Capitolo 23. Abbandonata

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Michela stava seduta nel minuscolo locale dove l'avevano rinchiusa. Era da sola, a tenerle compagnia c'era solo una scomoda branda dell'Ikea e una mezza dozzina di bottiglie d'acqua; il suo aguzzino era stato abbastanza gentile da evitarle di morire di sete, almeno.

Aveva confusi ricordi degli avvenimenti del giorno precedente e riusciva a richiamarli solo come frammentate sequenze d'immagini che si mescolavano e si confondevano, creando un collage di eventi senza senso. Prima era nell'auto dei rapitori insieme a suo padre e sua madre, seguiva i contorni sfocati del paesaggio esterno; poi era nel salone della villa degli Archi, parlava davanti a degli sconosciuti mentre loro la fissava di rimando, con volti vuoti e privi di fattezze; subito dopo varcava le porte di un edificio, accompagnata dagli altri maghi prigionieri, mentre alcuni uomini armati li scortavano lungo corridoi bui; Leonardo le diceva che sarebbero tornati nel giro qualche ora; i soldati avevano fatto irruzioni nel salone, urlando e puntando contro le armi; veniva spinta all'interno dello stanzino e la porta si chiudeva alle sue spalle, lasciandola nell'oscurità. Il ricordo più nitido era di essersi rannicchiata in un angolo, cercando la protezione delle pareti che si chiudevano su di lei, a piangere come un cagnolino terrorizzato durante un temporale.

Si era addormentata in quella posizione, ignara della branda ripiegabile che occupava una buona metà della stanza.

Venne bruscamente svegliata dal rumore di una chiave che girava nella serratura. Con il fiato mozzato, Michela si spinse con i talloni contro la parete, come se cercasse di sprofondare al suo interno. L'uomo che fece capolino all'interno la trovò rannicchiata a terra, i grandi occhi verdi dilatati di terrore mentre lo fissavano. Non si era mai sentita così inutile in tutta la vita e aveva ormai abbandonato il suo proposito di controllare le emozioni e di riflettere in modo razionale. Non aveva più alcuno spazio libero in testa per il pensiero coerente, era schiava di emozioni primordiali che l'avevano tramutata in poche ore nell'ombra della ragazza che era stata. Non c'era più alcun briciolo di certezza nella sua vita: la magia l'aveva abbandonata, la sua famiglia non era più con lei, Leonardo e Charlotte erano morti.

Il suo visitatore si limitò a chinarsi a terra per far scivolare sul pavimento un vassoio di plastica; prima ancora che Michela potesse rendersi conto di cosa stesse succedendo, l'uomo era sparito e la porta si stava richiudendo. Un ronzio elettrico anticipò l'accensione di una lampada alogena sul soffitto, che illuminò l'ambiente con la sua luce fredda.

La maga si protese in avanti per sbirciare il contenuto del vassoio: una tazza di cartone che le ricordò molto Starbucks, un piccolo panino, una confezione di fette biscottate e un minuscolo vasetto di marmellata alla ciliegia. Cazzo, quanto odiava le ciliegie. Ma non esitò neanche un istante. La paura aveva fino a quel momento messo a tacere la voragine che le si era aperta nello stomaco, ma la fame si fece sentire con prepotenza nell'esatto momento in cui l'aroma del caffè arrivò a solleticarle le narici. Ignorando il fatto che quel cibo le fosse stato portato dal suo nemico, cieca e sorda alle grida d'allarme che il suo spirito di autoconservazione le stava lanciando, si avventò sulla generosa colazione come se non mangiasse da secoli. Alla fine, che senso aveva costringersi a digiunare? Se Cailean l'avesse voluta morta avrebbe potuto spararle in testa, proprio come aveva fatto con Ferdinando Doria la sera prima; non aveva bisogno di avvelenarle il cibo o ricorrere a mezzi del genere, era libero di fare di lei ciò che desiderava.

Pur con il freddo metallo delle manette che le scavava nei polsi, Michela mangiò voracemente e bevve il caffè fino all'ultima goccia. In preda a un attacco di vergogna per aver messo da parte l'orgoglio in favore del puro bisogno fisico, la maga si acquattò di nuovo contro la parete e rimase in quella posizione a rimuginare sugli eventi per un tempo indefinito. Non accadde per sua volontà, ma i pensieri vennero sostituiti da sogni nebulosi, quando cadde in uno stato di semi veglia; tutta la tensione che aveva accumulato in quelle ore stava defluendo in una violenta scarica di stanchezza fisica e mentale e, per quanto volesse rimanere vigile il più possibile, non poté fare a meno di addormentarsi ancora.

Venne svegliata, come qualche ora prima, dal rumore della porta che si apriva, unito a un pressante fastidio al basso ventre che indicava, in maniera incontestabile, che la sua vescica aveva bisogno di fare una visita al bagno.

La sagoma di un'altra persona si stagliò nella voragine lasciata aperta dall'uscio; Michela sgranò gli occhi quando vide il suo corpulento visitatore, vestito con degli abiti mimetici scuri, imbracciare un fucile, per il momento senza puntarlo nella sua direzione.

«Fuori,» intimò l'uomo incorniciato nello stipite dell'ingresso. Una folta barba scura gli copriva la parte inferiore del viso, ma non abbastanza da nascondere il suo ampio ghigno.

Lei rimase immobile, le gambe percorse da un lieve tremore. Ecco, era giunto il momento: quell'uomo era venuto a prenderla per ucciderla. Che cos'era quel dolore alla pancia che sentiva? Perché lo stimolo ad orinare si era fatto così insostenibile? Sapeva che sarebbe bastato un minimo movimento del corpo per perdere il controllo e non voleva, no, non voleva morire così, umiliata e sconfitta! Come una poppante che si pisciava addosso, come un anziano spirato nelle sue stesse secrezioni.

Iniziò a piangere, perché in fondo era davvero una poppante che si pisciava addosso dal terrore. Poteva fare l'arrogante e la superiore quanto voleva, ma era solo la magia a darle potere, non aveva altri meriti se non quello di essere nata con un privilegio. Tolto quel dono che cosa le rimaneva? Nulla. Spogliata del suo diritto di nascita, non era nulla. Un manichino vuoto senza qualità. Leonardo almeno ci aveva provato, aveva tentato di trovare sé stesso anche senza essere portato a braccetto dalla Trama e, alla fine, aveva avuto ragione lui: la magia era venuta a battere cassa anche per lei, sotto forma dell'inquietante figura di Cailean Dow, e il pagamento richiesto era stato troppo alto. Già, stupido o meno, il suo amico Archi l'aveva vista giusta da sempre. Magra consolazione, vista la fine che aveva fatto.

«Avanti,» incalzò l'uomo, facendo un passo nella cella.

Lasciò andare il fucile, che rimase appeso alla tracolla a cui era legato. La mente di Michela le urlava di scappare, di provare a sgusciare in mezzo alla gambe del suo aguzzino, di vendere cara la pelle e di non arrendersi, ma il suo corpo era incapace di rispondere a quegli stimoli. Il mercenario le afferrò la mano; lei provò a divincolarsi, ma le sue forti dita guantate erano ormai strette intorno al polso e ogni movimento che faceva le causava ulteriore dolore per le manette che le parevano stringersi sempre più sulla pelle.

Facendo leva sulla sua forza bruta, l'uomo l'alzò in piedi, ma le gambe della maga non ressero e sarebbe crollata sul pavimento se il soldato non fosse stato pronto a sorreggerla con entrambe le mani.

«Porca puttana!» esclamò, facendo passare il braccio sotto le ascelle della ragazza per portarla fuori dalla cella. «Non mi pagano abbastanza per questa merda.»

La strana coppia percorse uno sterile corridoio tinteggiato di bianco, illuminato solo da una banale fila di luci al neon. Il silenzio tombale era rotto soltanto dal rumore dei passi pesanti del mercenario e di quelli più deboli e strascicati di Michela. Insieme oltrepassarono alcune porte chiuse e, lanciando delle rapide occhiate, la maga notò altre guardie pattugliare la zona; le fu semplice capire che quelle dovevano essere le celle dei suoi sfortunati compagni. Sarebbe stata lei la prima a morire, o altri l'avevano preceduta? Le porte erano chiuse, ma non voleva per forza significare che ci fosse ancora qualcuno imprigionato lì dentro.

Si fermarono una volta arrivati in fondo al corridoio, dove si apriva l'entrata metalliche di un ascensore, posta al fianco di quella che aveva l'aria di essere un'uscita di emergenza, con tanto di maniglione antipanico. Non era comunque quella la loro meta, perché l'uomo le aveva indicato l'ultima della fila di portoni che si apriva sulla parete sinistra.

«Entra e datti una sistemata, il capo vuole vederti,» le disse, lasciandola andare e spingendola in avanti.

Michela quasi ruzzolò a terra, ma riuscì a trovare l'equilibrio e si appoggiò alla maniglia per non cadere. Spingendola appena, l'uscio si aprì e, dallo spiraglio, la maga scoprì di essere stata accompagnata in bagno, come se qualcuno le avesse letto nel pensiero.

Prima di entrare, però, abbassò lo sguardo sulle manette e sui polsi arrossati; si voltò verso il suo aguzzino e disse titubante:

«Ma, le manette...»

«Niente cazzate!» intimò lui, appoggiando la mano sul calcio dell'arma. «Puoi benissimo abbassarti le mutande anche con i polsi legati. Te l'assicuro, l'ho visto fare di persona.»

La sua risata sguaiata echeggiò nel silenzio del corridoio.

«A meno che,» aggiunse, vedendo che Michela esitava, «tu non voglia una mano. Sarei contento di aiutarti, se me lo chiedi.»

Osservò l'interezza del corpo della ragazza con la lascivia che gli illuminava gli occhi.

Fu sufficiente per convincere la Guelfi: si voltò e oltrepassò l'ingresso del bagno, richiudendo la porta dietro di sé, mentre una seconda risata rimbombava all'esterno.

Un singolo sospiro tremante le sfuggi dalle labbra e le lacrime si ripresentarono a rigarle il volto. Inutile. Senza magia era inutile. Si trascinò fino al gabinetto e, con fatica e tramite complicate manovre, lavorando prima su un fianco e poi su un altro, riuscì ad abbassarsi i Jeans e si sedette sulla tazza. Si liberò completamente la vescica e l'intestino, e subito una sensazione d'improvviso sollievo le rilassò le membra.

Rimase seduta per più tempo del dovuto, a riflettere su cosa le sarebbe potuto succedere nel giro di pochi minuti. Cailean la voleva vedere: poteva significare soltanto che non sarebbe ancora morta, non a breve almeno. Voleva soltanto parlare, c'era ancora speranza di poter trovare una soluzione a tutto quel cazzo di casino e uscirne viva insieme agli altri; dopotutto come poteva essere sicura che il loro rapitore la volesse davvero uccidere? Era stata catturata ed era scappata già una volta... anche se iniziava a sospettare che la loro fuga insieme a Kelhatyel non fosse altro che una stupida messinscena per fare in modo che l'elfo si unisse a loro. Aveva sempre pensato che fosse stato troppo semplice liberarsi da quell'edificio abbandonato: nessun incantesimo a protezione, nessuna restrizione, eppure avevano avuto le prove che il loro nemico ne aveva le capacità; tutto lasciava pensare che lei e Leonardo fossero stati catturati e messi in condizione di poter facilmente scappare. L'idea le ronzava nella testa da giorni, ma non si era mai soffermata davvero a cercare una risposta a quella domanda, più che altro perché non ne vedeva il senso: erano già stati rapiti una volta, che utilità poteva avere il lasciarli fuggire per poi catturarli una seconda volta?

Qualcosa di pesante si abbatté sulla porta del bagno e Michela sobbalzò.

«Muoviti!» La voce della guardia le arrivò dall'esterno. «Al capo non piace aspettare.»

Non se lo fece ripetere. Si alzò, si sistemò alla meglio i pantaloni e si accostò al piccolo lavandino. Lasciò scorrere qualche secondo l'acqua, poi mise le mani a coppa sotto il getto e si lanciò in faccia un abbondante schizzo gelido; rabbrividì per un istante mentre il freddo le mordeva la pelle del viso, ma si sentì subito più lucida. Sentiva ancora la paura soffocante in agguato dietro le sue spalle, ma era sicura di essere almeno tornata in grado di riflettere con coerenza e di essersi liberata di quel panico cieco che l'aveva agguantata fino a qualche minuto prima.

Aprì la porta e tornò dal suo aguzzino con un'espressione diversa: i suoi occhi brillavano di determinazione e non erano più offuscati dal terrore. Anche il mercenario sembrò accorgersene, perché non rise né le riservò parole minacciose, ma si limitò a prenderle l'avambraccio e condurla verso l'ascensore.

Rimasero in silenzio durante tutto il percorso nell'asettico abitacolo. Quando le porte slittarono di lato, l'uomo spinse Michela in un nuovo corridoio: il pavimento era ricoperto da moquette chiara, mentre le pareti, tinte di un tenue color ocra, erano illuminato da alcune arzigogolate lampade intervallate lungo i muri. Proprio sulla parete davanti a loro c'era un grosso portone di legno scuro laccato a doppio battente, ma non fu quello la prima cosa che la ragazza notò: dal fondo del corridoio stava arrivando un secondo uomo armato che accompagnava Giovanni Guelfi.

«Papà!» chiamò lei, sollevata dal vedere un volto familiare.

Suo padre era ammanettato come lei e i vestiti sgualciti indicavano che anche lui non se la fosse certo passata bene. Eppure la sua espressione non era cambiata: i suoi occhi freddi saettava a destra e sinistra con fare analitico e il suo volto duro era quello di sempre, pareva che nulla al mondo potesse scalfire la sua compostezza. Era sicura che lui non si fosse lasciato andare a scenate di pianto come era accaduto a lei... perché era Giovanni Guelfi, il migliore di tutti e lei era solo Michela, la figlia che non sarebbe mai stata abbastanza.

«Michela,» rispose lui, il volto immutato. «Stai bene?»

La sua voce era atona e non lasciava trasparire reale preoccupazione, ma Michela lo conosceva abbastanza da sapere che quelle parole erano già tanto per uno come lui.

«Sì.» Provò a parlare con tono forte, ma un nodo alla gola le incrinò la voce. «La mamma?»

«Non lo so,» rispose Giovanni. «Ci hanno tenuti tutti separati.»

La guardia barbuta intervenne nel discorso:

«Non vi abbiamo portati qui per chiacchierare, piantatela!»

Il secondo uomo armato si era invece avvicinato alla porta e aveva aperto uno spiraglio, infilando la testa all'interno; pochi istanti dopo si ritrasse e fece cenno ai due Guelfi di entrare.

Giovanni si mosse subito, senza degnare di uno sguardo i due mercenari; spinse il pesante battente e varcò la soglia, seguito poco dopo da una più esitante Michela. Tutto sommato si sarebbe aspettata un arredamento molto diverso: la stanza era di modeste dimensioni e quasi vuota, c'erano soltanto una larga scrivania in vetro su cui stava appoggiato un laptop e tre sedie, una posta sul retro dal tavolo e due sul davanti. La luce filtrava da due ampie finestre sulla parete opposta, oltre che da un vasto lucernaio aperto sul centro del soffitto: un paio di lampade da terra dal design essenziale erano poste negli angoli, ma erano spente. Non c'erano tappeti a coprire il parquet chiaro e le pareti, sempre dello stesso color ocra, erano nude e prive di ornamenti. Quella stanza rispecchiava senza ombra di dubbio ciò che il loro rapitore doveva avere nel cuore: un profondo vuoto e un gelo irrimediabile.

Seduto su una delle due sedie di fronte alla scrivania c'era Kelhatyel. Aveva ancora la parte sinistra del volto fasciata e portava una fondina ascellare sopra la maglietta nera che gli aderiva al fisico scheletrico; non la guardò quando entrarono nella stanza e Michela, allo stesso modo, non degnò il traditore neanche una minima occhiata. La sua attenzione, così come quella di suo padre, era attirata dal giovane che stava accomodato dietro il tavolo lucido.

Non aveva avuto tempo per osservarlo bene, la sera prima, ma la cosa che più la scosse dell'intera figura di Cailean Dow furono quegli occhi color cielo: non c'era alcuna scintilla di vitalità nelle pupille, parevano vitree come quelle di un cieco. Michela rabbrividì.

«Buongiorno,» esordì il ragazzo, sistemandosi un ciuffo di capelli ramati che gli era caduto sulla fronte. Malgrado la sua origine straniera, parlava un italiano perfetto, privo di qualsiasi accento. «Mi auguro che siate riusciti a dormire in modo consono.»

Né Michela né Giovanni risposero, quindi Cailean fece spallucce e proseguì.

«Credevo che sarebbe stato corretto darvi delle spiegazioni, prima della fine; soprattutto a te, Michela. Ti ho usata in modo molto scortese per portare a termine il mio progetto e credo di doverti delle scuse.»

Qualcosa si ruppe all'interno della maga. Fece un passo avanti e sbottò:

«Mi stai prendendo per il culo?»

L'ultima parola riecheggiò tra le pareti vuote, ma nessuno rispose. Kelhatyel le aveva scoccato uno sguardo obliquo con l'unico occhio visibile, mentre l'immortale aveva sostenuto senza scomporsi gli occhi carichi di rabbia della ragazza.

«Le tue scuse?» proseguì Michela in un sibilo. «Avete ammazzato Ferdinando Doria e ti vorresti scusare con me per avermi rapita? Cristo, ma sei pazzo?»

Kelhatyel si mosse sulla sedia, ma venne frenato da un lieve cenno della mano da parte di Cailean.

«Sì, Michela,» rispose calmo. «Certo che sono pazzo. Chiunque lo diventerebbe, se messo nelle mie condizioni. Non fare l'errore di giudicare le cose solo dal tuo punto di vista. Vi ho usato la cortesia di organizzare questo incontro perché spero che, ascoltando la mia storia, voi possiate capirmi e prestarvi volontariamente a ciò che vi aspetta. Non vorrei costringervi, sapere che ho il vostro appoggio mi sarebbe di grande sollievo.»

La Guelfi sgranò gli occhi dinanzi a quelle parole così glaciali e ponderate, ma rimase zitta, non sapendo come replicare.

«D'accordo,» rispose Giovanni Guelfi. «Ascolteremo quello che hai da dire.»

Ovvio, era la cosa più giusta da fare, e suo padre aveva colto l'occasione senza scomporsi: più informazioni si sarebbero tradotte in più possibilità di ribaltare quella situazione. Ma Michela non riusciva, in cuor suo, a essere fredda e analitica come lo era lui; come poteva tenere a freno le emozioni che le squassavano il cuore? Come poteva suo padre mantenere il controllo in quel momento disperato? Con un filo di gelo nell'anima, si chiese se davvero ci fosse differenza tra Cailean Dow e Giovanni Guelfi: entrambi si scrutavano con occhi calcolatori e senza barlume di sentimenti.

«Proverò a iniziare dal principio,» spiegò il giovane, cambiando posizione sulla sedia. Fece un sorriso meccanico e al contempo inquietante; sembrava Chucky, la bambola assassina. «Dovremo scavare a fondo, tornando indietro nel tempo di quasi duemila anni. Quando avrò finito, anche voi conoscerete il segreto che si cela dietro alla magia.»

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