Capitolo 14. Il ricordo che aveva di lui

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La stanza era impregnata di un forte odore di chiuso. Michela era sicura che nessuno avesse messo piede lì dentro per tutti gli otto anni che erano trascorsi dal suicidio di Giorgio Archi e la sensazione d'inquietudine che l'accompagnava nel muovere i suoi primi passi all'interno del teatro di quell'orribile evento non la voleva abbandonare. Le sembrava che la presenza del defunto capofamiglia aleggiasse ancora tra i mobili polverosi e tra i muri di quel soffocante ambiente.

C'era soltanto una finestra, chiusa e sbarrata da pesanti imposte di legno, che si apriva sulla parete dirimpetto alla porta d'accesso; neanche uno spiraglio di luce filtrava attraverso la pesante serranda, l'intera stanza era immersa in una fitta oscurità che era smorzata solo dal chiarore emessa dai telefoni dei due ragazzi, immobili dopo aver varcato l'ingresso. Il fascio di luce si espandeva abbastanza da abbracciare l'intera ampiezza della camera e illuminare il mobilio: una larga libreria in legno scuro correva lungo tutta l'estensione del perimetro sinistro, mentre a destra un grosso impianto audio e alcune file di scaffali contenenti CD si intervallavano contro la parete; quattro quadri macchiaioli arricchivano l'arredamento che culminava con una massiccia scrivania in mogano posta in fondo, davanti alla finestra serrata.

Michela rimase in silenzio, in attesa che il suo compagno facesse qualcosa. Leonardo, però, non sembrava essere in condizioni di poter prendere alcun tipo di iniziativa: non muoveva neanche un muscolo e fissava con occhi sbarrati il tavolo che aveva di fronte; sudava copiosamente, aveva la bocca appena aperta e prendeva rapidi respiri concitati, in una lotta per impedire al fiato di sfuggirgli dai polmoni.

«Respira,» disse Michela, appoggiandogli una mano sulla spalla.

«È tutto come sempre,» esalò il mago tra un respiro e l'altro; tremava. «È come lo vedo sempre, tutte le notti...»

Le era bastata poco più di un'ora in sua compagnia per capire quale fosse il problema di fondo di Leonardo, l'abisso da cui fuoriuscivano tutti i suoi disagi e le sue insicurezze. Era lampante, non ci voleva un genio per capire che non era mai riuscito a guarire da quella ferita; no, non ferita: la morte Giorgio Archi era uno squarcio nell'anima che continuava a sanguinare e a definire la sua vita. La paura che faceva da sfondo a ogni parola o gesto arrivava da lì, da quello studio o, per meglio dire, dal ricordo di quello studio.

«Lo vedo tutte le volte che mi addormento,» continuò. Una lacrima si separò dall'occhio e iniziò a scivolare lungo la guancia. «Lui è morto qui. Compare in sogno e mi parla, mi cerca e... e vuole che mi unisca a lui.»

Con il respiro affannato, Leonardo barcollò di lato e si appoggiò con la schiena allo stipite della porta; gli occhiali gli scivolarono dal naso e rovinarono sul tappeto polveroso che rivestiva il pavimento, il tonfo attutito risuonò tra quelle quattro mura come un'esplosione.

«Ehi, calmati!» fece Michela, lasciando la presa sul telefono e prendendo il suo compagno per le spalle. Avvicinò il volto e fece in modo di allineare gli occhi con quelli terrorizzati e sgranati di lui. «Guardami. Guarda me.»

«Pensavo che... che ci avesse abbandonati,» balbettò con un filo di voce. Era come se stesse soffocando e stesse impegnando tutte le forze alla ricerca di ossigeno. «Lui... no, non mi ha mai abbandonato... cosa vuole da me? Perché non mi lascia stare?»

Il terrore che stava attraversando Leonardo era palpabile, quasi contagioso, tanto che persino Michela si sentì il petto compresso e dovette sforzarsi per contenere le lacrime. L'Archi aveva incubi sul suo defunto padre tutte le notti, da otto anni: l'idea che si era fatta di lui era cambiata radicalmente dopo quella rivelazione. "La Morte cammina al suo fianco", aveva detto Cassandra Doria e, se ne rese conto solo in quel momento, fissando gli occhi dilatati del ragazzo, quella frase aveva una valenza molto più profonda che andava ben oltre l'episodio dell'apparizione che aveva sperimentato la notte precedente. Non erano poi tanto diversi, loro due; entrambi, per un motivo o per l'altro, non riuscivano a svincolarsi dalla vessante presenza dei loro genitori e in quegli occhi lei ci si rivedeva.

«Questa è la tua occasione per lasciartelo alle spalle,» disse Michela, continuando a fissare il ragazzo tremante davanti a lei. «Lo facciamo insieme, non sei da solo.»

Quale strano scherzo del destino l'aveva portata a dover provare a rasserenare un Archi? Lo aveva insultato, disprezzato e bistrattato, ma, alla fine, si era dovuta ricredere su di lui: non era un debole. Non più di quanto lo fosse lei.

«Insieme,» incalzò la maga, spostando la mano verso la borsa che portava a tracolla. Leonardo aveva deciso che fosse Michela a custodire il tomo che Ferdinando aveva loro regalato il giorno prima e lei aveva faticato a mascherare l'entusiasmo; aveva passato gran parte della notte a sfogliare le consunte pagine, immergendosi nella lettura di quelle fitte righe scritte in latino. Leonardo, invece, non aveva neanche voluto guardarne la copertina, come se non volesse saperne nulla di quella faccenda. Il tempo di fuggire, però, era finito: sia lui che Michela avrebbero dovuto chiamare a raccolta tutto il loro coraggio e mostrare alla famiglia che non avevano più bisogno di stare nel sentiero tracciato e che erano pronti a cercarsi da soli la strada che desideravano percorrere.

L'Archi non disse nulla, ma si limitò a inspirare profondamente chiudendo al contempo gli occhi. Passò solo una manciata di secondi e il respiro sembrò regolarizzarsi; dopo qualche altro momento di attesa, Leonardo tornò quello di sempre. Aprì gli occhi e si guardò i piedi, abbassandosi alla ricerca degli occhiali. Una tecnica respiratoria molto efficace, Michela era sicura che erano anni che veniva praticata all'interno della ristretta famiglia Archi per aiutare Leonardo a uscire dalle sue crisi di panico.

«Facciamo in fretta,» mormorò lui, dopo aver inforcato le lenti.

Michela non se lo fece ripetere: per quanto non si sentisse coinvolta a livello sentimentale quanto il suo compagno, non le piaceva stare lì dentro. C'era odore di chiuso e faceva caldo, molto più che nel resto della casa, ma non era il tepore piacevole di un camino scoppiettante d'inverno, era più simile al caldo torrido d'estate, quando il sole ti picchia sulle testa e l'asfalto rovente ti si appiccica alle scarpe.

Lasciò scivolare la borsa a terra ed estrasse il pesante libro di necromanzia; la copertina era ruvida e calda, e toccarla le dava strane sensazioni contrastanti: era forse la sua immaginazione, ma era come toccare il palmo di una mano. Si avvicinò a uno degli scaffali e appoggiò il tomo sulla prima superficie libera che trovò, poi iniziò a sfogliare rapida le pagine ingiallite dal tempo fino a trovare il punto che Ferdinando Doria aveva indicato.

Non aveva mai apprezzato in modo particolare il latino, ma si era ritrovata costretta a impararlo a menadito, quasi meglio dell'inglese, vista la frequenza di testi in quella lingua che erano sotto la custodia dei Guelfi. Anche dopo anni di studio e di pratica, leggere e pronunciare quell'arcaico idioma la metteva a disagio e la faceva sentire ancora bambina dietro il banco di scuola. La maggior parte delle volte, un mago non doveva far uso di alcun rituale o invocazione per richiamare il potere magico; erano solo i riti più complessi ed elaborati che richiedevano l'utilizzo di formule per connettersi più profondamente alla Trama. È in quei casi, le aveva insegnato suo padre, che un mago impara quanto potere la magia possa conferire a chi decide di spingersi oltre i normali limiti. Michela non aveva mai compiuto un rituale del genere, ne aveva soltanto letti, e sapeva che la cosa non le sarebbe piaciuta. Non lo aveva mai fatto, non si era mai immersa in acque così pericolose; era pronta a regalare tutta sé stessa a un potere che nessun vivente avrebbe mai compreso appieno. Non le sarebbe piaciuto, no, ne era certa, e la sua parte razionale le urlava di non farlo e di rimettere via quello schifoso libro; non era abituata ad aprirsi così tanto con gli altri, ma il tenue brivido di eccitazione che le percorreva il bacino le suggeriva che non vedeva l'ora di provarci e di sperimentare sulla propria pelle che cosa si provasse a lasciarsi andare del tutto.

Si sciolse in un sorriso appena accennato mentre, con la coda dell'occhio, cercava il suo compagno, intento a passare distrattamente la mano sulla superficie della scrivania. Che cos'era quell'esitazione? Aveva paura di usare la magia, ora? Stava forse diventando come lui? O forse si stava rendendo conto che, sotto sotto, Leonardo aveva ragione a dubitare della magia? Le balenò in mente il ricordo di Ferdinando Doria e dei suoi violenti attacchi di tosse, delle sue instabili condizioni fisiche... era quella la fine che attendeva tutti quelli che abusavano del potere della magia?

Michela aveva appena individuato il punto che stava cercando, quando lo sguardo le venne catturato da una brillio verde che si accese su un pulsante dell'impianto stereo.

«È tornata la corrente,» sussurrò Leonardo, muovendosi rapido verso l'ingresso.

Il lampadario sul soffitto inondò di una luce calda tutto il piccolo ambiente e Michela sentì il peso sullo stomaco alleggerirsi. Prese un respiro e le sembrò anche che facesse meno caldo. Come immaginava, era stato tutto frutto della sua immaginazione: non c'era niente di strano o di minaccioso lì dentro; non per lei, almeno.

«Non dobbiamo farlo al buio, per fortuna,» esternò, cercando Leonardo per sorridergli.

Lui ricambiò, ma la sua pareva più una smorfia di dolore che un'espressione di allegria. La maga si sentì all'improvviso in colpa per come si era comportata con lui in precedenza: l'aveva giudicato e aveva sbagliato, non meritava il disprezzo che gli aveva riservato il giorno del loro incontro. Si sarebbe dovuta scusare, era d'obbligo; non poteva immaginare che cosa fosse vivere con il peso che aveva dovuto sopportare Leonardo e avrebbe dovuto chiudere la bocca e riflettere prima di sputare merda dalle labbra.

Leonardo le si affiancò e abbassò lo sguardo sulle pagine del libro; la mascella serrata e gli occhi arrossati tradivano tutto il suo nervosismo, ma per lo meno non era più sull'orlo di una crisi di nervi.

«Iniziamo,» esortò lui, aggiustandosi gli occhiali sul naso. In quel gesto a Michela sembrò di rivedere suo padre, e si irrigidì.

Non esitarono oltre. Come un coro, perfettamente sincronizzati, entrambi iniziarono a intonare l'antico testo che, a una prima lettura, sembrava essere una preghiera alla Trama, perché facesse in modo di assottigliare la distanza che separa il mondo dei vivi da quello dei morti. Non era qualcosa che un mago poteva ottenere da solo con il semplice utilizzo quotidiano della magia, ma era un processo pericoloso e innaturale che richiedeva l'intervento stesso dei poteri mistici che si celavano dietro all'esistenza della Trama, forze che erano rimaste misteriose e ignote in tutti quei secoli.

Michela socchiuse gli occhi e si concentrò sul suo corpo, lo visualizzò nella mente e lo percepii espandersi oltre i suoi normali confini materiali: non era più nello studio a leggere la formula, ma era in un piano d'esistenza diverso, immersa per intero in un oceano caldo e scintillante che le lambiva le membra. Ogni mago immaginava in modo diverso la Trama ed essa si manifestava in miliardi di forme; quello era come lei credeva che essa fosse: un oceano caldo, luminoso e accogliente. Fermarsi lì non era, però, sufficiente: doveva andare più a fondo e attingere al potere che si celava sotto la superficie confortevole e famigliare; doveva spingersi più in basso, verso quelle acque che non aveva mai esplorato prima di quel momento. Verso l'ignoto, a cercare la faccia della Trama che non aveva mai visto.

Si inabissò. La sua coscienza nuotò verso il basso mentre sentiva il potere primordiale della magia comprimersi su di lei, quasi a schiacciarla. Scese sempre di più, e la luce e il caldo lasciarono posto al freddo e al buio: più scendeva e più la temperatura si abbassava e il suo corpo veniva schiacciato dalla pressione che la magia le esercitava intorno. Ogni millimetro della pelle formicolava come se milioni di scarafaggi la stessero mangiando viva. Ma era certa che qualsiasi cosa avesse desiderato si sarebbe realizzata senza fallo, tale era il potere di cui si sentiva pervasa. Era davvero un'idiota: pensava di aver conosciuto il potere, ma quello a cui era abituata era una mera scintilla di ciò che la Trama poteva veicolare in lei. Era euforica e venne travolta da una sorta di morbosa eccitazione all'idea di ciò che avrebbe potuto ottenere e dei risultati che avrebbe potuto conseguire grazie a quella forza. Non c'era prezzo troppo alto, avrebbe scambiato qualsiasi cosa per fare in modo che quella sensazione di onnipotenza durasse per sempre. Ah, sarebbe stato meraviglioso tornare a casa e sbattere in faccia a suo padre tutta quell'energia brulicante, e vedere la faccia che avrebbe fatto. "È abbastanza?", gli avrebbe urlato, scaraventandogli addosso ogni briciolo di potere di cui disponeva, staccandogli brandelli di carne e cute con la sola forza di volontà; "sono abbastanza adesso, per te?"

Poi, proprio quando le sembrava che la sua anima fosse sul punto di implodere, tutto finì.

Con l'ultima frase dell'arcaico rituale sentì il potere che le pullulava in corpo ritrarsi repentino; l'energia magica fluì con così tanta violenza fuori di lei che si ritrovò a barcollare per mantenere l'equilibrio e non crollare a terra. Era la medesima sensazione che provava tutte le volte che usava uno degli incantesimi a cui era abituata, ma moltiplicata per mille. La magia l'aveva penetrata, le aveva iniettato potere, l'aveva inebriata con dolci visioni di onnipotenza e poi l'aveva abbandonata, sgorgando lontano da lei, lasciandole solo l'amara e sinistra sensazione che, in quel procedimento, la Trama si fosse portata via una parte di lei che non sarebbe mai più ritornata.

Si sentiva debole e spossata, e il maglione che indossava sotto la pesante giacca invernale era impregnato di sudore. Al suo fianco, Leonardo si era appoggiato con entrambe le mani al mobile e ansimava affannato; per uno che aveva ripreso a usare la magia da pochi giorni, quella doveva essere stata un'impresa titanica.

Erano entrambi così sconvolti dalle sensazioni che la magia aveva lasciato su di loro, che nessuno dei due si era reso conto della terza presenza che si era manifestata nella stanza.

«È stata una lunga attesa.»

La voce, simile a un sussurro, accarezzò le orecchie dei due maghi. Michela sobbalzò violentemente e si voltò di scatto; gli occhi sgranati si fermarono sul volto dell'uomo che stava seduto dietro all'elegante scrivania. Giorgio Archi ricambiava il suo sguardo terrorizzato con un sorriso appena accennato, nascosto sotto un paio di folti baffi bruni; il volto era giovanile e non mostrava alcuna ruga o imperfezione, e i capelli scuri erano portati lunghi e ricadevano sulla fronte in una frangia spettinata. Senza dire altro, piegò il capo le pupille si mossero di pochi millimetri per spostarsi a fissare un punto imprecisato alle spalle della maga; il silenzio venne rotto dal tremulo sospiro emesso da Leonardo.

«Papà...» mormorò il ragazzo, dopo qualche istante.

Il sorriso sul volto dell'uomo si accentuò, gli occhi color nocciola si fecero umidi. Un fastidioso pizzicore si allargò lungo la nuca di Michela, mentre prendeva atto di ciò che aveva fatto: quello non sembrava un fantasma o un'apparizione evanescente come erano stati gli avi dei Doria, la persona che aveva di fronte aveva tutta l'aria di essere il padre di Leonardo in carne e ossa, come se non fosse mai morto. Eppure era consapevole che non fosse possibile: nessun incantesimo o rituale arcano poteva riportare in vita i morti, era la più antica e ferrea legge magica. Per quanto fisico e reale potesse sembrare, Giorgio Archi era morto e quello che stava parlando davanti ai suoi occhi non era altro che il ricordo che Leonardo aveva di lui, una reminiscenza del passato a cui la magia aveva dato forma attingendo da ciò che il mago rammentava.

«Ho cercato di raggiungerti per tutto questo tempo,» iniziò l'uomo, senza muovere un muscolo. «Mi dispiace se ti ho reso la vita complicata.»

La Guelfi si spostò di lato di qualche passo; non voleva frapporsi fra i due Archi in quel toccante, seppur inquietante, momento di ricongiungimento familiare. Il volto di Leonardo era solcato da leggere lacrime che gli rigavano la guancia, ma non singhiozzava e non sembrava nemmeno avere paura: l'attacco di panico che lo aveva flagellato pochi minuti prima era ormai un lontano ricordo.

«Continuavo a rivederti come in quel giorno,» rispose il mago, con un filo di voce tremante. «Non riuscivo più a... a ricordarti in altro modo.»

«Mi dispiace, ma non potevo lasciare che il legame si affievolisse,» rispose l'uomo, sporgendosi in avanti sulla scrivania. «Dovevo continuare a provare! Sapevo che un giorno sarei riuscito a trasmetterti quello che non ho potuto dirvi prima di morire.»

Leonardo socchiuse gli occhi e prese una larga boccata d'aria.

«Perché?» chiese, serrando la mascella. «Perché ci hai lasciato?»

«Stavo per fare qualcosa che non mi sarei mai perdonato.» Fu la pronta risposta dello spettro, la sua voce tradiva afflizione e un profondo dolore. «Stavo rischiando di diventare il fautore della rovina della mia famiglia. Mi dispiace, Leonardo... non sono stato abbastanza forte da evitarlo.»

Calò il silenzio. Sembrava che nessuno dei due Archi volesse parlare per primo, così Michela, non curandosi di esibire poco tatto, parlò al posto loro.

«Che cos'è successo otto anni fa?»

La domanda aleggiò nell'aria per qualche istante e sembrò rimbombare tra le cupe pareti dello studio. Si sentì addosso lo sguardo di padre e figlio, e abbassò il volto contrita: non le faceva certo piacere rovinare l'atmosfera, ma avevano uno scopo preciso e non aveva la più pallida idea di quanto quel collegamento con il mondo dei morti potesse durare. Giorgio Archi doveva raccontare ciò che sapeva e doveva farlo in fretta!

«Tutto ha avuto inizio nel febbraio del 2011,» iniziò lo spirito. Aveva appoggiato i gomiti sul bordo del tavolo e il mento sul dorso della mano, esibendo un'aria stanca e afflitta.

«Non sapevo cosa mi sarebbe successo e, se solo ne avessi avuto anche un minimo indizio, avrei agito in modo diverso,» proseguì, chiudendo gli occhi come per richiamare alla memoria un ricordo lontano. «Quel giorno, tu, Leo, eri a scuola e tua madre era uscita. Ero solo in casa quando ricevetti la telefonata: arrivava da un uomo che mi invitava a Milano per discutere con lui di questioni importanti. Era il titolare di una multinazionale farmaceutica, e il suo nome era Colin Dove.»

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