2. Pheron

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Il giorno in cui arrivarono, non pensava che si sarebbe abituato facilmente.

Vedeva solo la sua promessa sposa, la sua tanto amata principessa che era riuscito a strappare per un pelo dalle grinfie del fratello; si ripeteva quanto fosse delicata e splendida, così drammaticamente imbronciata, la cui rabbia si celava nelle lacrime che versava quando non la guardava.

Non si era chiesto perché lo detestasse, non si sarebbe mai aspettato di trovarsi in una situazione tanto improvvisa quanto pungente.

Quel silenzio lo stava distruggendo. Divorando. In presenza della quiete che colmava ogni singolo istante, i pensieri diventavano improvvisamente aggressivi, pressanti. Erano molti più di quanto non credesse e, di quanto non riuscisse normalmente a gestirne.  

Si alzava presto tutte le mattine, percorreva i corridoi di roccia del palazzo montagna e arrivava fino al costone, che aveva incominciato a chiamare "Il salto". Era come una terrazza che dava sul deserto infinito. Si sedeva lì e contemplava a lungo. L'orizzonte pallido, l'aria ancora leggera dell'aurora, se stesso. Fu così che qualcosa cambiò.

Scoprì che l'alcol non lo attraeva più e per questo, abbandonò le sue bevande ai piedi del monte.

Scoprì che la carne degli animali non gli era più necessaria, e così liberò il cavallo e la capra in un oasi circostante.

Scoprì che la donna non era più importante per lui. La rinchiuse in una cella nelle profondità del labirinto, ove non sarebbe mai più potuta uscire.

Poiché l'alcol sarebbe evaporato, gli animali sarebbero morti, la donna l'avrebbe tradito.

I suoi pensieri, invece, erano l'essenza della sua vita. Si rese conto che li poteva sentire attorno a lui. Che erano lì, vivi.

In quel palazzo, un giorno in cui centinaia di nuvole grigie solcavano gli orizzonti, Pheron capì che quel luogo era abitato. Erano tremolanti e bianchicce figure d'oltretomba: gli spiriti degli antichi Dei. Aveva raggiunto tale livello di comprensione che poteva parlare con i morti.

Di questo non si stupì, ma il palazzo divenne improvvisamente vivace.

C'erano colori distinti e interessanti anche tra quelle pareti rossicce e ombrose; c'erano voci, suoni, rumori, taluni piacevoli e ipnotici, altri improvvisi e sgradevoli, a ogni orario del giorno e della notte, ognuno vero e vivido, pieno di significato.

C'era acqua che sgorgava ovunque lo desiderasse, c'erano cibo ed energia tanto intensa da consentirgli di non dormire mai.

C'era sempre qualcuno che lo confortasse se si sentiva solo, c'era sempre qualcuno che gli mostrava un posto nuovo qual'ora lo desiderasse, c'era sempre qualcuno che scambiasse con lui parole, di qualsiasi sorta fossero o che gli tenesse semplicemente compagnia, se era quello che voleva. Molti erano i nomi, e lui, li stava memorizzando tutti. Bastava un sussurro e la presenza era immediata, di fianco, o di fronte, o lontana nello spazio, ma vicina nelle distanze della mente.

Quando lo voleva, tutto era luce.

Quando lo voleva, tutto era buio.

Quando voleva, tutto era suono, immagine, forma, idea, odore, emozione. 

Una sola cosa fuggiva al suo controllo, se ne stava appena un passo fuori dalla sua portata.

Una pulsazione insolita, che veniva e andava senza preavviso, dietro alla nuca.

Per quanto cercasse di scacciarla, era sempre in attesa, vani i tentativi di ignorarla, lei tornava, imperterrita.

Era rabbia, profonda come le radici del monte stesso.








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