Malattia

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Il mio mondo è un miscuglio di contrasti e contrari nel quale si sommano e si differenziano, lasciandomi la maggior parte delle volte confusa: freddo come il ghiaccio, caldo come il fuoco, aspro come il limone, dolce come lo zucchero, doloroso come un pezzo di vetro e morbido come un cuscino. Non conosco il motivo di tutta questa confusione, ma dopo un po' ci ho imparato a convivere; questo è stato possibile anche grazie all'aiuto del mio migliore amico. Andrew è di un paio di anni più grande di me, con i capelli scuri e folti che incorniciano un viso illuminato da un paio di occhi blu elettrico. È simpatico, mi fa sempre ridere quando sono giù di morale, ma è anche capace di aiutarmi, diventando dolce in un modo quasi assurdo. È più alto di me di almeno una ventina di centimetri, infatti mi chiama la "sua piccola"; ha solo una caratteristica che lo differenzia dagli altri: ha una strana macchia sul braccio destro, come a marchiarlo, indicando il fatto che è speciale e unico al mondo. Per il resto potrebbe essere un qualunque ragazzo di città, che si potrebbe incontrare anche per le strade.
Io invece mi chiamo Bianca, proprio come la neve e la mia pelle; è talmente chiara che la gente crede sempre che io possa svenire da un momento all'altro. I capelli rosso fuoco mi ricadono in modo disordinato sulle spalle, mentre gli occhi di un verde brillante vogliono esplorare continuamente il mondo, seguiti da un viso dai lineamenti dolci spruzzato di lentiggini; mi piacciono, sono come tanti piccoli puntini che mi colorano la pelle, degli schizzi su una tela.
Entrambi abitiamo in un posto per ragazzi speciali, io ci sono dentro da ormai otto anni, ma lui è qua dentro da molto prima di me; quando sono arrivata Andrew era già seduto sul letto della camera a me assegnata, intento a guardare fuori dalla finestra. Mi ricordo ancora quando sono arrivata qui: mamma e papà mi avevano detto che era un bel posto, mi avrebbe aiutato a guarire dalla mia malattia; certo, ci sarebbero voluti anni prima di poter uscire di nuovo, ma un giorno sarei uscita di nuovo. È stata l'ultima volta che li ho visti, dopo non si sono più presentati neanche per farmi una piccola visita. I medici mi hanno rassicurato dicendo che era perché avevano poco tempo a loro disposizione, ma non sono stupida; non potevo neanche biasimarli però, che potevano fare loro di fronte ad una ragazzina di undici anni che piangeva perché voleva la mamma e il papà? Li avevo sentiti parlare del fatto che io ero un problema per loro, che non avrei fatto altro che rovinare la loro reputazione; allora, quale altra soluzione se non chiudermi in questo ospedale? L'unica cosa utile che avrei fatto sarebbe stata solo quella di fare pena. I medici hanno cercato di fare il possibile riguardo a ciò e per questo li ringrazio; però non sono sempre stati così gentili, o almeno, non tutti lo sono. Sebastian e Daisy sono sempre dolci con me, mi danno una mano e mi coccolano come se fossero i miei genitori, ma Justin non è così: quando siamo solo noi due mi picchia, rendendomi il viso gonfio e nero per gli ematomi, lividi scuri mi ricoprono braccia e gambe mentre il resto del corpo mi fa male in un modo incredibile; quei giorni in cui si vuole divertire, invece, gioca anche con il mio corpo, arrivando a strapparmi i vestiti per la fretta. Nonostante io lo dica spesso a Daisy e Sebastian loro dicono che è solo nella mia mente, che non è possibile che Justin possa fare qualcosa del genere; solo Andrew mi crede e mi consola, tenta di fare di tutto per incoraggiarmi, infondendomi quel calore e affetto che da sempre mi manca. Il nostro rapporto però non è sempre stato così: all'inizio, non appena sono arrivata qui, lui mi ignorava, faceva di tutto per starmi il più lontano possibile, mi prendeva in giro e mi umiliava; ma appena ho scoperto il perché facesse così l'ho perdonato senza pensarci due volte, passando il mio tempo solo e solamente con lui.
In questo momento però sono da sola, rinchiusa nella mia stanza in un angolo a piangere con le ginocchia premute contro il petto, aspettando solo che tutto finisca presto. Justin se n'è appena andato e oggi aveva proprio voglia di divertirsi; ho cercato di rivestirmi il meglio possibile, ma gli spifferi della finestra riescono lo stesso a penetrarmi fin nelle ossa. Quando sento la porta cigolare mi rannicchio ulteriormente, spingendomi contro l'angolo della camera.
«Bianca, che è successo?» Mi chiede gentilmente Sebastian, entrando nella stanza ed inginocchiandosi di fronte a me, accarezzandomi la testa.
«Justin...» Dico a malapena con un filo di voce, tra un singhiozzo e l'altro.
«Bianca,» mi richiama lui con un tono di voce sia esasperato che comprensivo. «quante volte ti dovrò dire che non ti ha fatto niente? È tutto nella tua testa.» Mi ripete quella che per me era ormai la milionesima volta; ogni volta che Justin entra per fare il controllo giornaliero, Daisy o Sebastian entrano dopo qualche minuto che lui è uscito, chiedendomi cosa fosse successo e ripetendomi che non in realtà non era accaduto niente.
«Sì invece!» Ribatto stizzita, sciogliendo il nodo in cui avevo stretto il mio corpo e guardandolo negli occhi, ormai gonfi e rossi per le lacrime. «Justin mi picchia e violenta quasi ogni giorno, eppure non fate niente per fermarlo!» Esclamo mentre lui mi fa segno di avvicinarmi, chiudendomi in un abbraccio mentre io scoppio in un altro pianto violento.
Si stacca poco dopo lasciando il suo posto ad Andrew, che entra non appena Sebastian è uscito.
«Ancora lui?» Mi domanda, facendo riferimento ai lividi sulla mia pelle e ai miei vestiti strappati.
Io annuisco nel frattempo che lui avanza e si accomoda vicino a me, circondandomi le spalle con un braccio per consolarmi.
In questa maniera continua la mia routine. Ogni giorno alla stessa ora Justin si presenta, mi fa del male e se ne va indisturbato, per poi essere consolata da Sebastian o Daisy e Andrew, colui che però riesce veramente a darmi un po' di sollievo e conforto. Voglio andarmene di qui, ma purtroppo non posso; accadrà solo nel caso io sia guarita. Tuttavia quando vado agli incontri con la dottoressa sento gli altri collaboratori dire con voce delusa e un po' abbattuta che non sto affatto meglio, ma che anzi sono peggiorata negli ultimi due anni; parlano di allucinazioni e deliri sempre più costanti, mentre le cure pare che non stiano facendo nessun effetto. Pronunciano sempre il nome strano della mia malattia, il suono mi diverte ma per loro è qualcosa di negativo e orribile, provano pena nei miei confronti. Ormai quella la considero più come una parte di me, se non me stessa, dato che ormai ci convivo da praticamente sempre. In poche parole abbiamo due modi diversi per definire la stessa cosa, solo che a me il suono della parola che uso mi piace di più.
Io la chiamo vita.
Loro la chiamano schizofrenia.

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