Capitolo 7. Hacking all'italiana (1)

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Non si poteva negare che la capitale avesse il suo fascino.

Molti stranieri immaginavano Londra come una città grigia e triste, caotica e disordinata; questa valutazione era causata, forse, anche dai numerosi film e romanzi che la ritraevano in quel modo, dando una percezione snaturata, seppur poetica, a chi poteva solo fantasticare di percorrere le viuzze della metropoli inglese.

Sandy, invece, adorava Londra. Se fosse dipeso soltanto da lei, avrebbe preso un bell'appartamento con vista su Regent Park, o magari vicino a Marble Arch, nella peggiore delle ipotesi, e avrebbe passato lì il resto della vita, a contemplare quel fluire di esseri umani che scorreva nelle vie sotto di lei. Teoricamente parlando, nulla glielo impediva: qualsiasi Maverick era abbastanza ricco da non avere bisogno di lavorare per pagarsi l'affitto. Un Maverick era sempre superiore alle regole a cui le persone normali erano abituate, ma, purtroppo, era costretto a sottostare a obblighi di diversa natura.

Le sarebbe tanto piaciuto allontanarsi da quella maledetta villa nel North Yorkshire e trasferirsi a Londra, scrivere il suo blog e pubblicare le foto di Eugene per il resto dei suoi giorni, ma proprio non poteva farlo, perché la famiglia veniva prima di qualsiasi altra cosa. Quando aveva preso la laurea in letteratura inglese, il massimo che era stato concesso a lei e al gemello era stato di prendere casa a York, e lei aveva accettato senza neanche pensarci. Era un buon compromesso, tutto sommato: erano abbastanza lontani da sentirsi autonomi, ma abbastanza vicini da poter essere sempre a contatto con il resto della famiglia.

Eppure, mentre il taxi che aveva preso con Eugene camminava placido attraverso il traffico del centro di Londra, osservare fuori dal finestrino e constatare che cosa non avrebbe mai potuto avere le metteva una grandissima tristezza. Molte altre persone sarebbero inorridite vedendo ciò in cui lei si era ritrovata: intorno a lei solo una caleidoscopica immensità lucente di auto, rombanti sotto la luce rovente del sole. Ogni tanto un clacson fendeva il rumore di scarichi e motori che riempiva l'aria, aggiungendo una nota più colorita a quella sinfonia meccanica che faceva da colonna sonora a Marylebone Road in piena ora di punta.

Molti avrebbero picchiettato il dito sulla gamba o sul volante per scaricare il nervosismo, constatando che ci sarebbero voluti almeno altri quindici minuti per percorrere i cento metri che li separava da quel nefasto semaforo; alcuni avrebbero sbuffato, maledicendo il giorno in cui avevano avuto l'idea di merda di infilarsi nel traffico londinese a quell'ora. Tantissime persone avrebbero dato qualsiasi cosa per non trovarsi nei panni di Sandy in quel momento, forse persino Eugene, che muoveva su e giù il ginocchio con aria agitata, osservando un graffio piuttosto interessante nel rivestimento dello schienale del sedile che aveva di fronte.

Ma Sandy no. Sandy era esattamente dove aveva sempre desiderato essere. Perdersi nel caos e nella frenesia della capitale, vedere il tempo scorrere lento e placido mentre si era in coda a un semaforo che sembrava non diventare mai verde, respirare quell'aria viziata di scarichi e città e riempirsi le orecchie di rumori sgradevoli e clacson molesti. Vivere, solo vivere e, per una volta, provare a essere una di loro, una di quelle semplici persone sedute nella loro city car a bestemmiare perché tutta quella gente poteva prendere la metropolitana invece che infilarsi in auto e alimentare il traffico. Cosa non avrebbe dato per essere una di loro.

Ma aveva una possibilità. Ci aveva riflettuto per tutta la notte precedente e pure al funerale non era riuscita a rimanere abbastanza concentrata sulla funzione, troppo intenta a rimuginare sul piano che si stava delineando nel suo cervello vulcanico. Il vecchio le aveva dato una chance: era la sua unica possibilità per conquistare la vita che aveva sempre voluto. Essere il capo della famiglia Maverick? Che grande cazzata, a chi poteva mai importare? E poi perché desiderare qualcosa che non avrebbe mai potuto condividere con il gemello? Avevano sempre fatto a metà di qualsiasi cosa (tranne che dei rispettivi fidanzati, ovvio), avevano sempre condiviso ogni idea, gioia, dolore, traguardo; che senso aveva quella ridicola caccia di famiglia se non poteva spartire la vittoria con Eugene? Il vecchio Alexander non gliel'avrebbe mai permesso, perché ciò che lui pronunciava era legge: uno di loro avrebbe trionfato sugli altri; quei suoi antichi occhi splendevano di malvagità e perversione mentre pronunciava quelle parole, fissandola intensamente, ricordandole in silenzio che era giunto il momento, infine, in cui lei avrebbe dovuto dire addio a Eugene.

Invece no. Perché la famiglia viene sempre prima di qualsiasi altra cosa, e Eugene era la sua famiglia. Più del vecchio, più di papà, più di quello stronzo di Justin... più di qualsiasi altro essere vivente al mondo. E quindi Sandy aveva rimuginato e pianificato e, per la prima volta in molti anni, aveva fatto in modo di tenere il fratello fuori dalla testa, perché quel piano era per lei soltanto; lui non avrebbe capito e non avrebbe mai condiviso la sua idea, per questo doveva vincere quella competizione seguendo le regole del nonno, solo per poi ribaltarle in loro favore. Quando sarebbe stata l'erede designata dei Maverick, avrebbe avuto il potere che le serviva per prendersi ciò che desiderava più di qualsiasi altra cosa al mondo: avrebbe ceduto il suo ruolo a Eugene e si sarebbe ritirata a Londra, rinunciando a qualsiasi diritto che il suo essere Maverick le concedeva. Eugene sarebbe stato un ottimo capofamiglia e lei sarebbe stata libera una volta per tutte, libera di fare ciò che voleva e vivere la vita come una donna normale.

Ma, per farlo, doveva trovare Justin e riportarlo dal nonno. Pur di raggiungere il suo scopo, avrebbe schiacciato senza indugio il fratellastro e, con lui, chissà quante altre persone. Semplice: tutte quelle necessarie.

«Dio Santo, non poteva prendersi un appartamento in periferia?» sbottò Eugene, muovendosi a disagio sul comodo sedile del taxi.

Sandy sbatté le palpebre e si sistemò gli occhiali che le erano scivolati lungo il naso in quei lunghi minuti che aveva passato a fissare fuori dal finestrino, rapita.

«Stai scherzando, vero?» gli rispose, fulminandolo a fronte aggrottata. «Non hai idea di quanto io lo invidi!»

Eugene sbuffò e scrollò le spalle.

«La prossima volta prendiamo la metropolitana,» borbottò.

Sandy lo ignorò: era evidente che il gemello si fosse svegliato con il piede sbagliato e che si trovasse in uno dei suoi momenti da tipico uomo lamentoso e contestatorio; quando gli capitava, Sandy non perdeva mai occasione di richiamare dal repertorio d'insulti uno che aveva gentilmente preso in prestito dall'ultima fidanzata del fratello: "Eugene, quando fai così sei davvero uno spaccacoglioni!". Sandy non ricordava di aver mai riso così tanto, prima di quella sera, e si era persino quasi soffocata, iniziando a tossire come una pazza! Da quel giorno, lo spaccacoglioni era diventato l'appellativo con il quale riusciva a far capire al gemello che stava per far traboccare il vaso della sua sopportazione.

«Cazzo, non potevamo muoverci prima? Avremmo potuto evitare questo casino!» mugugnò Eugene.

Sandy sospirò, esasperata.

«Gene, te lo devo dire?» chiese, fissandolo seria.

Lui ricambiò lo sguardo di sfida, i loro occhi così identici sembrano riflettersi a vicenda in uno specchio; alla fine si voltò e tornò a guardare fuori dai vetri.

«No,» rispose, mesto. «Non ce n'è bisogno; me lo dico da solo: spaccacoglioni

«Ecco, bravo!» ribatté la sorella, ma non riuscì a rimanere seria a lungo: scoppiò a ridere dopo appena una manciata di secondi e Eugene fece lo stesso.

Era sempre così tra di loro: bastava un'occhiata, una parola, spesso soltanto un pensiero, e la tensione e il disagio scompariva, come se non fosse mai esistito. Era merito del loro legame, un filo invisibile ma tangibile che nessuno avrebbe mai avuto la forza di recidere. Insieme, loro due, erano più forti del cosmo stesso.

Rimasero in silenzio per il resto del travagliato tragitto lungo Marylebone Road, finché, una volta oltrepassato un semaforo, il taxista accostò la vettura sul lato della carreggiata. Erano arrivati all'angolo con Baker Street e, strizzando un po' la vista attraverso le spesse lenti, Sandy riuscì a scorgere la celeberrima statua del detective più famoso della storia.

Mentre apriva lo sportello, lasciando implicitamente a Eugene l'onere di saldare la lunga corsa in taxi, non riuscì a trattenere una sorta di commozione alla vista di quell'incrocio.

Non si poteva certo considerare Ettore Crespi una persona fortunata: viveva da solo, aveva dovuto abbandonare la sua vita precedente in Italia e si sarebbe sempre sentito uno straniero in una terra che non gli apparteneva, ma aveva un privilegio che Sandy gli invidiava con tutta sé stessa. Viveva a Baker Street, a pochi metri dal museo di Sherlock Holmes; se avesse voluto, avrebbe potuto entrare in quelle stanze in ogni momento del giorno, per il solo gusto di sentire quei meravigliosi racconti uscire dalle pagine di carta e prendere vita intorno a sé. Sandy adorava Sherlock Holmes, avrebbe ucciso per poter dire di abitare vicino al numero 221 di Baker Street.

Attese che il fratello la raggiungesse e rimase immobile a guardarsi intorno come una qualunque turista, con un sorriso ebete disegnato sul volto e le pupille lucide coperte dagli occhiali. Le camminava intorno un numero indefinito di persone, ignare di lei, dei suoi problemi e della sua vita; era la sensazione più bella del mondo, poter passeggiare in mezzo agli sconosciuti, senza essere giudicata o messa alla prova di continuo, senza doversi sforzare di essere migliore di quell'asiatico che scattava una foto al naso aquilino del signor Holmes.

«Ci sei?» le chiese Eugene, avvicinandosi e sfiorandole la schiena.

Lei si riscosse e sbatté le lunghe ciglia; era già la seconda volta che il gemello la scopriva a fantasticare a occhi aperti, doveva darsi un contegno. Sarebbe arrivato il tanto agognato momento in cui avrebbe potuto toccare le sue fantasie, ma prima doveva pensare a rendere reale quel percorso. Prima doveva trovare Justin.

«Andiamo,» disse al gemello, volgendo le spalle alla lontana silhouette del detective privato attorniata da un campanello di turisti.

Senza parlare, imboccarono Baker Street, percorrendo il marciapiede come un'affiatata coppietta durante il primo viaggio insieme. Pensandoci, non sarebbe stato difficile scambiarli per due innamorati: lei e Eugene erano sempre insieme. Forse era quello che dava fastidio al nonno: il sospetto che loro due, sempre così uniti e inseparabili, fossero legati anche da una relazione malsana che avrebbe potuto attirare voci e sguardi sulla famiglia. In realtà non era mai passato neanche nell'anticamera del cervello di entrambi di potersi vedere sotto quella luce: erano due semplici gemelli che condividevano un fortissimo legame. Certo, capitava ancora che, alcune notti, dormissero insieme, ma era un bisogno spirituale più che fisico; entrambi avevano la necessità di sentire l'altro vicino. Quando erano ragazzi, papà li aveva scoperti e aveva posto il veto su quella faccenda: la famiglia non poteva permettersi che nella loro comunità iniziassero a fiorire voci sulle presunte perversioni incestuosi dei primogeniti di David Maverick, e quella loro abitudine andava stroncata subito, prima che diventasse troppo radicata e pericolosa.

Erano stati anni pesanti, ma era bastato andarsene dalla schifosa villa per ritrovare la loro libertà: vivevano insieme a York, in un unico appartamento, con tre camere da letto, una cucina e due bagni. La casa era bella e spaziosa, e avrebbe fatto invidia a chiunque a York, ma, di quelle stanze, spesso due rimanevano inutilizzate; sentire il corpo caldo del gemello accanto a sé era l'unica cosa che permetteva a Sandy di dormire serena ogni notte.

Non dovettero camminare a lungo, perché la loro meta non era troppo distante dall'angolo con Melcombe Street. Il portone d'accesso al complesso di appartamenti si apriva direttamente sul marciapiede, sormontato da una tettoia di vetro e ferro battuto scuro, solo a pochi passi di distanza dalla sgargiante insegna di un modesto Baskin Robbins.

«Ci prendiamo un gelato dopo, vero?» chiese Eugene, con l'entusiasmo di un bambino, mentre Sandy scrutava il citofono, alla ricerca del nome del loro consulente informatico.

«Sì, Gene.» Sbuffò, scorrendo la lista di nomi fino a trovare l'evidente cognome italiano, l'unico della lunga colonna.

«Burro d'arachidi e cioccolato,» incalzò il fratello, trasognato, fissando l'insegna sporgente con un sinistro luccichio di cupidigia negli occhi.

«Troviamo Justin e potrai avere tutto il gelato del mondo,» sbottò Sandy, tirandogli un debole pugno sulla spalla per richiamare la sua attenzione.

Deficit dell'attenzione, un problema che sembrava accomunare ogni singolo maschio della Terra. Ci provavano a mantenere l'attenzione sull'obiettivo, potevano metterci tutta la loro buona volontà, ma non ne erano proprio capaci. Un qualsiasi uomo non sarebbe riuscito a mantenere la concentrazione sullo stesso compito per più di qualche minuto: la loro mente avrebbe iniziato a vagare, perdendosi nei meandri di discorsi stupidi tipo lo sport, l'ultimo vestito da troia di una cantante agli MTV Music Awards, o il cibo, l'immancabile cibo. Erano creature semplici, gli uomini: se non pensavano al sesso, allora erano concentrati sulla roba da mangiare.

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