4. Rogan

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Le mani arrossate erano ricoperte da una patina di umidità. Le teneva avvolte alle briglie del dromedario che, con lievissimi sbuffi, fiatava pallide nuvole di fianco al suo volto. Un'odore stantio di erba secca aleggiava nella galleria, la quale, terminava orizzontalmente di fronte a loro, con una parete frastagliata di schegge. Proseguiva verticalmente in un camino spazioso, fino a toccare un tondo d'un caldo arancione, lassù.

L'uomo ciondolò per qualche istante. Legò l'animale a uno sperone, nascose le provviste tra alcuni sassi. Non c'era nessuno nei paraggi. Che silenzio. Tanto che ogni movimento, pure il più leggero dei passi, i suoi passi, degli stivaletti di cuoio sulla roccia dura, produceva un rimbombo infinito. Nessuno avrebbe toccato il suo cibo, ma chi gli avrebbe dato la certezza che nessuno lo avrebbe fatto? Sarebbe stato davvero ridicolo se qualcuno fosse passato di lì proprio dopo il suo transito e avesse cercato nelle bisacce. Certo che sarebbero state bisacce abbandonate, magari il dromedario sarebbe scappato, nel frattempo, o peggio, morto. Cosa ne sapeva di quanto sarebbe rimasto lontano.

S'affrettò a passare le briglie dell'animale attorno a uno sperone, strattonandolo poi per testarne la robustezza e, ancora non contento, prese una manciata di erba secca e la depose accanto a esso. S'allontanò. Giusto per ritornare sui suoi passi qualche istante dopo, pescando dalle sacche un paio di mele e lasciandole per terra insieme all'erba.

Si asciugò il sudore dai palmi, sfregandoli sulla camicia e incominciò a salire.

I pioli erano intagliati nella roccia, spesso gli appigli mancavano o erano troppo lisci e scivolosi. Si doveva muovere con cautela, per questo impiegò molto tempo per raggiungere il primo piano.

Era un salone freddo, già a parecchi metri dal suolo, ma non abbastanza per abbandonarne le caratteristiche. Granelli di sabbia ricoprivano ogni cosa, dal pavimento ai pochi mobili fatiscenti che erano stati allineati senza logica alle pareti circolari. Era disseminata dei più disparati oggetti: ossa, piccole piante sradicate, monete, armi, semplici pezzi di legno o brandelli di stoffa. Quando arrivava la bufera, i vortici risalivano fin lì, depositando qualsiasi cosa che capitasse nelle loro spire.

Il secondo piano, oltre a essere un po' più ampio e caldo, non lasciava comunque spazio a tanta immaginazione. Quel luogo era stato abbandonato da moltissimo tempo e nessuno vi aveva fatto più ingresso da secoli. Proprio come nelle leggende. "La dimora degli dei caduti e anch'essa caduta, poiché una dimora senza il proprio abitante, è solo guscio decorativo." Quante volte aveva sentito quel canto? Per intero nemmeno tante, ma faceva talmente parte della loro tradizione che era normale ascoltare pezzi, recitati dai bambini gioiosi per strada, dalle donne indaffarate al mercato, o dai vecchi nostalgici, certe sere attorno a un fuoco ardente, seduti tra un pubblico di ogni età. "Cosa fecero i nostri signori, quella volta che il vento smise di soffiare, il sole di ardere, la luna di brillare e la giornata rimase a metà?" pensò ad alta voce. Riprese la propria salita.

"Andarono sulla cima del mondo, ove l'orizzonte univa il cielo e la terra, e i colori erano i medesimi, sia sopra che sotto. I primi furono: Sph'bo, che silenzio, che ardore, nel suo nome un altro nome, nel suo pugno una nazione, ognuno a lui la devozione; Qifs'po, quindi a egli il rispetto, per aver creato tutto, il suo nome è perfetto, ogni nemico sarà distrutto; Obels'b, che per ogni suo dono, un inchino è dovuto, ha dato a noi il perdono, il suo nome sarà compiuto".

L'ultima sillaba e la conseguente nota si sospesero nell'aria, all'arrivo del terzo piano. Se sbirciando appena oltre il bordo si era tranquillizzato, perché l'impressione era stata quella di altra spettrale solitudine, ora, l'immagine era decisamente differente. Uno sbaglio, una conclusione affrettata.

Colonne naturali di roccia erano disseminate nell'enormità di quel livello. Una luce gialla color pastello si diffondeva omogeneamente, come se fosse l'aria stessa ad avere quel colore, quasi opaco. Il soffitto alto permetteva la crescita di rigogliose palme da frutto e cactus. Il gorgoglio di un ruscello arrivò improvvisamente alle sue orecchie. Poi lo starnazzio di alcuni pappagalli che, turbinanti, attravesarono la grotta in una sfilata multicolore. Il sussurrare leggero del vento, il ronzio delle api, su aiuole di fiori profumati.

Sentieri partivano ai suoi piedi e s'intrecciavano tra di loro, per una meta che non conosceva.

Aveva dubitato, Rogan se ne pentì.

Non si era mai chiesto il significato dei canti del suo popolo.

Non si era mai domandato quanto fossero reali. Erano solo racconti e, la loro tradizione, si basava su una cieca fiducia.

Una fiducia che aveva sempre rispettato ed eseguito, con quel dubbio di sottofondo, che fosse bello crederci, ma nulla di concreto.

Non si chiese cosa avrebbe dovuto fare.

Sapeva che non era per lui quel posto.

Sapeva cosa stava cercando, sapeva che avrebbe saputo quando l'avrebbe trovato.

Nadira.

L'immagine di lei gli balenò nella mente. Chissà cosa le aveva fatto, quel bastardo.

Pheron.

Il suo ghigno era impresso, tra i suoi occhi e suoi pensieri. Chissà se si sarebbe aspettato di vederlo lì. 

I piani successivi furono vari, ricchi, vivaci, sgargianti. Ogni volta più vasti.

Con l'ultimo impeto, si issò oltre il bordo del settimo piano. Nessun livello oltre di lui. Nessuna scala che l'avrebbe portato più in alto.

L'assenza di nuvole, l'assenza di vento, l'assenza di un vero sole, che a quel punto era assottigliato laggiù, al limite della sua vista e lambiva di rosso le onde delle mutevoli dune.

Aveva compiuto un'impresa a dir poco leggendaria.

"Ognuno che riuscirà a guardare il mondo dal punto più alto, non riuscirà mai più a guardarlo in altro modo, poiché solo gli dei ne sono capaci e, chi ne è capace quindi, è pari a un dio"

Un dio?

Non era quello che sentiva dentro. Lo stomaco avvampò, le mani fremettero, il respiro fu più profondo. Era come un fuoco che lo divorava da dentro, il fuoco della soddisfazione, del piacere, del completamento.

Stava assaporando appieno il momento a venire. Una figura longilinea era a pochi passi da lui e gli dava le spalle.

Era diverso da colui che stava nei suoi ricordi, ma, si disse, il tempo cambia.

Una volta ci sarebbero stati neri capelli lunghi, naso rosso gonfio d'alcol, barba folta, scura, in treccine fino al petto, chili di troppo sull'addome, vesti esageratamente imbottite, sciabole e coltelli custoditi in ogni centimetro del suo corpo.

Infatti, era sempre colui che stava nei suoi ricordi.

Ne fu certo, quando l'uomo, accortosi di lui, si voltò e sorrise, con quel ghigno che Rogan, non aspettava altro di poter far sparire definitivamente con le proprie mani.





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