiando anche di morire. Questo è quello che dovrai sempre fare, dal momento che ti viene conferito il nome di anax».

E così tratteneva le lacrime; già ne aveva sprecate abbastanza, mostrando la sua debolezza davanti alla moglie, tanto tempo prima, quando stava per sopraggiungere una disgrazia che sarebbe parsa una lieta novella in quel giorno funesto. Non poteva essere l'anax che tutti avrebbero sperato, che si sarebbe battuto contro il nemico rischiando la vita o che almeno avrebbe rincuorato i suoi compagni, stando al loro fianco quando il tutto si fosse compiuto.

Tanto valeva che restasse solo, nel luogo dove soleva venire a giocare con i suoi figli e dove aveva trasmesso tutto ciò che sapeva alla maggiore di essi. Era un'azione vile, ma sapeva che non avrebbe più retto alla vista del suo popolo. Nessuno se ne sarebbe accorto e tutti lo avrebbero ricordato come era sempre stato. Gli bastava trattenere le lacrime, per poter serbare quella minima dignità che gli era rimasta.

Ma come poteva forzare il suo corpo a non manifestare il dolore che lo affliggeva? Nella sua testa ogni singolo istante era impregnato dalla visione che le maghe avevano instaurato al suo interno e che si era ben impressa in lui, tornando sempre più ricorrente, man mano che il giorno fatale si avvicinava.

Ed era arrivato, e la sua mente faceva scorrere a ripetizione gli eventi ormai prossimi, che nessuno avrebbe potuto fermare.

"Tutto è perduto".

"No, tutto no".

Per quel poco che era riuscito, tutto ciò che il fato avverso gli aveva concesso, aveva manipolato gli eventi. Il futuro si era ripresentato talmente tante volte, che lo conosceva a memoria. E, analizzandolo sempre più meticolosamente, ecco che aveva notato alcuni buchi, alcune mancanze, che non rendevano la tragedia completa. Mancavano delle persone all'appello, a cui Genew non sapeva cosa sarebbe accaduto, poiché non era stato esplicitato.

Tutti i Guerrieri non aveva visto: aveva stabilito che quel giorno, qualsiasi cosa fosse accaduta, li avrebbe mandati in missione, adducendo un pretesto qualsiasi. Casualmente era pervenuta proprio in quell'occasione la scoperta dell'indizio, così era stato facile allontanarli dal clan. Loro sarebbero stati salvi.

Tra le fila degli sventurati non aveva intravisto tanti altri giovani, tra cui il suo secondogenito, e li aveva nominati tutti Guerrieri. Non si era limitato a ciò: aveva allargato quel gruppo con chiunque avesse anche solo un requisito per rientrarvi, nella speranza che il destino fosse clemente e si addolcisse con costoro.

Per i più piccoli non aveva potuto fare altrettanto, così si era raccomandato con alcuni bambini di andare a giocare sui rami più alti, evitando per una volta la noiosa cerimonia in onore dello spirito dell'acqua.

E infine mancava Anita. Ripercorrendo più e più volte il sogno, ogni volta riusciva a restare felicemente stupito, almeno per quel dettaglio. Per lei aveva organizzato ogni particolare, che ad altri non aveva potuto dedicare. Se ne rammaricava, dal momento che in qualità di capo avrebbe dovuto vedere tutti i membri del clan allo stesso modo, ma era un uomo e, per quanto imparziale si mostrasse, l'amore che provava per la moglie e i figli superava qualsiasi limite.

La sera precedente aveva chiesto ai quattro figli minori se volessero cenare da Kairos e Raya e, come se avesse proposto la migliore delle possibilità, subito erano corsi a importunare il fratello maggiore. Lui e Anita si sarebbero trovati soli nell'oikarion, dove avevano vissuto insieme tante situazioni, da quelle più comuni a quelle più speciali, indimenticabili. Forse anche quella notte era stata annoverata tra queste ultime.

Ricordava la faccia perplessa della moglie, non appena lo aveva visto entrare senza essere seguito dal fracasso prodotto dagli altri quattro. Le aveva velocemente spiegato la situazione e lei, sorridendo, gli aveva fatto cenno di sedersi al suo fianco, da dove potevano ammirare tutto l'interno della piccola abitazione.
«L'oikarion di sera sembra così vuoto ora che siamo solo io e te. Non ci sono più abituata. È da diciotto anni, ormai, che abbiamo almeno una presenza con cui convivere sempre. Te lo ricordi...»

Così avevano iniziato a richiamare alla memoria il passato e al centro dell'unica stanza era ricomparso Kairos in fasce, che gattonava curioso per la stanza; poi si era fatto un po' più grande e lo avevano visto mentre ammoniva paziente una neonata Rose perché non mettesse in bocca le pozioni della mamma. E poi Iulius che piangeva perché veniva torturato dalla terzogenita che invece rideva divertita strizzandogli le morbide guanciotte, mentre il fratello maggiore cercava come sempre di smorzare le tensioni. E ancora Hermit e Sofia che si rincorrevano e inciampavano nei vasetti di lozione, che si infrangevano contro il legno, così iniziavano a incolpare l'altro senza alcun pudore. E non erano che un'esigua parte di tutti i momenti che quell'oikarion aveva visto accadere tra le sue liane.

Ma prima che fossero quei cinque ragazzi gli assoluti protagonisti delle vicende della famiglia, erano venuti loro due ed era venuto il loro amore. Non avevano potuto non rievocarlo, quella sera. Ed era ciò che Genew aveva sperato accadesse; la stava salutando: voleva farlo nel modo migliore.

Si erano amati, come non facevano da anni, senza la preoccupazione di fare troppo rumore e svegliare i ragazzi, senza alcun pensiero. Genew era persino riuscito a dimenticare il fardello che stava per abbattersi sul suo capo, sentendo Anita che rideva e lo carezzava, e ammirando l'azzurro splendente dei suoi occhi, mentre le baciava le labbra morbide.

L'aveva guardata, senza provare amarezza per i cambiamenti che il corpo della moglie aveva subìto nel corso degli anni: era sfiorita presto, troppo in fretta, e della sua precedente bellezza erano rimaste solo quelle due meravigliose orchidee celesti, che davano luce al grigiore della vecchiaia. Non era però un elemento negativo, agli occhi innamorati di Genew. I numerosi fili bianchi tra i capelli, le rughe ancora sottili e la pelle appena cadente erano il segno del tempo che avevano passato insieme, per cui non avrebbe mai provato rammarico.

Così lungo, rapportato alla vita di entrambi, avendo occupato quasi metà della loro esistenza. Così breve agli occhi dell'eternità della natura, degli dei e delle leggi che governano tutto; niente più che una minuscola goccia d'acqua. E la loro esperienza insieme così insignificante, una tra le tante: quanti uomini potevano aver avuto una simile passione per una donna, e quante donne potevano aver desiderato tanto l'uomo di cui si erano innamorate. Ma Genew e Anita erano due semplici esseri umani, e avrebbero continuato a credere che non esistesse una forza maggiore di quella che li teneva uniti.

«Anita, ti amo» le aveva sussurrato Genew, come tante volte era successo. «Ti amerò sempre». Era ciò che di più sincero potesse pensare e sapeva che non avrebbe mai cambiato idea. Non ne aveva il tempo, ma se anche ci fosse stato, il suo amore per lei sarebbe rimasto immutato, e anche dopo la morte, se ci fosse stato qualcosa, il suo primo pensiero sarebbe sempre stato dedicato a lei. Alla sua Anita.

Come sempre lei gli aveva sorriso, carezzandogli una guancia e baciandolo ancora.
«Sono felice, Genew» diceva, ancorata al suo collo. «Finalmente appartengo al tuo clan, sono considerata, apprezzata, come tu tante volte avevi ripetuto sarebbe accaduto. La figlia che credevamo perduta per sempre mi si è riavvicinata, è diventata mia amica. Incredibile, anche ora a volte stento a crederci. I ragazzi, poi... Crescono, crescono in fretta, ma felici, e l'importante è questo. E infine ci sei tu, che con tanta pazienza hai fatto sì che la mia vita divenisse perfetta». Con un piccolo slancio si attrasse a lui, prendendo di nuovo le sue labbra tra le sue. «Non desidero nulla. Solo che tu resti con me, Genew. Sempre, sempre, sempre».

Genew non aveva risposto. Si era limitato ad abbracciarla e a stringerla forte, nascondendo il volto tra i suoi capelli e celandole gli occhi inumiditi. Anita era rimasta accoccolata tra le sue braccia, senza accorgersi di nulla, respirando serena, come gli aveva rivelato di essere.

L'uomo aveva scacciato quel brutto presagio, cercando di godere ancora insieme alla moglie, finché fossero riusciti: avevano continuato fino a tarda notte, quando, ormai stanchi e provati nel corpo, ma non ancora soddisfatti nello spirito, si erano infine sdraiati, l'uno tra le braccia dell'altra.

Solo allora l'aveva esortata ad andare, il giorno seguente, a raccogliere le erbe che le occorrevano per produrre i suoi filtri: le avrebbe occupato tutta la giornata e non sarebbe tornata prima che la notte avesse compiuto la maggior parte del suo corso. Lei aveva assentito senza ribattere e Genew si era sentito più leggero.

Ma le sue parole, talvolta, rimbombavano nella sua testa e anche allora le udiva, gravose come macigni.

Genew non riuscì a frenare ancora a lungo le lacrime. Le lasciò scorrere, pensando a quanto fosse stato meschino mentire anche a lei. Diversamente non avrebbe potuto fare, ma quel pensiero lo tormentava lo stesso. Avrebbe presto scoperto tutto, tornando quella notte al villaggio e trovando davanti ai suoi occhi il disastro. E lui non sarebbe stato al suo fianco a confortarla. La felicità che gli aveva rivelato di provare avrebbe preso il volo, insieme a tante altre anime. E tutto questo perché?

Perché, si chiedeva Genew, guardando la luna e il cielo stellato, guardando le imponenti mangrovie. Che senso aveva avuto stabilire un così atroce destino a poveri innocenti? Dov'era il senso nel condannare un intero popolo? E nel far soffrire a vita i sopravvissuti? Perché, natura, sei così crudele? E tu, destino, perché lo sei?

Ma la natura avrebbe continuato il suo corso anche senza di loro e il destino è cieco e non vede la sofferenza degli uomini. A Genew questo non bastava. Non erano motivazioni sufficienti per vedere distrutto tutto ciò che amava. Così dava la colpa alla sorte, maledicendo il nome di Tyche, che aveva deciso di tornare a occuparsi di loro dopo anni di assenza, proprio quando lui non voleva altro che essere felice.

«Perché, Tyche, perché?» mormorava tra le lacrime, stringendo i pugni fino a piantarsi le unghie nella pelle. «Perché vuoi separarmi da Anita? Perché vuoi sottrarre la vita ai miei ragazzi? Non ti impietosisci sentendo le loro risate, la loro euforia? Non hai remore nello stroncare così crudelmente la loro giovinezza? Nessun fine, nessuno, potrebbe mai giustificarti!»

Il silenzio assorbiva ogni rumore della foresta. Persino la natura – la natura che da quando era piccolo aveva tanto amato – si era alleata con il nemico, non lasciandogli nei suoi ultimi momenti la gioia di sentire ancora i piccoli suoni che lo avevano accompagnato per tutta la vita.

A un tratto la situazione mutò: qualcuno spezzò la morta quiete con il suo atterraggio sul ramo. Genew si asciugò le lacrime e si ricompose: il momento era giunto.

«Ah, eccoti qui!» Una voce ben nota lo ridestò. Genew sentì il suo cuore perdere un colpo.
«Kairos». Si voltò, sbigottito dalla visione del secondogenito, in piedi sulla piattaforma, proprio alle sue spalle. Cosa ci faceva lì? Cos'era successo ai Guerrieri? Non erano andati? Tutto quello che aveva fatto per salvare almeno loro era stato invano?

«Oh, scusami» sussultò il giovane, sentendo la voce del padre alterata. «Ti ho disturbato?»
«No» tagliò corto Genew, sempre più agitato interiormente. «Piuttosto, sei... qui?»
«Ehm, sì: oggi è il giorno di Calpurnia e siccome senza di te la cerimonia non si può fare, sono venuto a chiamarti».
«No, intendevo, sei qui, ma non dovresti essere con i Guerrieri? Avevo esortato io stesso Genew ad andare subito alla ricerca di nuove tracce. Non lo ha fatto?»

«Oh, sì» sorrise il ragazzo, sedendosi a fianco del padre. «Sapessi quanto è esaltata per il tesoro. Però ha lasciato scegliere a noi se andare: e, sai, avevamo viaggiato già tanto...» provò infine a giustificarsi, senza incrociare il suo sguardo.

«Capisco» mormorò Genew. All'esterno non lasciava trapelare nulla della disperazione che stava dilagando nel suo animo. Ora tutto tornava. Per quanto avesse provato a forzare il destino, cercando di mettere in salvo più persone possibili, non aveva potuto andare contro la sorte stessa. Kairos c'era nelle visioni, ma lui, cieco, lo aveva ignorato.

"L'uomo di spalle che brandisce la spada". La figura più enigmatica di tutte, che dalla prima visione lo aveva confuso. Non aveva mai dubitato che fosse lui stesso, con quei capelli ricci, le spalle larghe, la stazza solida e tanti altri piccoli elementi che avevano fatto sì che Genew si riconoscesse in lui. Tutto ciò che a quell'uomo mancava era la sua andatura claudicante.

Non aveva compreso che quello era Kairos. Ancora lo vedeva come qualche anno prima, come il bambino pacifico che ogni tanto si avvicinava timidamente a lui per ricevere un abbraccio.

Ma Kairos era un uomo, adesso. Lo guardò attentamente, mentre il giovane stringeva le labbra, forse imbarazzato per quella sua scelta pigra, che in ogni altra occasione sarebbe stata irrilevante. Osservò i lineamenti mascolini del figlio, ricoperti da una barba ben diversa dalla lanugine che gli era comparsa due anni prima. Passò poi ai capelli, al profilo, al taglio degli occhi. Com'erano simili ai suoi...

Quel corpo nel pieno vigore suggeriva la vita, il suo propagarsi, la sua presenza attiva nel mondo. Come l'abbaglio che aveva avuto nell'interpretazione del suo sogno, era solo un'illusione.

«Speravi andassi anche io?» Kairos gli si era avvicinato, la testa appena piegata di lato e gli occhi che lo fissavano, impazienti di sentire la risposta.
«Oh no, non è questo...» iniziò Genew, ancora poco convinto: doveva allontanare i pensieri ancora per un po'. Ma il figlio lo interruppe prima. «Ti... ho deluso?»

«Non pensarlo neanche, Kairos» affermò subito il padre, con tono più autorevole: per quanto infatti il mondo gli stesse crollando addosso, non poteva sottrarsi dal suo ruolo di genitore. Non voleva rattristarlo: a seguire sarebbe stata la sua unica emozione. Si sarebbe sacrificato, resistendo con ogni sua forza alla tentazione di esprimere la sua disperazione, piuttosto che rendere partecipe anche suo figlio.

«Qualsiasi scelta facciate, tu e i tuoi fratelli, purché abbiate dalla vostra dei buoni motivi, a me andrà sempre bene» sentenziò, portando la conversazione ai banali dibattiti che avvenivano in famiglia, quando i figli non si sentivano alla sua altezza.

«Lo so» sbuffò il giovane, di nuovo sorridente, senza più la preoccupazione di averlo deluso. «Me lo ripeti da sempre!»
«Appunto perché lo ripeto è una cosa che devi ricordare bene».
«Non è detto: Rose ripete cose che sarebbe meglio dimenticare...»
«Se permetti, io, il vecchio e pedante capo del clan, nonché tuo padre, ho un po' più esperienza della tua giovane sorellina. Vorresti metterci a confronto?» continuò Genew, fingendo un tono severo che tradiva un ché di scherzoso.

Kairos non si trattenne e il padre fu contagiato dalla freschezza del riso del giovane. L'uomo si soffermò ancora su di lui: solo apparentemente nel suo aspetto non restava quasi nulla del bambino che era stato, ma vedendo il modo in cui rideva, con gli occhi stretti a fessure tanto da far comparire due piccole fossette sulle guance, capiva che era ancora il suo piccolo.

Con il sottofondo della risata del figlio, che continuava a essere alimentata dalle sue stesse battute sulla sorellina scansafatiche, la mente del padre venne trasportata, senza alcuna logica, nel passato.

«Papà, ho sentito altre storie sull'Exo!» diceva un bambino, sobbalzando sul torace del padre, appena coricatosi di fianco alla moglie. Tutta la stanchezza che sentiva lui, dopo una lunga giornata di viaggio, era assente nel corpicino del figlioletto, che non riusciva a dormire tanta era l'emozione che provava.

«Kairos, è tardi e tuo padre è stanco. Fa' come tua sorella e va' a dormire» lo ammonì la donna, già sdraiata e voltata da un lato. «Gliele racconti domani le altre storie».
«Anita, lascialo fare» disse bonariamente l'uomo, avvicinando il figlio a sé. «Raccontami tutto, ma a bassa voce, così non svegli Rose e lasci riposare la mamma» gli sussurrò.

Il sorriso del bambino crebbe a quelle parole.
«Sai la terra in cui il primo Genew voleva andare? L'Amer... L'Amer...»
«L'America» completò l'uomo, riferendosi al luogo privilegiato dalle leggende che fruivano tra il loro popolo.
«Quella! Dicono che sia un posto enorme, più di tutta l'isola! Sopra ci sono tanti uomini diversi e si vogliono tutti bene. Incredibile, eh! Pensa se anche sull'isola ci volessimo tutti bene. Poi ci sono dei mostri giganti che volano nel cielo e fanno dei rumoroni!»
«Ah, sì? E cosa fanno?»
«Alcuni portano le persone dove vogliono, altri si riempiono d'acqua e fanno piovere, poi non lo so...»
«E questo chi te l'ha detto?»

«Ninni il costruttore, che l'ha sentito da suo figlio che fa l'Avventuriero, che l'ha sentito da un neoteros che ha trovato più a est. Mi ha detto che si chiamano a-rio-pla-ni» scandì Kairos, tutto orgoglioso della scoperta. «Quando sarò grande, papà, porterò Rose e il piccolino nella pancia della mamma su uno di questi mostroni. Sarà come volare sulle liane, ma molto più divertente!»
«Ci credo! Porterai anche me?»
«Certo!» annuì il bambino, abbracciandolo, mentre già riprendeva a fantasticare. «Sarà grazie a me se ci riusciremo: lo troverò io il tesoro!»
«Ah sì?! E farai tutto da solo?»
«Ovvio! Quando sarò grande, sarò forte come te!»

«Oh, ma ti servirà essere ben più forte per poter trovare il tesoro» ridacchiò il padre, passandogli una mano tra i riccioli. «Non ho dubbi che lo sarai. Però ricorda che puoi anche contare sull'aiuto di tutti i tuoi compagni».
Kairos sembrava un po' contrariato.
«Va bene...» accettò. «Però, almeno un indizio, sarà solo e soltanto grazie a me se lo troveremo!»

«Kairos, non sei emozionato delle nuove scoperte?» chiese, curioso, richiamando quella conversazione di dodici anni prima.
«Sì, dai» disse il giovane, alzando le spalle con un sorrisetto lieto ma indifferente.
«E basta?!» esclamò stupito Genew. «Se le avessimo fatte solo qualche luna fa non avresti fatto altro che parlare di questo. E penso saresti andato di corsa con gli altri Guerrieri».

«Hai ragione. Una volta era così, ma intanto sono successe tante cose...» affermò con la stessa espressione elettrizzata di quando da piccolo parlava del tesoro. «Da quando vivo insieme a Raya, ho trascorso i giorni più belli della mia vita. Una felicità simile credevo che l'avrei trovata solo nell'Exo, invece si è realizzata proprio qui, nel nostro clan, e non potrà che continuare. Il luogo in cui ti trovi non conta a niente, se vicino a te non ci sono le persone che ami. Se dovessi scegliere tra stare qui per sempre, senza mai vedere l'Exo, ma con tutti voi, e poter ammirare il mondo di fuori ma abbandonandovi, non avrei dubbi su cosa decidere».

Kairos si voltò e mostrò il suo sorriso a Genew, rimasto colpito dalle parole del giovane. Ora poteva davvero affermare che era diventato un uomo. Il corpo denota solo minimamente la crescita di una persona; sono soprattutto i suoi pensieri a farlo. Il discorso di suo figlio gli conferiva una profonda saggezza, se comparata alla giovane età che era ancora il lui. Il luogo, in effetti, non è fondamentale. Può anche essere il posto più magnifico di ogni mondo immaginabile, ma non è migliore di un altro, senza qualcuno di caro intorno.

Allora perché andavano alla ricerca del meraviglioso Exo? Almeno a questa domanda una risposta c'era: l'isola è una trappola mortale.

«E non ti pesa il fatto che ci siano delle divinità che non ti permettono sempre di farlo, delle regole che stabiliscono il tuo futuro? Non vorresti essere davvero libero?» chiese Genew, più concitato a ogni domanda che gli poneva.
Il giovane scosse la testa, spensierato: «Finché avrò Raya al mio fianco, riuscirò a sopportare con il sorriso anche la peggiore maledizione che tutti i daimona insieme vorranno infliggermi. Finché avrò Raya e la mia famiglia» aggiunse subito dopo, mentre gli balzava in mente una nuova idea, una così allegra da farlo quasi sobbalzare. «Che tra un po' sarà ancora più grande! Tra pochissimo! Papà, ci pensi che stai per diventare nonno!» esclamò il giovane, afferrandogli una mano per l'entusiasmo.

L'animo di Genew tornò a essere sbattuto dai mari della disperazione, mentre sul suo viso sorgeva un piccolo, falso sorriso. «Già».
«Papà... non sei contento?»
«Oh, sì, figliolo, tantissimo» aggiunse, fingendo una nota lieta nella sua voce, che non fu in grado di persuadere il figlio a dovere.

«Non pensi che sia in grado di diventare genitore?» chiese questo, quasi offeso, ignaro di ciò che il padre era costretto a sopportare. «Guarda che sono già un esperto. Chi era che aiutava sempre la mamma quando i miei fratelli erano piccoli? Genew no di certo, e Rose nemmeno. Finché Iulius non è diventato un po' più grande ho sempre fatto tutto da solo. Ma non mi pesava, anzi, spesso preferivo stare con loro che con i miei coetanei... Badare ai miei fratellini mi faceva sentire grande, adulto, mi riempiva di gioia essere il fratello maggiore di quei piccoli così adorabili» disse, sorridendo a quei momenti passati. «Rose era di sicuro più carina quando ancora non parlava» si ricordò poi di aggiungere, per non lasciarsi sfuggire l'occasione di denigrare la sorella.
«Kairos...»
«Che c'è? È la verità».

Genew scosse la testa, mentre Kairos continuava a ridacchiare.
«Però, papà, non vedo l'ora» riprese, di nuovo serio. «Non vedo l'ora davvero. Curare i miei fratellini è stato bellissimo e lo ribadirò per sempre. Ma vuoi paragonarlo ad avere un figlio proprio? A vedere una parte di te – che però è una persona a sé stante – crescere, imparare, diventare un uomo o una donna?»

Genew, pur afflitto com'era, non poté non sorridere.
«Io che ne ho fatto esperienza posso dire che è la cosa più bella e unica che possa capitare: le emozioni che si provano quando si stringe al petto il proprio figlio, appena nato, sono tanto forti e numerose che non possono essere paragonate ad altre. E anche se uno lo ha già provato diverse volte, queste non diminuiscono, ma scaturiscono sempre, e sempre altrettanto potenti» sospirò, ricordando quando aveva preso in braccio i suoi figli per la prima volta. E da quell'iniziale memoria seguivano poi tutte quelle relative alla loro crescita, fino ad arrivare a quello che erano ora. «A dire il vero, anche quando si riguarda il proprio figlio, che ormai è cresciuto ed è diventato un uomo, e si pensa a quello che è stato e quello che è, il cuore sembra scoppiare, tanta è la gioia» sorrise, accarezzandogli affettuosamente la chioma ricciuta.

Senza aggiungere altro, Kairos si slanciò verso il padre e lo strinse forte. Anche Genew ne approfittò per abbracciare il figlio, evento non così scontato da quando questo era diventato un ragazzo. Ma quell'abbraccio gli serviva soprattutto come conforto.

Era stato così bello il dialogo che si erano scambiati. E come sarebbe stato bello se si fosse potuto realizzare. Invece lui non sarebbe mai diventato nonno, e Kairos avrebbe terminato i suoi giorni prima di veder nascere suo figlio. Ogni sua speranza, ogni suo proposito, sarebbero evaporati. La morte, tacita e dolorosa, sarebbe sopraggiunta prima che se lo aspettasse e lo avrebbe privato di tutto.

E sapere questo, vedendolo così felice, così emozionato, come qualsiasi giovane che aspetta la nascita del proprio figlio, lo abbatteva ancor di più della consapevolezza della sua stessa fine.

Restarono a lungo abbracciati così; ogni tanto Genew sentiva che Kairos stava parlando, ma lui non aveva più la forza per rispondere.
Alla fine il ragazzo si alzò.

«Ora vado» disse, già afferrata una liana. «Vieni con me?»
«Penso resterò ancora un po'».
«Va bene, ma non tardare, che poi Calpurnia farà piovere per un anno intero» fece scherzoso il giovane. «A dopo». E partì, lasciando il padre, forse per sempre.

Genew era rimasto di nuovo solo, questa volta davvero a patire gli ultimi istanti della sua vita. Ma il suo pensiero tendeva a tornare sulle ultime parole di Kairos. A dopo... Chissà, forse era così. Forse esisteva un posto in cui andavano le anime dei morti, e questo luogo non era cupo e oscuro come molti sull'isola credevano. Magari era una terra sconfinata e piena di prati verdi, come quelle del Nord, oppure era una fitta foresta lussureggiante, o ancora una montagna piena di docili animali. O un altro luogo, che lui però non aveva mai visitato. Magari non era nemmeno così: era un regno sopra al cielo, composto totalmente da nuvole bianche, o un villaggio sottoterra, ma paradossalmente luminoso. Magari era un altro luogo ancora, così meraviglioso che nessuno avrebbe potuto immaginarlo. Magari era l'Exo. Chi avrebbe mai potuto dirlo... Genew concordava però con suo figlio: qualsiasi posto fosse stato, l'importante era che lì l'avrebbe riabbracciato e, aspettando con pazienza, si sarebbe ricongiunto anche alla sua amata.

La sua tristezza non poteva essere placata così facilmente, ma almeno si era aperto un flebile spiraglio di luce, nell'oscurità in cui era immerso. Forse doveva solo essere contento per la felicità che era riuscito a ottenere; forse il mondo terreno non può offrirne di più. Ma nell'aldilà che si era figurato, lì era certo che l'avrebbe ritrovata. Impercettibilmente, sorrise.

Un vento impetuoso si alzò alle sue spalle e Genew udì un rumore analogo a quello prodotto dal figlio poco prima. Non si trattava di lui, stavolta. Rimase nella stessa posizione e sospirò.

«Ciao, Mortino. Ti stavo aspettando».

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Spazio autrici:
Sigh! Questa volta nessun bluff. Il nostro amato capo ci lascia davvero. Speriamo di avergli attribuito grande dignità con quest'ultimo capitolo: se la merita 😭😭😭😭😭😭😭
Potrei fare la mia solita analisi del testo ma... sono emotivamente distrutta 😭😭😭😭😭😭
Be', sappiate solo che i tre flashback sono voluti sia per risaltare i tre ruoli principali di Genew (capo, marito e padre) e i tre momenti della sua vita (infanzia, giovinezza, maturità). È probabile che abbiate trovato altro (avrei fiumi di parole da spendere per Kairos) ma continuare a parlarne mi deprime.
~ Un panda e una tartaruga afflitte nel profondo dei loro cuoricini troppo sadici!

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