3. Nadira

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Quanti problemi si erano presentati nel giro di pochi giorni. Constatarlo non era certo tra le soluzioni, ma non sapevo bene cosa altro fare.

Il soffitto alto e le pareti sinuose striate di diverse tonalità di giallo, rosso e arancio, erano un altro modo un po' meno pessimista di vedere la mia prigione.

Una prigione senza confini, nella quale, fiochi bagliori abbattevano la solitudine, danzanti qui e là. Durante quel soggiorno forzato mi ero spesso chiesta che fossero, ma non avevo trovato risposta logica.

Erano tondi semi trasparenti, al cui centro pulsavano luci multicolori. Prima che riuscissi a toccarli, svanivano.

Se mi spostavo lungo i corridoi tortuosi, essi mi seguivano.

Un po' la cosa mi dava sicurezza. Quando si è disorientati, una certezza a cui aggrapparsi potrebbe essere l'unica certezza di non essere ancora morti. La certezza di non rimanere da sola al buio era tutto ciò di cui necessitavo.

Avevo appurato che vagare per il labirinto era inutile. Ogni volta che credevo di aver trovato l'uscita, puntualmente mi trovavo delusa. Non c'erano tante cose, lì con me. Sabbia arancione sul terreno, aria fredda e stantia lungo le gallerie e quei cosi splendenti che andavano e venivano.

Non so bene descrivere quanto tempo fosse passato, dato che non mi veniva mai fame, né sete. Il sonno era solo un modo come un altro per fuggire dalla realtà, ma era tanto inquieto, che presto smisi anche solo di provare a riposare. Per non ascoltare il silenzio, rannicchiavo le mie gambe contro il petto e le stringevo tra le braccia, immergendomi in ciò che era stato. Non facevo altro, minuto per minuto, che vivere e rivivere quei ricordi.

La porta era in legno massiccio, scuro. Di fronte a me, alta il doppio e larga più di quanto non potessi aprire le braccia. Avevo bussato piano, con le nocche. Avevo avuto paura di disturbarlo. Avevo sentito il suono secco del legno, seguito da un mormorio. Allora mi ero dovuta fare avanti, altrimenti, l'educazione e il riguardo per il prossimo mi avrebbero impedito di fare un ulteriore passo. Ero entrata. L'intenzione in me era quella di parlargli chiaramente, con un obiettivo. Non sapevo perché fosse tornato, ma non era gradita la sua presenza a palazzo. Suo fratello parlava nient'altro che di lui e ogni istante era rovinato, rovinato dal suo nome, come un eco riempiva le mie giornate.

Rogan. Da te ero venuta per ingannarti. Le mie parole erano state quelle di vittima desolata, quando ti avevo attirato vicino, sul letto di quella stanza in cui trascorrevi quasi interamente le tue ore.

Le mie intenzioni, anche quando le labbra continuando a muoversi avevano smesso di produrre suoni per produrre emozioni, erano rimaste invariate. Quella notte, condivisi con te in maniera così intima che prima d'ora non avevo fatto. Eppure, volevo solo far sì che tu arrivassi fino in fondo, alla notte, alla stalla, ove tuo fratello ti avrebbe ucciso.

Ove io sarei fuggita con lui e, ogni colpa addosso a te sarebbe ricaduta.

Dietro di noi non sarebbe rimasto più niente.

La polvere e il tempo hanno cancellato ogni traccia, abbiamo visto i monti sorgere sotto un cielo cremisi.

Il deserto era una piana desolata, molto diversa da ciò che avevo sempre conosciuto. L'acqua finì, il cibo finì. Il caldo e il freddo, s'impossessarono delle nostre vite. Era una lotta continua, mentre avanzavamo sulla sabbia rovente.

Come potevo gioire in quell'inferno? Pheron pretendeva che gli rivolgessi almeno un sorriso, ma non riuscivo. Mi era impossibile. Era tutto troppo diverso.

Vivevo passivamente. Mi sforzavo di procedere un passo dopo l'altro, dietro il cavallo e la capra, incitata dall'uomo che ammiravo e amavo interamente. Alle sue parole rispondevo con smorfie o cenni, all'inizio. Poi, mentre l'agonia aumentava, mi limitai ad ascoltare. Lui invece, che tanto era forte, robusto e determinato, parlò. Parlò ogni istante di quel cammino infinito, parlò alzando la voce, come se qualcuno lo potesse sentire. Parlò accusandomi, accusando me del suo dolore, della sua sofferenza. Non ridevo abbastanza, non facevo nulla per alleviare quel malessere. Diceva che stava facendo ogni cosa per me e io non mostravo la mia gratitudine. Che se avesse saputo che non lo volevo, lui avrebbe vissuto meglio sin da subito. Diceva che mi odiava perché la mia pelle era arrossata, scottata da un sole feroce, che i miei capelli erano pieni di granelli gialli, le mie labbra screpolate. Ero diventata una strega. Una strega infelice e cattiva.

Il mio cuore si gonfiò di tristezza. Sentivo un gran peso che mi riempiva il petto e arrivava fino al limite della gola. Come se tutte le lacrime, per non finire evaporate sulle mie guance, si fossero rifugiate dentro.

Un giorno, tutto finì. Entrammo in una grotta, che io non sapevo essere la nostra meta. Salimmo, salimmo in alto, fino alla cima di quel palazzo montagna e, trovammo cibo, acqua. Quel posto era un'oasi segreta incastonata nella roccia. Un giardino rigoglioso cresceva lungo le pareti verticali, in ogni piano un tipo di frutto diverso. Ricavammo le nostre stanze, appartate l'una dall'altra, da quel giorno smettemo di frequentarci. Io piansi, piansi a lungo, piansi tutto ciò che potevo, finché non fui certa che anche il più piccolo di quei maledetti granelli di sabbia, fosse lavato via dal mio animo. Lui sparì.

Ritornò un giorno a trovarmi. Era tremendamente cambiato, e quello sguardo. Come potevo riconoscerlo? Era magro, vestito d'una tonaca chiara, d'una stoffa tanto lucente da riflettere raggi di luce inesistenti nella penombra della grotta. Il suo viso era scavato, i suoi occhi quelli d'un folle. Sapevo che era lui, ma non era più l'uomo di cui mi ero innamorata. Forse, mi resi conto, non lo era mai stato.

La cosa più sorprendente fu come parlò. La sua voce era profonda come sempre, ma pulita e musicale come mai prima. Disse che aveva trovato una nuova strada, che aveva trovato una guida. Era strano, molto strano. Agitava le braccia in gesti ampi, scattanti, ogni volta diversi. Si piegava su se stesso e tossiva, tossiva tanto forte.  Rialzava lo sguardo su di me e sussurava qualcosa.

Si avvicinò, mi afferrò per un polso e mi strattonò a lui. Appoggiò le proprie mani sui miei fianchi. Ci guardammo a lungo, occhi negli occhi. Volevo avere paura, volevo poter reagire a quella presa fredda e inamovibile, ma non ci riuscii. I nostri respiri si sfiorarono, poi si ritrassero e poi si unirono ancora. I nostri battiti si incontrarono, si ascoltarono e poi ripartirono all'unisono. Un brivido s'accese sulla nuca e corse giù, lento lento fino alla fine della schiena.

Maledetta speranza.

Sapevo cosa avrebbe fatto, quando le sue mani incominciarono a correre lungo il mio corpo, e salirono, sulla mia pancia, attorno ai miei seni, accarezzando le braccia, passando sulla schiena e infine, nell'abbraccio che lo portò ancora più vicino. Sul collo, dove si soffermarono per qualche istante.

Le sue labbra si piegarono all'insù, in una smorfia terribile.

Se avessi avuto paura, mi sarei liberata, l'avrei respinto.

In un certo senso non mi stava facendo male. Non avrebbe potuto farmene in alcun modo.

Se avessi avuto paura, forse avrei sperimentato una vita migliore, alla luce del sole, alla voce del suono, alle carezze di un vento.

Aprii gli occhi. Il cuore non stava battendo. Avevo freddo ai piedi, la testa pesante.

Attorno a me quegli spettri. Dieci, undici. Ogni giorno ve ne era uno in più. Ogni giorno la medesima storia.

Scossi la testa, intorpidita. C'era qualcosa che non andava. Non era finita così.

Avevo la sensazione che lo stesso passato mio rifugio, mi stesse abbandonando.

Ogni giorno ve ne era un pezzetto in meno.





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