Capitolo 17. La scarpata rocciosa

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Avevano trascorso i due giorni successivi rintanati nella villa sul lago a pulirla e renderla presentabile; dopo anni di abbandono la polvere e la muffa stavano reclamando il loro dominio su quelle stanze e, a detta di Charlotte, non sarebbe stato carino ospitare un incontro di ricchi maghi in quella sporcizia. Kelhatyel era tornato nel tardo pomeriggio del lunedì e aveva risposto in modo piuttosto evasivo alle domande dei suoi compagni di viaggio, curiosi di dove fosse stato tutto il giorno; l'elfo si era limitato a fare spallucce e spiegare che aveva ripercorso un tratto di strada per verificare che nessuno fosse sulle loro tracce. Era sicuro che né i due maghi né la francese avessero creduto del tutto alle sue parole e Kelhatyel aveva l'impressione che, negli ultimi giorni, si fossero fatti più circospetti e inquisitori nei suoi riguardi, come se avessero deciso di non lasciar più correre le sue lunghe sparizioni e i suoi silenzi colmi di segreti.

Non che gli importasse in modo particolare: aveva espletato la sua missione per una buona parte, la più difficile, e mancava soltanto l'ultima pennellata per completare il quadro che stava dipingendo insieme a Colin da alcuni mesi. Per la vampira e gli altri era tardi per porsi il problema: non sarebbero comunque riusciti a fermare ciò che si era messo in movimento, ma, in ogni caso, l'elfo era sicuro che nessuno dei tre immaginasse cosa stava per succedere e che la loro diffidenza nei suoi confronti fosse frutto solo degli atteggiamenti poco socievoli che aveva mostrato fino a quel giorno.

Kelhatyel evitò, comunque, di attirarsi ulteriori attenzioni addosso e mantenne un basso profilo per i due giorni che li separavano dalla fatidica riunione dello Statuto. Rimase per tutto il tempo insieme ai tre compagni, aiutandoli a sistemare i saloni della villa e a rendere utilizzabili le numerose camere da letto nelle quali avrebbero dovuto alloggiare i loro ospiti. Sapeva di non poter fare nulla di utile in quel lasso di tempo e aveva appuntamento con Colin il pomeriggio del mercoledì, poche ore prima dell'inizio dell'incontro dei maghi, per definire gli ultimi dettagli del piano; la tenaglia si stava stringendo sempre di più intorno ai suoi ignari amici e il giorno in cui avrebbe potuto smettere di fare buon viso a cattivo gioco si stava infine avvicinando.

Era filato tutto liscio dal giorno della fuga dalla prigione insieme, ma, quel mercoledì, qualcosa andò storto per la prima volta.

Subito dopo aver pranzato con alcuni panini, Kelhatyel comunicò che aveva intenzione di fare un lungo di giro di pattuglia nella zona circostante per essere sicuro al cento per cento che nessuno li avesse localizzati o che li stesse seguendo, a maggior ragione in quel giorno così importante.

«Mi sembra un'ottima idea,» rispose Leonardo, intento a pulirsi le lenti degli occhiali. «Vengo con te.»

Quel figlio di puttana aveva deciso di rovinargli la giornata.

«Non credo sia una buona idea,» replicò l'elfo a voce bassa.

«Sarebbe meglio evitare di muoversi da soli,» s'intromise Michela, petulante. «È ovvio che ci stiano cercando e non mi spiego come sia possibile che non ci abbiano ancora trovati. Andare a zonzo da soli è il modo migliore per farsi catturare di nuovo!»

Ma non stava affatto andando a zonzo. Non vedeva l'ora di quel meraviglioso momento in cui avrebbe guardato il suo bel faccino basito e terrorizzato davanti all'evidenza dei fatti, davanti all'innegabile realtà che lei, così forte e bella, era stata fregata; fregata proprio da lui, dallo schifoso sacco di pattumiera, dall'elfo che nessuno considerava mai, quello che tutti ignoravano e odiavano. Lei, in tutta la sua sicurezza, non riusciva neanche a immaginare come mai gli uomini di Colin non avevano fatto irruzione nell'appartamento di Charlotte la notte stessa della loro incredibile fuga! Sarebbe stato meraviglioso sbatterglielo in faccia in quell'esatto momento, solo per osservare quella luce fiera nei suoi occhi spegnersi una volta per tutte. Invece rimase zitto, fissandola con insistenza, ricordandosi che mancava poco, molto poco, a quella sera.

«Va bene,» sussurrò Kelhatyel dopo qualche attimo di silenzio. «Prenderemo l'auto di Charlotte.»

«Ehi!» proruppe la vampira. «Vedi di riportarla tutta intera! Non è mia, ma sono convinta che il proprietario si risentirebbe molto se la dovesse ritrovare ammaccata!»

La conversazione finì in quel modo e l'elfo passò l'ora successiva a meditare su come risolvere quell'inghippo. Non poteva certo fare quello che doveva con il ragazzo attaccato al culo; era costretto a liberarsene prima di raggiungere Colin, ma sapeva di non poterlo semplicemente ammazzare. Colin era stato chiaro: aveva bisogno anche di lui. Di certo non sarebbe stato semplice metterlo fuori combattimento senza ucciderlo: Leonardo era pur sempre un mago e Kelhatyel non riusciva a togliersi dalla testa l'immagine della porta della cella contorta e liquefatta. No, non sarebbe stato per nulla facile, ma non doveva farsi troppi scrupoli; avrebbe sempre potuto dare la colpa a un incidente e a Colin i maghi non sarebbero certo mancati, ne aveva una villa piena da cui attingere! La mancanza di Leonardo non sarebbe stato un grosso problema, tutto sommato.

Partirono intorno alle due del pomeriggio.

L'inizio dell'incontro dei maghi era stato pianificato a partire dalle otto e Kelhatyel promise di tornare alla villa prima di cena, in modo da essere presenti tutti all'arrivo degli ospiti. Leonardo si mise al volante e seguì le indicazioni dell'elfo per raggiungere un punto panoramico che aveva scoperto qualche giorno prima mentre andava a zonzo per la zona. Si sarebbero dovuti inerpicare su per una stretta strada a tornanti e scalare una delle docili montagne che costeggiavano la sponda del lago. Durante la loro ascesa, intorno a loro c'era solo il verde degli alberi che ricoprivano il paesaggio; il clima era stato clemente quel giorno e, malgrado l'aria pungente tipica della stagione, il cielo era terso e il sole irradiava i suoi deboli raggi, scaldando più del normale l'atmosfera intorno a loro. Pareva quasi più una giornata di inizio primavera, che un mercoledì di metà gennaio, e lo strano temporale fuori stagione che aveva squassato quell'area pochi giorni prima contribuiva a rafforzare quella sensazione. Era come se anche il clima sentisse che stava per succedere qualcosa e stesse provando ad avvisare Leonardo e i suoi compagni nell'unico modo possibile. Era una fortuna che gli umani, al contrario degli elfi, fossero sordi ai segnali della natura intorno a loro.

«Non sappiamo proprio nulla di te,» disse all'improvviso Leonardo, rallentando e ruotando lo sterzo per seguire una brusca curva a gomito.

Ecco, era arrivato il momento finalmente. Kelhatyel si era aspettato un discorso del genere e temeva di sapere dove sarebbero andati a parare quel pomeriggio. Dopotutto non poteva aspettarsi che continuassero ad accettare la sua presenza senza fare domande ancora a lungo e si era preparato per quell'evenienza.

«Siamo tutti degli estranei,» commentò, schiarendosi la voce e continuando a fissare gli alberi fuori dal finestrino. «Puoi dire di poter conoscere meglio la francese o Michela?»

«No, non credo,» rispose lui. «Però loro si sono aperte, in qualche modo, e lo stesso ho fatto io.»

L'elfo lesse una punta di rimprovero in quelle parole, ma non abboccò all'amo.

«Quelli della mia razza sono fatti così. Gli elfi sono esseri molto riservati e succede sempre che i problemi vengano risolti in famiglia, senza mai farli uscire dalle mura di casa.»

Era vero: Kelhatyel non aveva mai chiesto aiuto al resto della comunità in cui aveva vissuto perché sapeva che non avrebbe ottenuto nulla. I problemi si risolvono in famiglia e nessuno all'esterno del nucleo è tenuto a immischiarsi in faccende che non gli competono. E così era andata: aveva sopportato i soprusi finché ne era stato capace e, alla fine, aveva fatto l'unica cosa che poteva per salvarsi. Era scappato, per non tornare mai più, anche se sapeva che in quel modo avrebbe accontentato i suoi merdosi zii che si erano presi cura di lui solo per sfruttarlo e per mandarlo a rubare al posto loro. Uno schifoso sacco di pattumiera molto utile, eh? Era bello far fare il lavoro sporco al piccolo schifoso Kel, rifiutato persino dalla donna che l'aveva messo al mondo, mentre gli zii rimanevano seduti su quella poltrona lercia a scolarsi tequila da quattro soldi. Alla fine se n'era andato, nel cuore della notte, scappando come il criminale che era, e quasi poteva sentire zia Glaviel, tronfia di sollievo, commentare la sua fuga con un "beh, due bocche da sfamare in meno. Il mondo non rimpiangerà quella piccola merda, così come non rimpiange quella puttana di sua madre."

Ma si era tolto almeno uno sfizio prima di sparire.

«Come sei finito in quella cella con noi?» incalzò Leonardo.

Il biondo sospirò e socchiuse gli occhi, prima di ripetere la storia che aveva preparato prima dell'inizio della missione.

«Alcuni uomini mi hanno preso una sera e mi hanno tramortito, mi sono poi risvegliato in quella cella. Qualche giorno dopo siete arrivati voi.»

«Sì, ma cosa facevi prima di essere preso?» insistette lui. «Dove vivi? Che cosa fai nella vita?»

La tentazione di prendergli la nuca e sbattergliela contro il volante era forte, ma doveva costringersi a mantenere la pazienza; forse, se gli avesse raccontato una mezza verità, sarebbe stato sufficiente a saziare la curiosità dell'umano e a evitare il disastro che si stava preannunciando.

«Vivo per strada da quando sono scappato dalla mia famiglia. Vado avanti con quello che capita e tento di arrivare alla fine della giornata.»

Aveva vissuto così per anni, in uno stato di totale straniamento dalla realtà e dal resto del mondo, andando avanti mosso solo dagli istinti naturali quali la fame, il freddo e la stanchezza. Non era tanto più che un animale per il resto degli esseri viventi, che lo guardavano come si guarda un gatto randagio e lo sfamavano più per senso di superiorità che per reale empatia, allo stesso modo di un padrone che ciba il suo animaletto da compagnia: solo per vederlo scodinzolare o fare le fusa.

«Mi... dispiace.» Leonardo esitò, preda forse di qualche strano pensiero che, però, non condivise.

«Rallenta, è subito dopo questo tornante,» indicò, brusco, Kelhatyel.

C'era davvero un punto panoramico, anche se molto spartano. Era un semplice spiazzo sterrato sul limitare di un tornante e cinto da un basso guard rail malconcio che fungeva da blanda protezione per impedire agli automobilisti distratti di finire in volo giù da una irta scarpata rocciosa. In quel punto il bosco si diradava e creava una sorta di finestra naturale, incorniciata da rami di castagno, verso il meraviglioso panorama sottostante; da quel punto si poteva osservare, come fosse una cartolina, il lago circondato da irti pendii imbiancati sulla vetta da una spolverata di neve. A giudicare dallo stato del suolo, molti visitatori erano soliti fermarsi in quel punto per scattare foto o semplicemente per osservare il panorama.

Leonardo aveva accostato l'auto ed era sceso, seguito dall'elfo, per osservare quello spaccato di natura.

«Non conoscevo questo posto,» commentò ammirato, appoggiandosi al guard rail con le mani. «Si vede anche la strada del lago!»

Era senza dubbio un ottimo luogo di osservazione della zona circostante e chiunque avesse una vista affinata come quella degli elfi poteva sfruttare l'altitudine per controllare i dintorni senza difficoltà. Quella era la scusa; la reale motivazione della loro gita era l'appuntamento che Kelhatyel aveva con Colin, proprio in quel luogo, intorno alle quattro di quel pomeriggio. L'elfo aveva poco più di un'ora per occuparsi del terzo incomodo.

Si avvicinò al mago a passi lenti. Lui continuava a dargli le spalle e osservava rapito il panorama, come fosse un bambino davanti a un cartone animato della Disney per la prima volta.

«Sai, Kel?» disse il ragazzo. All'improvviso il tono di voce era cambiato, diventando più duro e freddo. «Io credo che tu non ci stia dicendo la verità.»

Si bloccò di scatto e socchiuse gli occhi. Era a pochi passi dal mago ed era davvero convinto, fino a pochi istanti prima, che sarebbe stato facile sistemarlo. Era chiaro, però, che qualcosa gli fosse sfuggito.

«Perché non volevi che liberassimo Charlotte dalla prigione?» chiese il mago. «Forse sapevi già chi fosse e non volevi che si unisse a noi e che ci raccontasse quello che sapeva?»

Il piccolo bastardo stava collegando quei minuscoli elementi discordanti che erano sfuggiti dal piano originale, ma era troppo tardi ormai per porre rimedio. Kelhatyel iniziò a prendere respiri sempre più profondi.

«Quella sera a casa di Charlotte sei stato fuori a lungo e sei rientrato a racconto praticamente concluso,» continuò Leonardo, sempre voltato di spalle. «Eppure, quando sei tornato, non hai fatto alcun tipo di domanda, come se ti fosse sempre stato tutto chiaro.»

L'elfo tese i muscoli di tutto il corpo e strinse i pugni. Malgrado il freddo gli mordesse la carne attraverso il sottile maglione che aveva recuperato da un armadio, una fastidiosa sensazione di calore gli pervase lo stomaco. Non aveva mai affrontato un mago in combattimento e il ricordo del ruggito delle fiamme magiche che lambivano la porta metallica gli riempì le orecchie.

«Hai posto solo una domanda: sai da dove iniziare la ricerca?»

Leonardo si voltò a fronteggiarlo: era teso e la fronte era imperlata di sudore. Aveva paura, era chiaro, ma non era il solo.

«Non ti interessava la storia di Cailean, volevi solo capire quante informazioni avesse Charlotte per—»

Non gli permise di finire la frase.

Kelhatyel gli si lanciò contro con le braccia protese in avanti e un luccichio ferino negli occhi, poteva quasi sembrare una pericolosa tigre intenta a balzare addosso a una preda ignara. Ma era chiaro che la sua, di preda, non era affatto ignara. Con la velocità di un pensiero, una scintilla violacea gli apparì sul palmo della mano e il mago fu svelto nel lanciare un'ampia fiammata davanti a sé, costringendo così l'agile elfo a una piroetta da ginnasta per evitare che la rovente sferzata lo investisse in pieno. Il calore infernale emanato dall'incantesimo lo travolse e lo spostamento d'aria bollente gli scottò la pelle del volto.

In un battito di ciglia, Kelhatyel gli fu sopra e Leonardo, evidentemente basito dinanzi ai rapidi movimenti del suo avversario, non fu abbastanza lesto a difendersi. Le mani dell'elfo gli si chiusero come una pressa idraulica sulla gola e l'umano prese a fendere, spasmodico, il volto spigoloso del biondo con delle veloci quanto deboli manate. Il viso del mago si fece paonazzo nel giro di pochi attimi, ma Kelhatyel si accorse di non poter ancora cantare vittoria quando percepì sulla pelle uno strano sfrigolio appena accennato; la sensazione era molto simile a quella dell'elettricità statica sulla mano dopo aver sfregato contro un maglione di lana. Gli bastò spostare lo sguardo verso sinistra per capirne subito la fonte: sulle dita di Leonardo, protese contro di lui, si stava disegnando un'intricata ragnatela di energia elettrica violetta che danzava sul palmo della mano e si accumulava sempre di più. L'elfo sgranò gli occhi, lasciò andare la presa sulla gola del ragazzo e si lasciò cadere all'indietro. Agì un secondo in ritardo: ci fu un boato e una saetta di energia magica balenò dalla mano di Leonardo e investì la metà sinistra della tempia di Kelhatyel.

Per i primi istanti la sofferenza fu insostenibile e le uniche cose che fu in grado di percepire furono un fortissimo fischio che gli riempiva le orecchie e il lancinante dolore su tutta la faccia; sembrava che qualcuno gli avesse scaricato in testa dell'acciaio rovente. L'odore di pelle e carne bruciata gli pervase le narici e la vista si annebbiò, mentre stramazzava di schiena sul suolo duro e polveroso.

Urlò con tutto il fiato che aveva in gola e sbatté più volte la palpebra destra (quella sinistra non se la sentiva più) per provare a mantenere il controllo; sapeva che, se si fosse lasciato andare, non si sarebbe risvegliato mai più. Ma non poteva arrendersi. Non poteva deludere Colin, non dopo tutto quello che aveva fatto per lui. Sarebbe giunto il momento in cui avrebbe regalato con gioia la vita per la causa che aveva scelto, ma non sarebbe stato quello! Non per mano di quel lurido mago che aveva avuto l'idea del cazzo di affrontarlo da solo, a viso aperto.

Urlò ancora, più forte di prima, e una forza primordiale lo travolse, dandogli la spinta per rimettersi in piedi. Leonardo era accasciata contro il guard rail e tossiva violentemente, boccheggiando per recuperare aria tra un colpo di tosse e l'altro. Alzò il volto: era scarlatto e gli occhi, cosparsi da venature rosse, sembravano potergli esplodere nelle orbite da un momento all'altro. L'espressione di terrore che gli si disegnò sul volto era meravigliosa e Kelhatyel emise una risata folle quando piombò su di lui, afferrandolo per i capelli con entrambe le mani.

Leonardo lanciò un grido disarticolato e l'elfo gli fece eco con un ruggito che era un misto di dolore e trionfo. Agguantò il mago per il collo e, con un impeto di rabbia e di forza animalesca, lo spinse in avanti, mandandolo in volo oltre il guard rail, e infine giù per la scarpata rocciosa.

Il mago urlò disperato e la sua sagoma inerme scomparì oltre il bordo del precipizio; la sua ultima supplica precipitava verso il basso insieme a lui, affievolendosi man mano che la morte si avvicinava.

Kelhatyel si accasciò a terra e trovò un ultimo spiraglio di forza per rotolarsi sul terreno. Il dolore tornò a invadergli ogni cellula del corpo e la vista si oscurò, sempre di più, finché non fu circondato solo dal silenzio e dalle tenebre.

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