Capitolo 6. The Two Horseshoes

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Alexia fermò in malo modo l'auto a cavallo della striscia bianca che delimitava il posteggio, quasi in diagonale rispetto alla linea, fregandosene altamente di occupare due spazi; dopotutto a chi poteva importare? Coneysthorpe era un fetido buco di culo composto di una manciata di case attorno a un pub e a una minuscola chiesa; il totale degli abitanti superava a malapena il centinaio e Alexia era sicura di aver visto condomini che ospitavano più anime di quel villaggio dimenticato da Dio.

Quindi no, non le fregava proprio un cazzo di aver occupato due parcheggi; non gliene sarebbe fregato neanche se si fosse trovata a Londra, e Coneysthorpe era la cosa più lontana dalla capitale che si potesse immaginare. Le aveva sempre messo una grandissima tristezza quel minuscolo paesino: pareva una formica rispetto alla gigantesca mole dell'antico palazzo che sorgeva dall'altro lato del lago, disegnando la sua cupa ombra oltre le acque, fino a raggiungere le esili casette adagiate sulla riva. Doveva essere per quel motivo che aveva deciso di tenere quel luogo come ultima spiaggia, nella sua ricerca di Justin.

Coneysthorpe era l'agglomerato urbano (se così si poteva definire) più vicino al palazzo dei Maverick, Justin sarebbe stato il più grande idiota della Terra a nascondersi a due passi dal luogo dove aveva lasciato il cadavere ancora caldo di Martha. Però, dopo aver escluso tutte le città e i paesi più vicini, ad Alexia non era rimasto altro posto dove cercarlo. Si era spinta persino a York e aveva passato il pomeriggio a setacciare tutti gli hotel di quella maledetta città, ma nessuno aveva visto un biondino con la faccia di cazzo che corrispondeva alla descrizione di suo nipote. Alla fine, seccata e furiosa, Alexia aveva girato l'auto e aveva ripercorso le strade di campagna fino a tornare vicino alla villa, convinta a provare nel luogo meno probabile.

«Mamma, non è granché come parcheggio.»

Alexia, le mani ancora strette intorno al volante foderato, lanciò uno sguardo fugace ad Arthur. Suo figlio stava seduto sul sedile del passeggero e la guardava con quegli occhi ricolmi di terrore e d'incertezza. Perché doveva avere sempre quella faccia terrorizzata? Addirittura quando parlava con lei. Era sua madre, cazzo, non una sconosciuta; che cosa poteva mai temere un figlio dalla propria madre? Lei voleva solo il meglio per lui: tutto ciò che aveva fatto era solo per lui, perché lui potesse ottenere la giusta considerazione! C'erano giornate in cui avrebbe tanto voluto prenderlo per la testa e scuoterlo fino a fargli colare il cervello dalle orecchie... ma gli voleva così bene, così bene che avrebbe causato un genocidio solo per lui.

«Tesoro, siamo di fretta, non credo che qualcuno avrà da ridire se lasciamo qui la macchina per qualche minuto,» rispose Alexia, socchiudendo le palpebre e simulando un tono calmo e impostato.

Arthur alzò le mani grassocce e si grattò la punta del naso, guardando fuori dal parabrezza per leggere l'insegna del pub davanti al quale si erano fermati.

«Credi davvero che Justin sia qui?» le chiese, dubbioso.

Cazzo, no, certo che non lo credeva! Ma non potevano escludere a priori una pista, altrimenti sarebbero stati gli altri a trovarlo per primi, e lei non lo poteva permettere. Doveva essere Arthur a mettere le mani su quello stronzetto biondo e a dimostrare quanto valeva; era destino che fosse così: Alexander ancora non si era accorto di avere un nipote meritevole come lui, ma quella era l'occasione che entrambi aspettavano per indurre il vecchio a spostare l'attenzione su di loro. Dopotutto anche Alexia era sua figlia, non solo David, ma era sempre esistito solo lui. David, David, David, sempre e solo il dannatissimo David! La moglie di David, i figli di David; poi era arrivata la lurida troia irlandese che David si era scopato, ed era successo un disastro, perché David era importante, David era essenziale per tenere alto il buon nome della famiglia, David era il futuro dei Maverick. Beh, David non valeva un cazzo! Non aveva che la metà di quanto Alexia potesse offrire alla famiglia, ma loro padre era sempre stato troppo cieco per accorgersene. E l'orribile maledizione della non considerazione era piombata anche su suo figlio: ignorato e buggerato dai cugini, non c'era da stupirsi se era venuto su così impaurito da ogni da ombra che incrociava.

«Tesoro, no, non credo che Justin sia qui, ma tentar non nuoce, non trovi?» Gli rifilò un sorriso freddo e lo fulminò con quegli occhi color mare che aveva ereditato dalla madre.

Si stava facendo il culo per lui, non capiva? Sembrava quasi che ad Arthur non interessasse trovare Justin, che non gli importasse cambiare la sua vita e diventare il migliore tra gli eredi di Alexander. Quell'atteggiamento era colpa del padre. Merda, se solo avesse potuto tornare indietro nel tempo e impedirsi di cadere ai piedi di quell'italiano puttaniere da quattro soldi! Ma Martino, da giovane, era così audace e... affascinante, sì. Cazzo se era affascinante: ogni centimetro del suo corpo emanava calore mediterraneo e quelle iridi scure, così intense, parevano olive lasciate a riflettere il sole dell'estate.

Chi poteva mai immaginare che quel bel pacchetto regalo potesse nascondere all'interno una mela marcia di quelle dimensioni? E dire che era stata avvisata: suo padre si era fermamente opposto alla loro relazione, in prevalenza perché Martino e la magia erano come due magneti caricati con forze opposte. Alla fine, però, il vecchio Alexander si era messo il cuore in pace e aveva accettato di vedere la figlia minore sposata con un insulso ragazzotto di umili origini, ignaro della magia e privo di qualsivoglia predisposizione al sovrannaturale. Cosa gli importava, alla fine? Era David quello che doveva portare avanti la linea di sangue, non certo lei. La piccola Alexia poteva farsi scopare da chi desiderava, perché a nessuno importava se il piccolo Alien che le sarebbe schizzato fuori dalle cosce sarebbe diventato un potentissimo mago o un espertissimo idraulico.

Beh, a lei importava, invece. Perché era figlia di Alexander Maverick quanto lo era David, e Arthur aveva gli stessi diritti di quegli stronzi dei suoi nipoti. Quando Alexia e suo figlio avrebbero riportato le membra di Justin a casa, il premio più prelibato sarebbe stato far rimangiare a quella cretina di Sandy tutte le schifose parole con cui aveva appellato il suo bambino.

Arthur si spostò sul sedile, armeggiò con la cintura di sicurezza, ma non la sganciò. Si girò a guardare fuori dal finestrino, rivolgendo alla madre la nuca coperta da corti capelli bruni. Gli stessi di suo padre. Dio, quanto gli assomigliava.

«Ti aspetto in macchina,» le disse, con tono noncurante.

Alexia sentì il fortissimo stimolo di afferrare la capigliatura del figlio e tirarlo per la testa fino a fargli alzare quel culo grasso dal sedile dell'auto.

Invece, con un fremito delle labbra, disse:

«Arthur, dobbiamo cercare Justin insieme.»

Il ragazzo scrollò le spalle, ma non si voltò a guardarla.

«Non voglio trovarlo. Non mi interessa tutta questa storia,» sussurrò esitante, come se stesse dicendo una parolaccia molto grave.

Alexia chiuse gli occhi e si prese il tempo necessario per soffocare l'impeto di rabbia che la stava per travolgere. Era tutto suo padre: quella scarsa propensione al darsi da fare, quella noncuranza e indifferenza... le sembrava di vedere l'ex marito nei mesi precedenti al divorzio. No, non era ancora detta l'ultima parola! Arthur poteva ancora essere salvato, poteva crescere e diventare un uomo diverso da lui. Era sua responsabilità, era il compito di una madre indirizzare il proprio figlio e mostrargli la strada corretta, e di nessun altro. Con pazienza e amore gli avrebbe fatto capire quale fosse il modo migliore per affrontare la vita, solo lei poteva riuscirci.

«D'accordo, tesoro,» disse, dopo un lungo sospiro. «Torno subito, chiamami se hai bisogno.»

Arthur mugugnò come segno d'assenso, e tirò fuori dalla tasca dei bermuda di jeans il suo smartphone.

Con un ultimo sguardo carico di risentimento malcelato, Alexia aprì lo sportello e uscì dall'auto. La pioggia di quel pomeriggio si era placata e al suo posto si era alzato un venticello piacevole che sembrava spazzare via l'umidità di quella giornata estiva; il cielo era costellato da chiazze grigie di nuvole su cui il sole calante allungava i colori caldi del tramonto.

Il pub verso cui Alexia si stava facendo strada era stato ricavato da una bassa casupola di campagna in mattoni una volta bianchi, l'unica nota di colore era relegata al tetto a punta ricoperto da tegole rosse. Sopra la porta d'ingresso pendeva l'insegna incrostata dalle intemperie che recitava: The Two Horseshoes. Un paio di finestre dai vetri sporchi lasciavano intravedere l'interno: le luci accese illuminavano un paio di tavoli ai quali un gruppetto di uomini attempati chiacchierava e sorseggiava delle pinte di birra. La donna si fermò sulla soglia, appoggiò la mano sulla superficie del battente di legno ruvido ed esitò per qualche istante; valeva davvero la pena provarci? Le possibilità che qualcuno lì dentro avesse visto Justin erano molto scarse, rischiava di perdere tempo in quel posto mentre il ripugnante nipote se la dava a gambe verso chissà quale lido.

Sbuffò e sbirciò, fugace, verso l'auto: oltre il parabrezza riusciva a scorgere la sagoma della nuca di suo figlio. Doveva farlo per lui, perché solo lei poteva aiutarlo. Si sistemò una ciocca bionda dietro l'orecchio, aggiustò la camicetta color panna e spalancò la porta con un gesto deciso.

Dentro il pub faceva caldo e la puzza di alcool e di sudore permeava l'ambiente, così intensa che poteva ormai essersi attaccata all'intonaco delle pareti. Dei cinque tavoli di legno consunto, soltanto due erano occupati, e una corpulenta donnona la fissava con occhi arcigni dall'altro lato del bancone lucido. Mentre Alexia faceva alcuni esitanti passi all'interno, captò il bisbiglio di un buzzurro stravaccato su una delle sedie a pochi metri da lei, ma decise che avrebbe lasciato correre il volgare apprezzamento che aveva fatto ai suoi compari, almeno per il momento. Non avrebbe ottenuto nulla se si fosse messa a lanciare incantesimi addosso ai locali fin dal primo momento.

Si avvicinò al bancone e prese posto su un alto sgabello piazzato lì davanti; appoggiò i gomiti alla superficie di legno e sorrise alla barista, che però ricambio solo con il silenzio e con un'occhiata diffidente. Se solo fosse stata libera di fare quello che desiderava, tutti quegli schifosi vermi si sarebbero chinati a leccare il pavimento dove camminava. Ah, ma un giorno tante cose sarebbero cambiate, doveva solo aspettare e dare fiducia ad Alexander.

«Buonasera,» esordì Alexia, dissimulando le sue cruente fantasie dietro un'amabile dentatura candida. «Avrei bisogno di alcune informazioni.»

La donna tirò su con il naso e si grattò la fronte, poi abbassò il volto e mugugnò:

«Non vuole niente da bere?»

Alexia contrasse la mascella e sentì la dentatura scricchiolare per la pressione. Come generata dal desiderio che stava a fatica reprimendo, la magia iniziò a percorrerle la pelle del braccio e si sentì i peli radi rizzarsi sotto le maniche della camicia leggera di cotone. Sarebbe stato meraviglioso lasciare esplodere il potere e ridurre quel posto a un cratere fumante, ma poi papà l'avrebbe rivoltata come un calzino; con tutto quello che stava succedendo nel mondo e dopo il casino che l'affare Dove aveva scatenato, i Servizi Segreti della Corona stavano addosso ai maghi come dei fottuti segugi durante una battuta di caccia. Usare la magia in pubblico sarebbe stata una mossa autodistruttiva, ancora di più se l'avesse usata così vicino a casa.

Inclinò la testa e socchiuse le palpebre, sempre fissando la barista.

«Un caffè, per favore,» le rispose.

La donna fece spallucce e si voltò verso la massiccia macchina del caffè appoggiata contro la parete a specchio, coperta per intero da file e file di bottiglie di liquori e alcolici. Mentre la barista le preparava il caffè, Alexia si voltò e fece appena in tempo a notare le teste di quattro uomini che si giravano per distogliere lo sguardo dalla sua schiena. Non voleva stare in quel posto un secondo più del necessario, o sentiva che avrebbe dato libero sfogo alla voglia di distruzione che continuava a tentarla.

«Sto cercando un ragazzo,» disse Alexia, tornando a spostare l'attenzione sulla donna che stava riempiendo la tazza candida di caffè acquoso.

La barista appoggiò con noncuranza la tazza davanti alla bionda e le rivolse una singola occhiata di fastidio, prima di tornare a darle le spalle.

«Non ci sono ragazzi qui, come può vedere da sola,» rispose con tono seccato.

Alexia sospirò e bevve un sorso di caffè; faceva davvero schifo, uno dei peggiori che avesse mai bevuto in quella zona del Regno Unito. Se si fosse trovata in una situazione diversa, avrebbe afferrato la tazza e l'avrebbe scagliata sulla testa di quella stronza che aveva avuto il coraggio di servirle quel mefitico intruglio. Invece rabbrividì, trattenne a stento una smorfia di disgusto, e tornò ad appoggiare il contenitore candido sul piattino coordinato.

«Nei giorni scorsi non ha notato un ragazzo biondo passare di qui?» incalzò la Maverick.

La donnona si girò a guardarla e scosse la testa con estrema lentezza.

«No, nessun ragazzo biondo qui. Ha finito il caffè?»

Alexia non avrebbe sopportato altro. Se fosse stata discreta, nessuno avrebbe notato nulla.

La magia avvolse la nuca della barista e, nella frazione di un pensiero, le penetrò oltre la calotta cranica, abbracciando la materia cerebrale della polvera malcapitata. Tutto era connesso alla Rete, ogni cosa che fosse magica e non; per quel motivo, chiunque fosse in grado di manipolare le energie magiche poteva comandare e controllare qualsiasi aspetto della realtà. Ad Alexia non era mai interessato cambiare fisicamente il mondo; che bisogno c'era di scolpire una nuova realtà, quando poteva fare la stessa cosa con le menti umane?

Scavò con insistenza e violenza nel cervello della donna, che la fissava con le pupille dilatate e un sottile rivolo di bava che le pendeva dall'angolo della bocca. Ripercorse ogni suo ricordo, ogni momento bello e brutto della vita di quella povera derelitta; ne scoprì ogni segreto e fobia, e si annotò le perversioni più segrete, anche quelle che erano ancora ignote persino a lei stessa. Beverly (così si chiamava la barista che aveva avuto la sfortunata idea di far incazzare Alexia Maverick) era stata felice fino a dieci anni prima, era addirittura sposata; poi aveva scoperto il marito a letto con un altro uomo e il divorzio conseguente l'aveva ridotta sul limitare della depressione. Da qualche anno non sperimentava alcuna gioia, se non tornare a casa dopo una giornata di lavoro e svaccarsi davanti al computer a guardare video porno di omosessuali, rivivendo in ogni giorno di quella monotona vita l'immagine di suo marito che la tradiva. Non si masturbava neanche mentre guardava i porno; non lo faceva per trarne piacere erotico: era come un rito per lei, una punizione, perché non si sentiva abbastanza donna per lui, che l'aveva trovata così ributtante da cambiare inclinazione sessuale pur di non averla tra i piedi.

Alexia si mordicchiò il labbro e picchiettò con l'unghia perfettamente smaltata sul bordo del piattino, mentre studiava le immagini mentali che le vorticavano nella testa. Una parte di lei provò qualcosa che si avvicinava al dispiacere davanti alla vita misera e priva di prospettive di Beverly, ma era la parte più recondita e sopita della sua persona, quella che era stata soppressa in anni e anni di educazione da parte del duro Alexander. In ogni caso, la barista aveva ragione: non aveva mai visto Justin, nei suoi ricordi non c'era traccia di quell'irritante biondino e della volpe del cazzo. Tanto rumore per nulla; aveva perso una preziosa mezz'ora soltanto per fare un buco nell'acqua.

Osservò per un istante il volto svuotato e spento di Beverly e sbatté la nocca dell'indice contro il bancone, mentre un moto di stizza la percorreva. Cazzo, non poteva punirla più di quanto quella donna non avesse già fatto da sola! Non era un animale, in fondo, e un minimo di solidarietà tra donne era il minimo.

Ciò che Alexia adorava della magia d'ipnosi era la possibilità di distruggere e ricostruire ciò che desiderava nel cervello di un individuo; il suo potere era tale da permetterle di prendere chiunque e trasformarlo in un soggetto del tutto diversa nel giro di pochi istanti. L'anima non esisteva: ciò che definiva una persona era solo la mente, nient'altro. Prendi un uomo, modificane il modo di pensare e avrei dato vita a un essere vivente diverso. Quello era la definizione di potere: creare la vita a proprio piacimento.

Alexia non fece comunque nulla di tutto quello: si limitò a riscrivere soltanto alcune informazioni nella psiche violata della povera Beverly. Le insegnò a fare un caffè bevibile e decise che, alla vista di due uomini nudi, sarebbe stata soverchiata da un incontenibile moto di nausea che l'avrebbe costretta in bagno. Le sarebbe passata la voglia di farsi del male e di ricordare il tradimento dell'ex marito. Come tocco finale le inscrisse nel cervello un'innata lascivia nei confronti della masturbazione, perché lo sanno tutti quanti: un bel lavoro di mano è quello che ci vuole per una donna, quando deve rilassarsi e dimenticare le difficoltà della vita.

Soddisfatta del suo lavoro, ritrasse la magia dalla nuca rossiccia della barista, che crollò riversa sul bancone, come in preda a un improvviso mancamento. La lasciò così: boccheggiante e sudata. Alexia si alzò in piedi, estrasse un paio di sterline e le lasciò cadere di fianco alla tazza piena di caffè. Liberò lo sgabello e se ne andò senza degnare Beverly né di un cenno, né di un saluto. Era stata fin troppo tenera con quella stronza e preferiva andarsene prima di cambiare idea.

Pareva che nessuno degli avventori del locale si fosse accorto di ciò che era appena accaduto a pochi metri da loro; alcuni uomini di mezza età ridacchiavano intorno ai loro drink e ascoltavano il racconto di un infervorato vecchietto dalle gote arrossate dal caldo e, senza dubbio, dall'alcool.

«... ed ecco che mi sfreccia davanti questa meraviglia di macchina, a velocità pazzesca. Cazzo, vi giuro che pensavo che mi avrebbe preso in pieno!»

Uno dei suoi compari sbatté il bicchiere sul tavolo e tossì.

«Te la sarai sognata; che cazzo dovrebbe farci un'Aston Martin qui a Coneysthorpe?» chiese al vecchietto.

«Non era a Coneysthorpe, imbecille,» ribatté lui, tirando uno schiaffo alla spalla dell'amico di bevute. «Guidava giù per The Stray come se fosse inseguito!»

Alexia si bloccò di scatto, una vampata di calore le percorse tutto il corpo, partendo dalle caviglie e fermandosi sulla sommità della nuca. Si voltò di scatto, un brivido le percorreva la schiena mentre divorava a larghe falcate i pochi metri che la separavano dal tavolo dove il vecchio ubriacone stava seduto.

Lo prese per le spalle e lo costrinse a voltarsi verso di lei, mentre l'intero locale veniva inghiottito da un silenzio basito.

«Che cosa hai detto?» gli chiese la bionda, trafiggendolo con i suoi occhi ghiacciati.

Lui balbettò qualcosa d'incomprensibile e Alexia iniziò a richiamare la magia per frugare anche nel suo cervello annacquato dalla birra; per fortuna l'uomo si salvò all'ultimo momento, perché sbatté le palpebre e riuscì a formulare una frase corretta.

«Ho detto che ci mancava un istante che riducesse la mia povera Fiesta a un rottame, tanto correva,» mormorò, terrorizzato alla vista di quella bionda che lo fissava con i bulbi oculari che minacciavano di schizzarle fuori dalle orbite da un momento all'altro.

«Dove e quando?» incalzò lei.

«Ieri sera, saranno state le sei. Tornavo da Bulmer e...»

«Non me ne frega un cazzo, dimmi dove l'hai vista e dove stava andando.»

L'uomo esitò e i suoi compagni si scambiarono degli sguardi tesi.

«Era l'incrocio tra The Stray e Welburn Road, l'Aston Martin ha tagliato lo svincolo a velocità da pazzi e ha imboccato Mains Lane verso l'autostrada,» rispose l'uomo, visibilmente a disagio.

Alexia rimase in silenzio qualche attimo, accarezzando di nuovo l'idea di perforare il cervello di quello schifoso ubriacone e strappargli le immagini che le servivano; alla fine decise che era sufficiente, lasciò andare le spalle dell'uomo e si allontanò a grandi passi, imboccando la porta e uscendo a respirare aria pulita.

Era la prima traccia tangibile che aveva trovato di Justin in tutta quella giornata di ricerche. Non era molto, ma era qualcosa da cui iniziare e, paradossalmente, le permetteva di escludere molti posti in cui cercare il suo odioso nipote. L'autostrada tagliava trasversalmente il paese e Alexia dubitava che Justin avesse preso quella strada verso nord-est: la città più grande era Scarborough, ma era sicura che lui non avesse alcuna conoscenza o aggancio in quel luogo. No, era più probabile che avesse preso l'A64 in direzione di York, ma Alexia aveva già setacciato la città per tutta la mattina e nessuno aveva visto l'irritante biondino o la volpe che lo seguiva sempre. Aveva anche cercato tracce di magia, ma non aveva percepito alcuna aura legata a incantesimi, segno inconfutabile che Justin non avesse percorso neanche un viottolo di York.

Si fermò davanti allo sportello della sua Mondeo e rimase a riflettere qualche secondo, voleva salire in auto sapendo già quale sarebbe stata la prossima mossa. Se Justin aveva preso l'A64, ma non si era fermato a York, dove sarebbe potuto andare? Beh, potenzialmente in qualsiasi luogo, ma quale sarebbe stato il più sensato? Doveva ragionare come il ratto fuggitivo che era lui, provare a pensare allo stesso modo, arrivare agli stessi processi mentali che lo stavano muovendo. Sono un ragazzino, tutti mi odiano e ho appena ucciso la moglie di mio padre; dove posso scappare per sentirmi al sicuro dalle grinfie della mia famiglia di potentissimi maghi? Il più lontano possibile, senza dubbio. Il che poteva condurla addirittura a Londra, se avesse voluto, ma sarebbe stato abbastanza?

All'improvviso la mano le si serrò intorno alla maniglia, le dita contratte per il nervosismo e il terrore, mentre la tremenda consapevolezza le si faceva strada nella mente. Cazzo, era la cosa più ovvia del mondo. La famiglia Maverick poteva dire di avere il controllo su tutto il Regno Unito, forse persino su gran parte dell'Europa; perché quindi rimanere sul territorio nazionale?

Se Justin voleva scappare per davvero da loro, avrebbe dovuto prendere il primo volo per la nazione più lontana possibile.

Ci era arrivata troppo tardi. Per quel che ne sapeva, suo nipote poteva già essere in costume da bagno su una spiaggia affacciata sull'oceano indiano.

Aprì la portiera e si sedette sul sedile davanti al volante, sbattendo lo sportello con ira e facendo sobbalzare Arthur.

«Mamma, va tutto bene?» chiese, osservando con occhi sgranati la madre che, con gesti secchi, aveva acceso l'auto e stava ingranando la retromarcia.

«Sì, tesoro,» rispose, con voce strozzata. «Preparati, perché guideremo tutta la notte.»

«Tutta la notte?» proruppe Arthur, spalancando la bocca, sgomento.

«Sì, caro, tutta la notte,» ripeté Alexia, voltando l'auto e imboccando la via asfaltata.

Serrò il volante e le unghie quasi penetrarono la superficie del costoso rivestimento. Serrò la mascella e piantò le pupille sull'asfalto oltre il parabrezza.

«Nonpossiamo più perdere un solo secondo,» disse, più a sé stessa che a suo figlio.«Justin ci sta sfuggendo dalle dita.»

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