Capitolo 18. Gli insegnamenti di Shinichi-sensei

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

Michela non si era mai sentita così nervosa in tutta la vita; temeva che il cuore potesse esploderle da un momento all'altro. Era ormai chiaro che fosse successo qualcosa e non riusciva a mettersi l'animo in pace per concentrarsi su quello che doveva fare; stava lì, nel salone della villa degli Archi, a rigirarsi tra le mani un bicchiere d'acqua, mentre i suoi occhi dardeggiavano dall'ingresso a uno degli ospiti, e viceversa.

Il grosso salone d'ingresso era stato sistemato nei giorni precedenti e il ricco mobilio era ora finalmente libero dai teli che lo avevano protetto dalla polvere per tutti quegli anni; i lampadari erano accesi e diffondevano la loro luce calda sulle persone raggruppate sotto di loro, intente a squadrarsi per lo più in silenzio; solo alcuni parlottavano, ma con tono basso e cospiratorio. Più che una riunione amichevole, quella pareva proprio un incontro tra i capi di nazioni in guerra.

Michela cercò con gli occhi i genitori e trovò suo padre, seduto su un divano e intento a parlare con il fratello. A Michela era sempre piaciuto zio Aldo: era simpatico, affabile e tendeva a buttare tutto sul ridere, come una sorta di figura speculare e contraria al serioso e severo Giovanni Guelfi. Quello che proprio non era mai riuscita a farsi piacere era suo cugino Federico; poco più grande di lei, quell'arrogante biondino si era crogiolato nelle aspettative che tutti i famigliari riponevano in lui, alimentato dalle liturgiche parole del padre di Michela che non perdeva occasione per ricordargli che sarebbe stato suo compito portare avanti il leggendario nome della famiglia. Ogni volta che si entrava in argomento, a Michela si ribaltava lo stomaco: quanto sarebbe stato più felice suo papà se solo fosse stato benedetto con un figlio maschio invece che con una femmina?

Riportandola alla realtà con prepotenza, una sagoma entrò nel campo visivo della ragazza che sobbalzò appena, sbattendo le palpebre. Le bastò un rapido sguardo al volto tirato e agli occhi ricolmi di preoccupazione per riconoscere la madre di Leonardo, Pamela; la donna era in evidente stato di agitazione malcelata, nel quale era sprofondata dal momento del suo arrivo alla villa, quando le era stato comunicato che il figlio non era ancora ritornato dal giro di esplorazione con Kelhatyel.

«Hai saputo qualcosa? Ti ha chiamata?» le chiese, trepidante.

Michela sospirò. Charlotte aveva lasciato la villa qualche ora prima in cerca di indizi sulla scomparsa dei due ragazzi, ma non aveva ancora dato alcuna notizia; per quel che ne sapeva, poteva essere scomparsa anche lei.

«No, ancora nulla,» rispose la giovane, distogliendo lo sguardo e scandagliando la sala piena di persone.

Erano arrivati tutti, nessuno aveva osato rifiutare l'invito di Giovanni Guelfi. I suoi occhi indugiarono qualche attimo in più sulla snella sagoma di Francesco Fieschi, vestito in abiti casual che cozzavano con l'abbigliamento ricercato e impeccabile del suo interlocutore: il corpulento Ferdinando Doria sembrava essersi rimesso, non aveva tossito neanche una volta in tutta la serata e pareva in forma, abbastanza da non dover rimanere incagliato su una delle poltrone. La figlia Cassandra esibiva un sorriso tanto freddo quanto artefatto mentre conversava, in un angolo della sala, con Erika Guarneri; le due donne dimostravano la stessa età, ma era senza ombra di dubbio l'affascinante Doria a monopolizzare lo sguardo degli uomini in sala. Erika Guarneri era più bassa di una buona spanna e molto meno snella, con i tratti del volto visibilmente meno femminili rispetto a quelli affilati ma appariscenti della donna che aveva di fronte; sorrideva anche lei mentre chiacchierava, ma le micro espressioni e il linguaggio del corpo rendevano evidente la sua insofferenza.

«Dobbiamo andare a cercarlo,» disse Pamela, torcendosi le mani, compulsiva.

«Mantenga la calma, Pamela,» ribatté Michela. Piuttosto ipocrita da parte sua: non lo dava a vedere, ma sentiva lo stomaco in subbuglio, proprio come la prima volta che aveva mangiato il riccio di mare in quello schifoso ristorante di sushi da quattro soldi. Aveva vomitato per tutta la notte.

«Dobbiamo rimanere concentrate su quello che dobbiamo fare qui,» continuò, anticipando la donna che aveva aperto la bocca per ribattere. «Sono sicura che Leonardo sta benissimo!»

No, non ne era così sicura. Aveva guardato Kelhatyel con sospetto e circospezione dal giorno della loro fuga e lui non aveva mai fatto nulla per azzittire le domande che qualunque persona dotata di senno si sarebbe potuta porre. Certo, era stato con loro e li aveva aiutati a scappare e... ma lo aveva fatto davvero? No, si era limitato a seguirli per tutto il tempo, senza dire o fare nulla di propositivo o di utile alla loro causa. Era stata però Charlotte a insistere perché lui rimanesse con loro e, tutto sommato, sembrava la cosa più intelligente da fare: c'era un motivo se anche quello strano elfo era stato catturato e insieme sarebbero stati meno vulnerabili a un altro probabile attacco che, però, non era mai avvenuto. In ogni caso era palese che nessuno si fidasse di Kelhatyel ed era impossibile pensare che lui non se ne fosse accorto, ma sembrava che non gli importasse: aveva continuato a comportarsi sempre nello stesso modo, scomparendo per ore e rivelando ben poco di ciò che pensava. Quindi no, non era affatto sicura che Leonardo stesse bene e non poteva negare di aver sentito un brivido freddo lungo la spina dorsale quando il ragazzo aveva deciso di seguire l'elfo, quel pomeriggio.

Pamela annuì, ma la sua angoscia era palese e Michela si trovò a sperare che i loro piani per quella serata non venissero rovinati dall'espressione da mamma in pena per gli anatroccoli che la donna stava provando a celare, purtroppo con scarsi risultati.

«Pamela, da quanto tempo!»

La voce dal forte accento inglese apparteneva a una donna di mezza età dall'aria distinta e dal viso solare. Era sopraggiunta alle spalle della donna con passo svelto e silenzioso, tanto che sia Michela sia la preoccupata Pamela sobbalzarono udendo quella voce così vicina a loro.

«Miryam... quando sei arrivata?» rispose Pamela, voltandosi.

La nuova arrivata si sistemò un ciuffo biondo che le era caduto sulla fronte e il suo radioso sorriso si allargò ancor di più.

«Pochi minuti fa. Siamo gli ultimi, vero?» gonfiò la guance prima di sbuffare sonoramente e si grattò con l'indice la punta del piccolo naso. «Lo sai com'è fatto Ivan: è sempre in ritardo, ogni giorno della sua vita!»

Michela non l'aveva mai vista, ma, dai nomi, riuscì a capire di avere di fronte Myriam Richardson, moglie di Ivan Graziani. La loro unione era stata un evento più unico che raro; all'interno delle comunità magiche mondiali, la pratica dei matrimoni combinati non era un retaggio del passato, bensì un'usanza ancora attuale e praticata. Per quanto odiasse ammetterlo, era quasi d'obbligo studiare i migliori intrecci genetici tra individui dotati di predisposizione alla magia; costituiva il metodo più efficace per portare avanti al meglio le linee di sangue delle antiche famiglie dello Statuto. I matrimoni tra casate erano rigorosamente vietati dalle leggi, sarebbe stato troppo facile usare queste unioni come leve politiche per creare alleanze che favorissero alcuni e svantaggiassero altri, pertanto uno dei principali compiti della famiglia Fieschi era di monitorare il paese alla ricerca di persone esterne alla società dello Statuto che presentassero un innato collegamento alla Trama. Una volta individuata, alla nuova leva veniva offerta l'opportunità di una vita migliore, durante la quale avrebbe appreso un potere sconosciuto nel mondo ordinario. Molti rifiutavano, ma ancora di più erano quelli che accettavano. Ivan Graziani era stato il primo esponente di una famiglia di maghi a ribellarsi a quella pratica: sposò una donna inglese che aveva conosciuto durante un viaggio e ne scaturì uno scandalo immenso quando si scoprì che la nuova moglie del futuro erede dei Graziani non aveva alcuna predisposizione all'arcano.

Per quanto non concordasse con i pensieri più radicali di Ivan, tra cui il voler rivelare al mondo l'esistenza della loro società occulta, Michela provava un profondo rispetto per quell'uomo che aveva osato sfidare una tradizione anacronistica e senza senso. Era quello l'unico modo che esisteva per cambiare qualcosa all'interno dello Statuto: finché tutti si fossero piegati a quelle ridicole usanze, i maghi sarebbero rimasti bloccati nel tempo, imbalsamati dentro i sarcofagi dei loro dogmi, come delle puzzolenti mummie rinsecchite. Non era ciò che desiderava per il suo futuro, ma era conscia che i suoi sogni cozzassero con quelli del severo padre, che era sempre stato un convinto conservatore e si era battuto per tutta la vita perché la loro società non cambiasse.

Il chiacchiericcio distratto delle due donne davanti a lei venne interrotto dall'inconfondibile voce di Giovanni Guelfi che risuonò nella sala.

«Signori, vi chiedo un attimo di attenzione.»

L'uomo si era alzato e aveva raggiunto il centro della sala, dove poteva essere visto e udito dai presenti. «Se ci siamo tutti, direi che possiamo venire al punto focale della serata.»

Michela si allontanò dalla parete a cui era appoggiata e seguì il perimetro dell'ampia sala, fino a raggiungere la veranda attigua. Scorrendoli con lo sguardo, fece un rapido appello dei capifamiglia presenti: Ivan Graziani, con moglie e figlio adolescente; Francesco Fieschi era venuto da solo, la moglie era rimasta a prendersi cura del bambino, preda di una forte influenza; Erika Guarneri si era ricongiunta con suo marito Alfredo vicino a una poltrona sulla quale stava seduto il padre, l'anziano e rinsecchito Matteo Guarneri; Ferdinando Doria, alla fine, si era dato per vinto ed era sprofondato su un divano piazzato contro una parete, sembrava respirare a fatica e si detergeva il sudore dalla fronte con un fazzoletto candido, Cassandra stava in piedi al suo fianco; Pamela si era avvicinata di qualche passo e si era lasciata cadere su una poltrona, lo sguardo perso nel vuoto e la mente lasciata andare a chissà quali pensieri. Infine, Giovanni Guelfi aveva catalizzato su di sé l'attenzione generale, e da un divanetto non troppo distante lo osservavano suo fratello, la moglie Marta e il promettente nipote. Non c'erano tutte le famiglie al completo, ma era comunque un ottimo risultato per un incontro organizzato in pochi giorni. Quell'immagine, comunque, rappresentava qualcosa di storico: il primo grande incontro delle personalità di spicco nello Statuto dopo un numero indefinito di anni! Un pizzico di orgoglio allontanò per un istante la preoccupazione che attanagliava Michela: quell'evento era stato possibile anche grazie a lei, era parte della storia.

«Vi ho chiesto di riunirci qui per parlarvi di un problema, un problema grosso che potrebbe minacciare ciascuno di noi,» iniziò Giovanni, togliendosi gli occhiali per pulirne le lenti con un panno. «Lascerò che sia mia figlia a raccontarvi gli eventi che l'hanno vista coinvolta in questi ultimi giorni.»

Si girò verso Michela e le fece un rigido cenno con il capo. La ragazza avvampò; non si aspettava proprio quello sviluppo! Lei che parlava davanti a tutti? Era convinta che sarebbe stato il padre a esporre i fatti, non lei. Si guardò intorno, nervosa: gli occhi di tutti erano puntati su di lei, ma gli unici di cui era davvero conscia erano quelli del suo gelido genitore; la fissava con insistenza, come a volerle dire "avanti, fammi vedere che ne sei capace". Dopo il primo attimo in cui rimase attonita, Michela serrò la mascella e corrugò appena le sopracciglia, rispondendogli con il volto più battagliero che fu in grado di assumere; voleva fare lo stronzo con lei e metterla in difficoltà davanti a tutti? Beh, ne sarebbe rimasto molto deluso. Avrebbe dimostrato ai presenti che lei aveva ogni diritto di stare in quella stanza e di parlare davanti a loro, che sarebbe stata lei a portare avanti il nome della famiglia, e non quella pomposa testa di cazzo di suo cugino!

Si accostò al punto dove il Dottor Guelfi stava fermo a fissarla e, senza dirgli nulla, prese un ampio respiro e iniziò a parlare.



Charlotte aveva lasciato la villa intorno alle sette di sera, intenzionata a scoprire dove fossero finiti quei due cretini. Per quanto l'elfo avesse sempre avuto il brutto vizio di andarsene in giro da solo e scomparire per ore, era sicura che quello non fosse un atteggiamento che Leonardo avrebbe condiviso; era strana la loro scomparsa e non aveva alcun dubbio che dietro a quell'evento si celasse la minacciosa ombra di Cailean.

Aveva quindi lasciato, seppur a malincuore, la bella Michela a fare gli onori di casa con gli altri maghi, aveva infilato una delle sue Smith & Wesson nella fondina che si era allacciata al busto e, infine, si era legata alla cintura l'inseparabile spada. Quando Michela l'aveva vista uscire così armata, Charlotte aveva letto paura e preoccupazione in quegli splendidi occhi e avrebbe tanto voluto cingerla in un abbraccio per il solo gusto di sentire la morbidezza di quella tenera carne e gustarsi l'odore del suo sangue bollente. Per confortarla e dirle che sarebbe andato tutto bene, ovviamente, non certo per allungare le mani su di lei.

Lasciando la villa aveva sorriso e aveva assicurato che sarebbe tornata in massimo un'ora, ma, dentro di sé, la vampira era certa che avrebbe avuto bisogno delle armi, ben prima della fine della giornata.

Erano anche stati piuttosto fortunati, a dirla tutta: era passata quasi una settimana dalla fuga dalla prigione di Cailean, eppure sembrava non fossero mai stati seguiti o rintracciati. Non erano neanche stati così attenti a mascherare le loro tracce, persino un cieco sarebbe riuscito a seguire la pista che avevano lasciato, figurarsi uno come Dow; eppure i giorni appena trascorsi erano stati sereni, come in un week-end fuori porta.

Mentre seguiva la piccola strada che si snodava su per un colle immerso nel verde, al buio, Charlotte non poté fare a meno di pensare a quanto fosse strana quella situazione. Non si era mai fermata a ripercorrere gli eventi e le stranezze palesi che si celavano dietro alla storia del rapimento dei due maghi e dell'elfo; forse aveva peccato di presunzione e aveva dato troppe cose per scontate, ma c'erano delle evidenti incongruenze in quella faccenda. Prima fra tutte: possibile che uno come Cailean avesse catturato due maghi e li avesse chiusi in una cella senza alcuna protezione magica? Le corde che la tenevano legata nella sua prigione erano ricoperte di un incantesimo che le toglieva le forze e le impediva la fuga, possibile che nessuno avesse pensato di fare una cosa simile con due ragazzi che lanciavano saette dalle dita?

Charlotte si fermò al centro della carreggiata e si guardò intorno; per il primo tratto di percorso era riuscita a seguire l'inconfondibile odore di Kelhatyel che sovrastava qualsiasi altro aroma, ma l'aveva perso dopo circa mezzo chilometro. Aveva passato le ultime due ore a percorrere le strade che costeggiavano il lago e le vie più tortuose che si snodavano lungo il fianco delle montagne; si era immersa persino in alcuni sentieri affondati negli arbusti e nel sottobosco, ma dell'elfo e di Leonardo non aveva trovato alcuna traccia. Purtroppo erano trascorse già varie ore e, per quanto il suo fiuto fosse sviluppato, la traccia lasciata dall'acre sentore di elfo si era fatta più debole ed era stata coperta da una serie di altri odori riconducibili alla natura lussureggiante che la circondava.

«Merde!» urlò Charlotte a denti stretti, sbattendo il piede per terra, dopo essersi sincerata che non ci fosse nessuno che potesse sentire quello sfogo. Non era carino che una brava dama si mostrasse volgare davanti ad altre persone.

Che cosa avrebbe fatto Shinichi in una situazione simile? Per lui era tutto semplice, no? L'anziano vampiro avrebbe sorriso, si sarebbe sistemato una ciocca dei suoi fluenti capelli scuri e le avrebbe rifilato qualche massima giapponese del cazzo tipo "dai la cera, togli la cera". Adorava Shinichi, le aveva fatto da mentore per tantissimo tempo e le aveva insegnato tutto quello che aveva assimilato in circa un millennio di non vita, eppure quando Charlotte si ritrovava a pensare al giapponese e alla sua faciloneria, la prima cosa che sentiva era un senso d'irritazione soverchiante. Era sempre stato così, con lui: per quanto fosse diventata brava, si sarebbe sempre sentita una bambina spaurita in confronto al suo maestro.

"Quando non sai come andare avanti, voltati e guarda la strada che hai già percorso", le aveva detto, tanti anni prima. Già, certo. Dai la cera, togli la cera, per l'appunto.

Infastidita e sconfitta da quel senso di impotenza che non sentiva da tanto tempo, Charlotte chiuse gli occhi, si voltò di novanta gradi, li riaprì e rimase a guardare i bordi della via da cui era arrivata. Era ovviamente un discorso figurato, nessuno si aspettava che la risposta fosse scritta sull'asfalto crepato; ciò che Shinichi-sensei le stava ricordando era di ripercorrere il passato e studiare gli eventi che l'avevano portata al presente. Si trovò a ripensare al suo ultimo anno: l'indagine su Cailean, la cattura, l'interminabile prigionia, la liberazione per mano di Leonardo e Michela, la loro fuga insieme a Kelhatyel, l'idea di unire la comunità magica contro un nemico comune... che cosa c'era di strano in quegli eventi? Qual era l'elemento che non tornava?

Beh, era chiaro: era stato tutto troppo semplice. Fino a quel giorno tutto era andato secondo i piani, senza alcun intoppo, come se... come se Cailean non li stesse inseguendo, ma li stesse, invece, accompagnando per mano, come fa una docile maestra con i suoi pupilli dell'asilo.

"Maestra Cailean, posso scappare dalla mia cella?"

Il comico siparietto di un piccolo Leonardo che alzava la mano, seduto al banco di scuola, si formò nel cervello della vampira.

"Ma certo, piccolo Leo, vai pure; se non sai dove andare, fatti accompagnare dal tuo piccolo amico elfo", rispose Cailean Dow, il volto celato da pesanti occhiali e da folti boccoli biondi da insegnante di college uscita da uno scadente film americano.

Charlotte spalancò gli occhi e lanciò una colorita imprecazione in francese.

L'elfo, ecco cosa non tornava! Cazzo, come aveva potuto essere così stupida? Si era crogiolata nella sua ritrovata libertà e aveva dimenticato l'insegnamento fondamentale che l'anziano mentore le aveva trasmesso: "guardati sempre intorno". Non aveva guardato proprio da nessuna parte e aveva tirato dritto pensando solo alla missione e alla sua voglia di vendetta. Quasi quattrocento anni di non vita, di cui cento spesi a imparare da Shinichi... eppure era ancora la stessa cogliona che si era lanciata a testa bassa contro il cardinale Richelieu, senza sapere davvero cosa stesse facendo e a cosa stesse andando incontro.

I muscoli le si mossero da soli. In un baleno si ritrovò a correre a perdifiato attraverso la foresta, giù per il pendio della montagna, quasi volando di albero in albero come succedeva nei film di arti marziali asiatici. Cailean non aveva mandato i suoi uomini a cercarli dopo la loro fuga semplicemente perché non aveva bisogno di mandare nessun altro: Kelhatyel era stato messo apposta nella stessa cella dei due maghi perché si unisse a loro, li seguisse e riportasse al suo capo tutte le loro mosse. La cattura e la prigionia dei due maghi era stata una farsa, e Charlotte avrebbe dovuto capirlo fin dal primo momento! Ancora non sapeva quale fosse lo scopo di quell'elaborata macchinazione, ma era certa di una cosa: Dow era a conoscenza di ogni loro spostamento e, pertanto, sapeva della presenza di un nutrito gruppo di maghi in quella villa a ridosso del lago. La vampira non aveva idea di cosa il nemico volesse ottenere, ma non c'era dubbio che avrebbe fatto la sua mossa quella notte e la sparizione di Kelhatyel e di Leonardo ne era l'inconfutabile prova.

Raggiunse i piedi della montagna in un tempo che avrebbe fatto invidia a un atleta olimpionico; attraversò una piccola strada asfaltata e oltrepassò con un balzo una siepe che delimitava il piccolo giardino di un'abitazione, lo attraversò correndo e saltò dall'altro lato di una recinzione, volando per qualche metro fino ad atterrare con agilità. Evitando di seguire le tortuose viuzze che scendevano verso il lago ci avrebbe impiegato molto meno a tornare alla villa, così continuò nella sua coreografica corsa a ostacoli attraverso strade, siepi, steccati e abitazioni sempre più frequenti. Dopo solo pochi minuti giunse in vista del percorso che costeggiava il lago; la separavano da villa Archi soltanto qualche centinaio di metri, ma si bloccò sbarrando gli occhi quando il suo naso percepì qualcosa: era l'odore dell'elfo. Kelhatyel era passato di lì non troppo tempo prima, non più di una mezz'ora probabilmente.

Si lanciò in corsa, ma, di nuovo, dovette fermarsi dopo pochi metri: due macchine stavano ferme in orizzontale lungo la carreggiata, bloccando così il traffico in entrambi i sensi di marcia.

«Merde!» ringhiò Charlotte.

Fece un rapido balzo e si arrampicò, silenziosa nella notte, su per il muro di un piccolo edificio a ridosso della via. Raggiunto il tetto, guardò in basso; aveva la vista era abbastanza buona da poter vedere villa Archi e per constatare che era arrivata tardi. Alcune auto nere bloccavano il tratto di strada intorno alla villa e, davanti alla viuzza che conduceva al cancello d'ingresso, stavano fermi altri veicoli, tra cui un paio di furgoni anonimi. Alcuni uomini vestiti con tute mimetiche nere e rigidi corpetti antiproiettile si stavano avvicinando all'ingresso del parco che circondava la casa, erano ovviamente armati fino ai denti.

«Cazzo!» sbottò la vampira, mettendo mano alla fondina per estrarre la pistola.

Mentre si spostava lungo il bordo del tetto per avvicinarsi, cauta, alla meta, la sua attenzione venne catalizzata verso uno dei veicoli neri: una sagoma umanoide era appena uscita e stava seguendo con passo tranquillo gli altri uomini armati. Charlotte ne vide solo la nuca e la schiena, ma ne sentì l'olezzo, e fu sufficiente per far sentire al suo corpo morto la gelida morsa della paura.

Cailean Dow in persona si stava recando a portare i suoi omaggi ai maghi dello Statuto.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro