Capitolo 15. La richiesta di Colin

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Martedì 8 febbraio 2011


Giorgio Archi parcheggiò l'auto sul bordo della strada e fermò i tergicristalli, fino a pochi attimi prima attivati a piena potenza per pulire il parabrezza dalle pesanti gocce di pioggia. All'esterno l'acqua cadeva con così tanta prepotenza che il battito sull'abitacolo rimbombava con forza all'interno, tanto da soverchiare persino le note della canzone che risuonava in radio.

Sbuffando, l'uomo rimpianse di non aver avuto la lungimiranza di portare con sé l'ombrello; sul lago il tempo era molto diverso e aveva incontrato quell'acquazzone solo pochi chilometri prima di raggiungere Milano. Per fortuna era riuscito a trovare un posto per l'auto che non fosse troppo distante dalla sua meta: la zona della città in cui si trovava era periferica e poco trafficata, ma perfino in zone come quella poteva risultare un'impresa non da poco trovare un parcheggio libero e gratuito.

Prima di lanciarsi fuori sotto la pioggia battente, Giorgio si prese qualche secondo per scrutare oltre i finestrini dell'auto, alla ricerca del luogo che doveva raggiungere. Non ebbe difficoltà a individuare l'edificio: stava a pochi metri in fondo alla via e affacciava su uno stretto incrocio. Era un palazzo di recente costruzione, non più alto di una decina di piani, di una colorazione grigio chiaro che lo rendeva piuttosto anonimo; sul marciapiede si apriva una breve scalinata che conduceva alla porta d'ingresso, sopra la quale campeggiava, in grosse lettere cubitali, il nome dell'azienda che ospitava.

L'uomo calcolò quanto si sarebbe bagnato se avesse corso fin lì senza ombrello poi, sospirando, si decise: afferrò la valigetta appoggiata sul sedile del passeggero e, con un secco movimento, spalancò la portiera e si tuffò all'esterno. La pioggia gelida lo accolse e nei pochi secondi che impiegò a chiudere a chiave l'auto, il lungo cappotto marrone si era già completamente infradiciato. Raggiunse il marciapiede e corse a perdifiato verso l'ingresso; gli era sembrato molto più vicino quando lo stava osservando all'asciutto. Proprio prima di raggiungere i primi gradini, inciampò e, per mantenere l'equilibrio, si sbilanciò di lato andando a cercare con la mano la parete dell'edificio più vicino; riuscì a non ruzzolare a terra, ma finì con entrambi i piedi in una grossa pozzanghera. Trattenendo a stento un'imprecazione, Giorgio saltò fuori dal piccolo lago che aveva provato a guadare, troppo tardi per impedire che l'acqua lercia penetrasse all'interno delle eleganti scarpe di cuoio.

«Non lo sopporto questo posto!» sibilò a denti stretti, mentre percorreva di corsa gli ultimi metri che lo separavano dall'ingresso.

Non aveva mai amato le grandi città e, in modo particolare, odiava Milano. La metropoli era grigia e caotica, e i suoi abitanti erano poco affabili e così immersi nella loro frenetica routine quotidiana da sembrare quasi zombie. Certo, anche lui lavorava sodo e dedicava molto tempo all'immobiliare di famiglia, ma aveva l'impressione che i residenti del capoluogo non riuscissero proprio a liberarsi dal peso delle loro occupazioni, che se le portassero dietro a ogni ora del giorno, persino a casa e in famiglia. Non dava la colpa ai singoli lavoratori, ovvio. Era il contesto sociale che aveva operato quel cambio di mentalità: il periodo non era dei migliori e chi aveva un lavoro era costretto a fare qualsiasi cosa per tenerselo stretto. Persino la società immobiliare della famiglia Archi aveva pesantemente risentito della crisi scoppiata pochi anni prima e, nel periodo successivo, il volume di affari era calato, tanto da impensierire non poco Giorgio e il resto della famiglia.

Ormai fradicio, l'uomo raggiunse l'ingresso dell'edificio e si fermò sotto la tettoia metallica che copriva le porte scorrevoli di vetro. Preso atto delle sue ridicole condizioni, accarezzò solo per qualche attimo l'idea di usare la magia per asciugarsi i vestiti, soltanto per poi redarguirsi da solo, ricordando che non era prudente usare le sue capacità in pubblico. Sconsolato e convinto ormai a dover rimanere bagnato, alzò gli occhi verso il nome che sovrastava l'ingresso: Dove Corporation. Che cosa poteva volere il presidente di una multinazionale farmaceutica da uno come lui?

Giorgio fece spallucce e si avviò all'interno. Venne subito accolto da un piacevole tepore, accompagnato da un uomo alto in completo scuro che gli si parò davanti.

«Posso aiutarla?» chiese con tono minaccioso.

Il capofamiglia Archi squadrò il colosso da capo a piedi e non riuscì a non soffermarsi su un evidente rigonfiamento sotto la giacca, all'altezza delle costole. Che cosa poteva volere una multinazionale farmaceutica che aveva una guardia armata all'ingresso da uno come lui? C'era qualcosa di profondamente sospetto in quello che era accaduto e una persona con più senno, forse, avrebbe ignorato quell'invito, ma Giorgio era un uomo curioso e non era mai riuscito a ignorare le situazioni che stuzzicavano il suo interesse. E quella lo attraeva davvero molto.

«Ho un appuntamento,» rispose, esibendo un ampio sorriso.

La guardia lo scrutò ancora per qualche istante, soffermandosi con particolare dovizia sulle scarpe inzuppate. Alla fine si scostò di lato e indicò una reception alle sue spalle.

«Parli con il mio collega,» disse.

Il mago annuì sorridendo e superò l'energumeno. Non c'era anima viva nell'ingresso se non lui, l'uomo armato e un giovane ragazzo seduto dietro al banco dell'accoglienza. L'ampia stanza era arredata in modo freddo e asettico con le pareti tinte di un pallido rosa che conferiva all'ambiente una strana illuminazione diafana, complice anche la luce soffusa dei faretti che intervallano il soffitto. Qualche pianta ornamentale era poggiata negli angoli, in un triste tentativo di conferire un po' di vita a quel paesaggio così artificiale; un paio di ampie finestre prive di tendaggi arieggiavano la stanza e, sulle pareti interne, si aprivano un paio di corridoi e la porta metallica di un grosso ascensore. Intorno a lui aleggiava un innaturale silenzio, rotto solo dallo scrosciare della pioggia che arrivava dall'esterno.

«Buongiorno,» esordì Giorgio, accostandosi alla reception. «Sono Giorgio Archi, ho un appuntamento con il signor Dove.»

Il ragazzo sorrise e si aggiustò gli occhiali prima di armeggiare sul ripiano da lavoro alla ricerca di qualcosa.

«Ecco il suo pass, signor Archi,» disse infine, porgendogli un tesserino da attaccare alla giaccia. «Mr. Dove la sta aspettando nel suo ufficio. Prenda pure l'ascensore: decimo piano.»

Giorgio sbuffò mentalmente. Perché proprio al decimo? Non avrebbe mai capito la mania dei presidenti di farsi l'ufficio al piano più alto.

«Preferirei usare le scale, a dire il vero,» replicò, aprendosi in un sorriso imbarazzato.

Nel corso della vita aveva risolto molti dei suoi problemi giovanili, ma non era in nessun caso riuscito a prendere un ascensore. Solo l'idea di entrare in quella piccola e afosa cella metallica gli faceva venire salire il vomito. Gli riaffiorò alla mente il ricordo del loro ultimo viaggio in Giappone, qualche primavera prima: Pamela voleva salire in cima all'osservatorio del palazzo del governo metropolitano di Tokyo e sembrava non ci fosse proprio modo per raggiungere il quarantacinquesimo piano dell'edificio senza usare l'ascensore. Giorgio ci provò perché non voleva deluderla, ma, appena messo piede dentro, schiacciato da un numero indefinito di persone, iniziò a sudare e tremare incontrollato. L'ascensore non partì neanche: alcuni signori giapponesi di mezza età dissero qualcosa e un paio di uomini accompagnarono il mago e sua moglie all'esterno dell'abitacolo.

«Certo,» disse il ragazzo, indicando uno dei corridoi in fondo alla lobby. «Prenda il corridoio, seconda porta a sinistra.»

Il mago annuì e ringraziò, poi si allontanò dalla reception per imboccare il corridoio che gli era stato indicato. Nel suo breve percorso lungo il largo passaggio, incrociò una donna in abiti casual che stava camminando frettolosa: le rivolse un cenno di saluto che non venne, però, ricambiato.

Infastidito da quella mancanza di cortesia, Giorgio spalancò la porta metallica e si ritrovò davanti a una rampa di scale che saliva verso l'alto. Sarebbe stata una lunga passeggiata, ma era meglio fare un po' di fatica piuttosto che svenire in ascensore. Prese una generosa boccata d'ossigeno e iniziò l'ascesa.

Malgrado avesse continuato a fare allenamento saltuario, non aveva certo potuto interrompere il naturale scorrere del tempo e, arrivato al pianerottolo del terzo piano, dovette fermarsi per riprendere fiato. Tornò a sfidare i gradini metallici della scala dopo qualche attimo di pausa e fu contento di riuscire a completare la scalata senza nessuna nuova tappa intermedia. Si soffermò qualche attimo al culmine per ricomporsi e togliersi il pesante cappotto; un velo di sudore sul retro del collo inumidiva in modo fastidioso il colletto della camicia azzurrina che indossava.

Una volta pronto, Giorgio spinse il maniglione antipanico della porta e si ritrovò in un nuovo corridoio, più ampio di quello che aveva percorso al piano terra. Non ebbe, però, tempo di soffermarsi a guardarsi intorno, perché una donna lo aspettava all'imboccatura, sfoderando un ampio sorriso di cortesia.

«Signor Archi, benvenuto!» lo salutò, facendo un passo in avanti. «L'ufficio di Mr. Dove è in fondo al corridoio, prego.»

Quella cortese signora gli sembrò molto una guardia più che una guida, piazzata lì con il solo compito di impedirgli di andare a curiosare in giro. Non gli sembrò comunque il caso di questionare sulla faccenda: si limitò a ringraziare e a incamminarsi verso la porta che gli era stata indicata. Bussò discretamente sulla liscia superficie di legno chiaro e attese che una voce maschile all'interno lo invitasse a entrare.

Giorgio varcò l'ingresso con un sorriso, ma l'espressione venne smorzata da una particolare sensazione che lo pervase appena oltrepassato lo stipite: era un lieve formicolio alla base del collo che si espanse repentino in tutto il resto del corpo. Lo ricondusse senza indugio a un fenomeno magico e, con disinvoltura, come gli era sempre capitato di fare, espanse la coscienza fino a toccare la Trama, con l'intento di cercare la fonte di quell'inconfondibile segnale della presenza di magia.

«Io non lo farei, se fossi in lei.»

La voce apparteneva al giovane che stava in piedi al centro della stanza. Vestiva un anonimo paio di jeans e un maglioncino color crema a coprire una polo bianca; a giudicare dal volto non superava i trent'anni di età. I capelli color rame erano portati lunghi ma pettinati all'indietro, lasciando scoperta la fronte ampia e le sottili sopracciglia fulve, sotto le quali balenavano due occhi azzurri dello stesso colore del cielo limpido primaverile. Il ragazzo lo guardava con volto inespressivo e non si sforzava neanche di sorridere come avevano fatto i suoi collaboratori.

Ancora più convinto di quello che stava facendo, Giorgio si sintonizzò con la Trama, ma essa non rispose. Corrugò la fronte e sentì all'improvviso molto freddo. Era una sensazione che non aveva mai provato in tutta la sua intera esistenza: era come se il collegamento arcano che aveva maturato in tutti quegli anni di studio e disciplina fosse stato reciso, rendendogli impossibile l'accesso al potere della magia.

Evidentemente gli fu impossibile dissimulare il suo sgomento, perché il giovane annuì e spiegò:

«Questa stanza è circondata da un incantesimo che sopprime la magia al suo interno. Non potremo appellarci ai poteri arcani, finché saremo qui dentro.»

Giorgio sentì un rivolo di sudore solcargli la nuca, scendendo fino all'attaccatura del collo. Per quanto sospetto fosse quel luogo, mai avrebbe potuto immaginare quello che era accaduto. Non si fece comunque prendere dal panico; non avrebbe dato a quel misterioso giovincello la soddisfazione di farsi vedere intimorito da lui e da quello che aveva orchestrato.

«Il Signor Dove, presumo,» disse, chiudendosi la porta dell'ufficio alle spalle. «In cosa posso esserle utile?»

Lui non rispose, ma si voltò a dargli la schiena e camminò oltre una sottile scrivania dalle fattezze moderne, fino a raggiungere una poltrona.

«La prego, si sieda.» Indicò una sedia posta di fronte al tavolo.

L'Archi non si fece ripetere l'invito: appoggiò il cappotto allo schienale e si accomodò, soffermandosi a constatare quanto la seduta fosse confortevole, malgrado l'arzigogolato e strambo design. A un osservatore esterno poteva anche sembrare tranquillo e a suo agio, ma dentro di lui si agitava un turbinio di emozioni, tutte però sovrastate dalla prepotente voglia di soddisfare la curiosità che lo stava martellando da qualche giorno. Chi diavolo era quel ragazzo?

«Dunque?» chiese Giorgio, rompendo il silenzio teso.

«Lei è una persona interessante, Signor Archi,» disse Mr. Dove, seduto sulla sua poltrona. «La tengo d'occhio da tempo e sono sempre più convinto che, insieme, potremo trovare una soluzione al mio annoso problema.»

Il mago accavallò le gambe e si aggiustò i baffi con aria scocciata.

«Se aveva bisogno del mio aiuto bastava chiederlo, non le serviva mettere in piedi questa pagliacciata,» replicò, fulminandolo con un'occhiataccia.

«Ho preferito fare in modo che eventuali dissapori tra di noi non sfociassero in qualcosa di più violento,» rispose il ragazzo, il volto scolpito in una maschera d'indifferenza. «Vorrei chiarire subito che non sono intimorito da lei, semmai dovrebbe essere il contrario. Ho eretto questo incantesimo di soppressione per impedire che lei, nella sua ignoranza, potesse mettersi in pericolo.»

Giorgio cambiò posizione sulla sedia, sporse il busto in avanti e corrugò la fronte ancor più infastidito; quell'incontro non stava andando come sarebbe dovuto e quel pallone gonfiato non aveva neanche la minima idea di cosa fosse la cortesia tra gentiluomini. La sua arroganza sembrava nascere da un'eccessiva fiducia in sé stesso, tipica degli uomini troppo giovani che non avevano ancora sperimentato la vita vera. Eppure c'era qualcosa di strano in lui: quegli occhi, a prima vista quasi puerili, erano velati da una lieve patina di tacita tristezza, o era forse melanconia? Colin continuava a guardarlo con lo stesso sguardo addolorato di chi vede un anziano parente spegnersi a causa della vecchiaia o di una malattia incurabile.

Non si era ancora soffermato a chiedersi perché un ragazzo inglese così giovane conoscesse il suo segreto o come potesse essere capace di lanciare un incantesimo complesso come quello che circondava quella stanza; poteva contare sulle dita di una mano i maghi Italiani in grado di lanciare un incantesimo di soppressione delle magia. No, c'erano domande ben più interessanti che affollavano la mente del patriarca degli Archi, prima fra tutte: "da dove cazzo è comparso questo tizio?" La domanda era lecita, dopotutto i maghi italiani si conoscevano e, malgrado le relazioni diffidenti e poco amichevoli, i capifamiglia intrattenevano relazioni persino con le comunità estere; se fosse esistito in Europa un mago così giovane e così capace, sarebbe stato impossibile non venirne a conoscenza. Eppure eccolo lì: Colin Dove lo fissava insistente con quegli occhi color cielo, quasi a soppesare le reazioni di quel mago di mezza età dai vestiti fradici che aveva di fronte.

«Credo che dovrebbe, per lo meno, portarmi rispetto, Signor Dove,» mormorò Giorgio, provando a dissimulare un tono offeso. «Non ho percorso ottanta chilometri sotto la pioggia per farmi insultare e non esiterò un istante ad andarmene.»

Era una bugia: non aveva alcuna intenzione di lasciare quell'edificio prima di aver scoperto il mistero dietro quel ragazzo.

«Mi deve perdonare se ho parlato con eccessiva franchezza,» rispose Colin Dove, sospirando. «Penso che lei sia, tra tutti, la persona più indicata per aiutarmi. Ho cercato da solo per tantissimi anni una soluzione a questo problema, purtroppo senza risultati, e sono arrivato infine a soppesare l'idea di chiedere una consulenza esterna, prima di procedere con il metodo definitivo.»

Il mago non parlò e si limitò a registrare mentalmente quelle parole per poterci riflettere sopra in seguito, con più calma.

«La comunità magica italiana è una delle più antiche e siete custodi di conoscenze vecchie di migliaia e migliaia di anni. Sono stato uno sciocco a non considerare prima di poter chiedere il vostro supporto. Sono certo che lei, Signor Archi, potrà trovare una soluzione.» Colin si appoggiò allo schienale della poltrona che si reclinò appena sotto il suo peso. «Ho bisogno che lei trovi una cura per l'immortalità.»

Giorgio lanciò un'occhiata obliqua al lato della stanza, cercando di cogliere un movimento dietro di lui che potesse tradire la presenza di telecamere nascoste per riprendere la sua reazione a quell'elaborato scherzo. Eppure c'era qualcosa nella voce e negli occhi di Colin Dove che lo convincevano che era tutto vero e che non stava affatto scherzando o, per lo meno, che fosse del tutto convinto di ciò che aveva appena pronunciato.

«Signor Dove...» esordì, grattandosi la fronte.

«Colin, per favore.» Il ragazzo si aprì in un inquietante sorriso gelido. Da manuale, ma senza anima. «Diamoci del tu.»

«Certo, Colin.» Giorgio annuì, cercando le parole migliori. «Saprai sicuramente che non esiste nessun processo magico per—»

«Lo so già,» lo interruppe il giovane, lasciando trasparire un filo di stizza nella voce. «Quello che voglio è disfare l'immortalità, non ottenerla.»

All'improvviso gli fu tutto chiaro. Poco credibile, comunque, ma chiaro.

La natura di mago e l'educazione mistica impartitagli fin da bambino avevano impedito che Giorgio diventasse il classico scettico che credeva solo a quello che poteva vedere; eppure, per la prima volta, la sua apertura mentale vacillò: non poteva esistere un essere umano che avesse rotto quella barriera, non c'era modo al mondo per ottenere ciò che Colin asseriva di possedere. Era semplicemente contro natura e la magia, si sa, aborrisce ciò che è contro natura, al punto da non renderlo possibile. Nessuno poteva godere del dono dell'immortalità, perché tale dono rompeva gli equilibri del cosmo. Era accettabile per un mago volare o scagliare fuoco magico dalle mani, ma non l'immortalità.

«Io temo di non poterti essere di alcun aiuto,» sentenziò l'Archi, dopo qualche attimo d'esitazione.

«Lo pensi perché i tuoi studi non hanno mai contemplato una possibilità simile,» lo incalzò Colin. «La magia è uno strumento onnipotente, limitato solo dalla nostra immaginazione e dalla nostra volontà di metterci in gioco.»

«Eppure tu non sei mai riuscito a trovare una soluzione,» sbottò Giorgio, aggiustandosi sulla sedia e trattenendo un sospiro. «Dici che dovrei essere intimorito da te, ora ne capisco il motivo. Da quanto tempo sei in vita?»

«Quasi duemila anni,» rispose con voce mesta.

«Porca puttana.»

Evitava sempre di usare un gergo così volgare in presenza di sconosciuti, ma in quel caso non riuscì proprio a trattenersi. Per quanto scioccato fosse da quella rivelazione, non riuscì a soffocare un moto d'eccitazione: quel ragazzo era unico nel suo genere! Ed era toccato a lui l'onore di fare quella scoperta! Colin poteva essere il mezzo per raggiungere nuove vette scalabili grazie alla magia.

«Sono tanti anni... sono troppi anni,» continuò Colin. Socchiuse gli occhi e si lasciò andare a un tremulo sospiro. «Sono stanco di tutto ciò. Voglio il tuo aiuto per farmi tornare normale.»

«Io... ci possiamo provare, ma...»

Esitò: sarebbe stato molto più interessato a scoprire la fonte di quel dono, piuttosto che a distruggerlo.

«Niente ma, Giorgio!» proruppe Colin. «Tu farai tutto ciò che è in tuo potere per trovare un modo per rendermi mortale. Tu sei l'ultima spiaggia, non soltanto mia, ma di tutto il mondo.»

Una vampata di caldo investì il mago e si espanse in tutto il corpo, un po' come se qualcuno gli avesse puntato addosso una stufa rovente. Riprese a sudare incontrollato.

«Non sto scherzando,» continuò l'immortale. «Hai un anno per fare ciò che ti ho chiesto. L'alternativa al tuo fallimento, sarà la fine di tutto.»

«Che cosa intendi?» chiese lui di rimando.

«Non posso vivere per sempre in questo mondo, se non c'è più un mondo su cui vivere,» rispose Colin, socchiudendo gli occhi. «L'idea di sterminare un pianeta non mi piace perché io non sono un egoista. Ecco perché sei qui oggi: aiutare me vuol dire aiutare tutto ciò che ami.»

L'immagine di Pamela e di Leonardo gli balenarono in mente e, all'improvviso, gli fu impossibile sostenere il contatto con quegli occhi millenari senza sentire il cuore pompare a mille.

Per quanto quelle parole potessero suonare pompose o irreali, Giorgio sapeva che Colin non stava scherzando. No, non era proprio uno scherzo, era la fottuta realtà! Quell'uomo, all'apparenza così giovane, aveva avuto migliaia di anni per affinare i suoi poteri arcani e aveva tutte le carte in regola per essere il più potente mago esistente sulla faccia della Terra. Un solo essere vivente con un potere tale da decidere le sorti dell'intera umanità; era proprio quello che lo Statuto mirava a evitare. Certo che nessuno poteva mettere in conto la comparsa di un immortale.

«Ti prego di ripensarci.» Fu la debole obiezione del mago, mentre alzava la mano per asciugarsi una gocciolina di sudore che era finita a bagnargli le sopracciglia. «Non è così che risolverai le cose.»

«Risparmiami queste cazzate da terapeuta da quattro soldi,» ringhiò Colin.

Sembrava una persona del tutto diversa rispetto a pochi minuti prima: il volto era contratto in una maschera di rabbia e sofferenza, le pupille erano dilatate e un ciuffo di capelli si era ribellato alla sua acconciatura, cadendo sulla fronte a conferirgli un aspetto selvaggio e primordiale.

«Da qui a un anno ci rivedremo e tu mi darai la tua soluzione. In caso contrario, ti unirai a me nell'approntare il mio metodo.»

Si alzò e si appoggiò con entrambe le mani alla scrivania, protendendo in avanti il volto e piantando i suoi occhi ricolmi di rabbia in quelli terrorizzati del capofamiglia Archi.

«Questa conversazione rimarrà tra di noi. Fai pure tutto ciò che in tuo potere per aiutarmi, ma non raccontare a nessuno ciò che hai sentito oggi. Se mi tradisci, io lo saprò, e tu non vuoi che io decida di punire la tua famiglia per i tuoi errori.»

Si voltò dando le spalle al terrorizzato Giorgio Archi.

«Un anno, Giorgio,» ripeté.

Quelle parole erano un congedo. Era entrato in quell'ufficio convinto di uscirne con le risposte, ma se ne andava umiliato e sconfitto.

«Prego tutte le divinità che tu possa avere successo.»

La voce pacata di Colin lo accompagnò mentre apriva la porta dello studio con mano tremante. In cuor suo già lo sapeva, che le preghiere non sarebbero state sufficienti.

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