Capitolo 2

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Era passato circa un decennio da quella strana visione fuori dalla finestra.

Ormai Kate aveva quasi venti anni, ma non aveva affatto perso il suo spirito d'avventura e la sua curiosità.

La crescita e la maggiore consapevolezza di ciò che la circondava, infatti, non le avevano assolutamente impedito di rinunciare ad uno dei suoi passatempi preferiti: passeggiare per la foresta, sebbene i piú non osassero nemmeno avvicinarvisi.

Le piaceva camminare indisturbata tra gli alberi imponenti, e nonostante alcune volte quello scenario fosse realmente inquietante, lei non riuscita ad allontanarsene.
Piú le veniva detto che era pericoloso entrarvi, più lei ne era inspiegabilmente attratta.

Kate però sottovalutava la crudeltá di quella foresta, la stessa che, se fosse stata dotata di occhi, l'avrebbe vista crescere giorno dopo giorno.

Nel bosco, infatti, si aggirava un mostro, una creatura terrificante.
Non vi erano lineamenti o tratti somatici sul suo volto bianco, ma solo un'ombra chiara in corrispondenza delle cavità oculari.
Aveva dita lunghe e scheletriche, simili ad artigli, e viticci neri e viscidi gli fuoriuscivano dalla schiena, attorcigliandosi intorno a lui, come fossero dotati di vita propria.

Aveva visto quell'essere raccapricciante soltanto di sfuggita, quasi come un'allucinazione. Era rimasta impietrita, nel momento stesso in cui il mostro le si era materializzato davanti.

L'ultima cosa che percepì, prima che le palpebre le diventassero troppo pesanti per tenerle aperte, fu una macchia distorta di colore e un grido lontano, ovattato.

Poi, tutto buio.

Quando finalmente riaprì gli occhi, le sue pupille fecero fatica ad abituarsi all'accecante luce bianca proveniente dal soffitto.
Non riconobbe quella luce. Non si trovava nella sua stanza.

Subito si tirò a sedere su quello che si rese conto essere un lettino d'ospedale: confusa, vagó attorno a sè con lo sguardo.
Cosa era successo?

-Kate! - La voce tremante di sua madre la fece girare di scatto.

-Mamma?-

-Oddio tesoro, ti sei svegliata finalmente...come ti senti?- Le posò delicatamente una mano su una guancia, carezzandola. Era visibilmente preoccupata.

-Che ci faccio qui? Che significa? Non siamo a casa-

La donna sospirò: -Sei svenuta nella foresta. È stato Carl a trovarti-

Svenuta nella foresta?

Il volto di Kate parve illuminarsi.

Poteva essere... quella creatura? Sí, ora ricordava!

-Che c'è? Ricordi qualcosa? - Chiese la madre con trepidazione.

La ragazza esitò per pochi attimi: avrebbe dovuto raccontare tutto? Oppure no? Non poteva essere sicura che sua madre le avrebbe creduto.
Eppure c'era qualcosa che le sfuggiva...
i suoi ricordi erano sconclusionati, disordinati, c'erano dei passaggi mancanti, ne era certa.

Gettó un'occhiata al comodino di fianco al letto.

-E quelli?- Domandò Kate.

-Carl ha detto che li avevi con te quando ti ha trovata. Che significano?-

Erano dei fogli tutti stropicciati e scarabocchiati. Non si capiva bene cosa fosse raffigurato, ma il tratto nero con cui erano stati fatti i disegni era nervoso ed era stato ripassato più volte.

Le immagini erano poco chiare e vi erano anche delle scritte: parevano minacce, o richieste d'aiuto.

Poi, improvvisamente, nella mente di Kate, il frammento di un vecchio ricordo si fece prepotentemente strada fra tutti gli altri e come un fulmine che si abbatte impetuoso su un arbusto, le apparve nitido e vivo di fronte agli occhi: più di dieci anni addietro, un giorno, nella foresta.

La stessa in cui Carl l'aveva ritrovata riversa a terra, diverse ore prima, con una torcia e dei fogli sparpagliati accanto.
Lei aveva già visto un foglio come quelli, sì, ma reputandolo privo di importanza, non se ne era affatto curata.
Ma ora, iniziava a ricordare e tutto sembrava avere più senso.

Nei giorni seguenti i medici non fecero altro che tempestarla di domande, sempre impeccabili, nei loro camici bianchi perfettamente stirati. Disgustosamente candidi e impeccabili, proprio come il posto in cui si ostinavano a tenerla rinchiusa.

I giorni trascorrevano lenti e vuoti tra centinaia di domande, che ormai Kate conosceva a memoria, tante erano le volte che le erano state poste.

Finché i giorni non divennero settimane, e le settimane mesi.
E i mesi, anni.

Ogni maledetto giorno Kate era costretta a rivivere sempre lo stesso teatrino. Il tempo passava, ma sempre allo stesso modo.
Stessa stanza, stessi medici, stesse domande, stesse risposte.
Stessa clinica psichiatrica.

La credevano pazza, lei lo sapeva.
Ed era questo che le dava fastidio, perché lei, con tutti gli altri squilibrati con cui era obbligata a passare le giornate, non c'entrava assolutamente niente.

Quando poteva, sua madre l'andava a trovare, e con lei anche i suoi amici. Erano sempre disponibili per lei, qualsiasi cosa le occorresse, loro erano lì per lei.

Chissà, magari loro le credevano.
Erano le uniche persone che si prendessero davvero cura di lei. Gli unici a lei vicini.
Ma Kate era mentalmente instabile, o almeno così ripetevano i dottori, e non potevano lasciarla uscire senza prima aver concluso i test.

Dopo un anno, Kate aveva imparato a fare, dire e a comportarsi esattamente come i medici desideravano.

All'inizio però non era stato affatto semplice.
Continuava ad insistere, urlando che quei disegni significavano qualcosa e che c'era davvero una creatura mostruosa nella foresta.

Lo Slenderman esisteva realmente, e si divertiva a tormentare la povera anima di chiunque osasse addentrarsi troppo nel suo territorio.

Lei lo sapeva, perché controllava anche lei, quasi ogni sera.

Aveva perfino iniziato a pensare che riuscisse a manipolare la sua mente. Spesso lo disegnava, perlopiù  inconsapevolmente.
La sua mano si muoveva automaticamente sul foglio, e il cervello la lasciava fare, affidando la penna alla stretta sicura delle dita, che parevano conoscere ogni linea, ogni dettaglio a memoria.

Ma nessuno lì dentro voleva crederle.
I casi come il suo erano all'ordine del giorno.

Kate aveva temuto più di una volta di star diventando davvero pazza, rinchiusa nella sua stanza grigia e spoglia, stando in quell'ospedale.
Non era nata per trascorrere così nemmeno una settimana della sua vita.

Quella clinica la stava consumando, si sentiva in trappola.

Gli infermieri, però, erano tutti molto gentili con lei, alcuni la assecondavano anche.
La rassicuravano quando lei vedeva lo Slenderman osservarla in modo impassibile ed agghiacciante, fuori dalla finestra. Magari illuminato dalla luce a intermittenza di un lampione difettoso.

"È stata solo la tua immaginazione, solo un brutto sogno"; oppure "Chiunque ci sia lí fuori non può farti del male, qui. Sei al sicuro".

Erano queste le riposte che si era abituata a ricevere quotidianamente.

Quel posto per lei era come una prigione, la credevano tutti pazza quando in realtà stava solo dicendo la verità, e implorava perché qualcuno, chiunque, le desse retta.

Si sentiva terribilmente oppressa.
In trappola.
E non desiderava altro che andarsene via.

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