Capitolo 26. In difesa della persona amata

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Kelhatyel sedeva nello studio improvvisato che Colin aveva frettolosamente allestito; non che ci fosse bisogno di arredare una stanza che sarebbe stata usata per poche ore, dopotutto quella notte tutto sarebbe finito e nessuno sul pianete avrebbe mai più avuto bisogno di una comoda poltrona da ufficio. Non aveva nulla di meglio da fare se non aspettare insieme al suo capo, se così si poteva chiamare, che arrivasse l'ora indicata per il progetto e, dopo aver riaccompagnato i due Guelfi nelle loro celle al piano sotterraneo, era rimasto tutto il resto del tempo nell'ufficio, spendendo il tempo in chiacchiere leggere.

Colin, di solito, era un uomo silenzioso e riflessivo, ma con lui finiva per aprirsi molto spesso, come se l'attitudine dell'elfo a parlare solo quando necessario fosse un ulteriore stimolo a riempire i silenzi che andavano a crearsi inevitabilmente tra di loro. Quel giorno, l'immortale si era immerso in una lunga elucubrazione sul primo viaggio nei neonati Stati Uniti che aveva fatto e Kelhatyel lo ascoltava annuendo, ma la sua mente, in realtà, vagava altrove.

In quelle poche volte che aveva visto Michela e suo padre, era sempre finito a rimuginare sul loro rapporto e sul significato di essere legato a qualcuno. Lei e Giovanni Guelfi erano strani e impacciati nelle loro interazioni, eppure quello che Kelhatyel provava, nel profondo, era una sorta di strana invidia. Quella ragazzina viziata non poteva proprio immaginare quanto fosse fortunata: tantissime altre persone potevano solo sognarselo quello strano rapporto che lei aveva con il genitore.

E poi che ne poteva sapere lui del vero significato del rapporto tra genitori e figli? Non aveva mai conosciuto i suoi genitori biologici e quelli che ne avevano fatto le veci non sarebbero certo stati incoronati come genitori dell'anno. Era un eufemismo: i suo zii erano stati dei genitori davvero di merda. Quanto tempo era passato da quando se n'era andato? Non se lo ricordava neanche; gli sembrava una vita fa, eppure i ricordi di quegli anni non accennavano a scomparire, erano immagini impresse con il fuoco nell'anima, un mosaico di immagini nitide e dolorose appiccicate con la colla a caldo sopra il suo cuore rinsecchito.

Il suo primo ricordo in assoluto era legato al freddo. Stava fermo immobile, a piedi nudi nella neve appena deposta sul marciapiede, e guardava la gente passargli davanti; nessuno sembrava vedere quel bambino emaciato fermo sul ciglio della strada, come fosse invisibile agli occhi altrui, una qualità che gli sarebbe tornata molto utile negli anni a venire. Si era mosso rapido, sgusciando in mezzo alla folla di passanti, gli occhi fissi sul bersaglio, e aveva sfilato con mano leggera il portafogli dalla borsa della donna; il ghiaccio gli pungeva la pelle nuda, ma sapeva che era un dolore ridicolo rispetto a quello che l'avrebbe atteso a casa se non avesse portato a termine il suo compito.

Era ritto sul pavimento della roulotte dello zio e si fissava le dita scalze e sporche dei piedi; la mole bovina di sua zia torreggiava su di lui e le fauci spalancate gli vomitavano addosso quintali di rabbia, odio e cattiveria. "Avrei preferito saperti morto come quella puttana di tua madre!," urlava il demonio a forma d'elfo; "E invece no! Ti ha scaricato davanti alla mia porta come uno schifoso sacco di pattumiera ed è sparita con quella merda di tuo padre." Kelhatyel piangeva e una lacrima gli era caduta dalla guancia, atterrando sul piede e disegnando un piccolo cerchio irregolare nello sporco. "La mamma verrà a prendermi, prima o poi. Non è morta," aveva singhiozzato il giovane elfo. "Stronzate," aveva urlato zia Glaviel; uno schiaffo repentino e Kelhatyel si era ritrovato a terra. "Sono spariti da anni, nessuno ha mai avuto loro notizie. Hanno fatto l'unica fine che meritavano: diventare cibo per gli animali randagi!"

Era cresciuto, ma le sue orecchie erano piene delle stesse parole, ogni giorno ormai da tantissimi anni. Zio Vombur lo aveva colpito con un pugno, mandandolo steso a terra, rannicchiato in posizione fetale nel fango davanti a casa; aveva gettato a terra la borsa che Kelhatyel aveva rubato quella mattina e aveva sputato. "Tutto qui? Ti sembra che possiamo permetterci di sfamarti con la miseria che ci porti a casa?", aveva chiesto con voce pacata. Lui non urlava mai, preferiva far andare le mani. Con la vista appannata e con il terrore a mozzargli il fiato, aveva visto la sagoma dello zio chinarsi su di lui e, subito dopo, la mano ruvida si era serrata sui capelli sporchi di terriccio e polvere del giovane nipote; gli aveva alzato la testa di peso per guardarlo in faccia e Kelhatyel si era perso in quegli occhi scuri, senza sentimento, mentre le grosse labbra carnose parlavano. "Ora te ne torni in città e se ti azzardi e farti rivedere qui prima di aver rubato qualcosa di grosso, giuro che ti strappo la pelle di dosso a pugni. Ti mando a incontrare i tuoi genitori del cazzo, questa volta; non sto scherzando, ragazzo."

«Ti sento strano, Kel.»

La voce di Colin lo riscosse dal fluire dei ricordi. L'elfo sbatté le palpebre e si sciolse in un debole sorriso.

«Mi sono tornate in mente alcune cose,» rispose, vago.

Colin lo scrutò per qualche secondo con quegli occhi intensi, poi distolse lo sguardo e sembrò sul punto di ricominciare a parlare, quando qualcuno bussò alla porta.

«Avanti,» ordinò Colin.

Igor varcò l'ingresso della stanza, vestito allo stesso modo di tutti i suoi mercenari: mimetica scura e giubbotto antiproiettile a coprire il torace; non era armato, ma gli occhi colmi di preoccupazione lasciavano suggerire che sarebbe andato a recuperare il fucile quanto prima.

«Mi hanno appena chiamato dalla sede,» esordì l'uomo, esibendo un'ottima padronanza dell'italiano, malgrado le sue origini straniere. «Sono stati lì, circa mezz'ora fa.»

«Chi?» chiese Colin, il suo tono tradiva un leggero nervosismo.

«Leonardo Archi e la francese,» rispose Igor, deglutendo e passandosi la mano sui corti capelli color paglia, in un gesto che era solito fare quando era nervoso o infastidito da qualcosa.

«È vivo?» proruppe Kelhatyel.

«È viva...» mormorò nello stesso momento anche Colin, appoggiando le spalle allo schienale della sedia.

«Hanno fatto irruzione e hanno interrogato alcuni dipendenti. Ci sono anche delle vittime,» proseguì il mercenario. «Saranno qui a momenti.»

Kelhatyel si alzò e si avvicinò a Igor, fulminandolo con l'unico occhio che aveva a disposizione. Gli era bastato sentire il nome di Leonardo per ricominciare a sentire un forte bruciore alla parte sinistra del volto; la ferita sotto la bendatura iniziò a pulsare con forza, come se anche la carne compromessa dalla magia dell'Archi stesse reagendo al nome di chi l'aveva sfigurata.

«Porta i tuoi uomini all'ingresso,» ordino l'elfo. «E mandami qui Lorenzo e Shaoran, verranno con me.»

«Molti dei miei uomini sono ancora al laboratorio di Paderno, non saranno mai qui in tempo,» protestò Igor con una smorfia.

«Richiamali immediatamente,» incalzò Kelhatyel «Ci servono tutti quanti.»

«Signore, se mi permette,» disse il mercenario, inclinandosi di lato per cercare con lo sguardo Colin. «Sono soltanto in due e—»

«Fai quello che ti ha detto Kel,» lo interruppe l'immortale, lo sguardo era fisso su un punto imprecisato dalla superficie trasparente della scrivania.

Igor annuì e assunse una posa marziale.

«Sì, signore,» disse, poi lanciò un'occhiata obliqua a Kelhatyel e lasciò la stanza.

«Il sole è tramontato,» constatò l'elfo, voltandosi verso Colin, che però non lo degnò neanche di uno sguardo. «La francese sarà difficile da gestire.»

«Marie...» sussurrò lo scozzese. «Non vuoi proprio lasciarmi andare.»

«Colin,» chiamò Kelhatyel, l'urgenza evidente dal suo tono.

L'uomo sembrò sentirlo per la prima volta solo in quel momento: alzò su di lui lo sguardo e annuì dopo qualche secondo, come se avesse dovuto ricordare cosa stesse accadendo.

«Conto su di te, Kel,» disse. «Non devono liberare i maghi, o questo posto diventerà l'inferno in Terra.»

L'elfo annuì, si sistemò la fondina e prese la porta, uscendo nel corridoio. Non l'avrebbe deluso neanche in quella situazione, non quando mancava così poco all'epilogo del loro progetto.

Davanti all'ascensore incrociò i suoi due mercenari preferiti. Sembravano una strana imitazione di Stanlio e Ollio: l'italiano era alto, massiccio e corpulento, un Golia dal volto coperto di ispida barba nera, mentre il cinese gli arrivava con il capo poco sotto alle spalle, era mingherlino e il volto glabro e serio trasudava serietà e discrezione. Erano entrambi dei maestri con le armi da fuoco e Lorenzo amava definirsi, con arroganza giustificata, lo Chopin del fucile d'assalto.

«Signore.» Il mercenario italiano salutò, mentre si metteva sull'attenti, imitato dal collega cinese.

«Venite con me,» spiegò l'elfo, entrando nell'ascensore. «Dobbiamo fare in modo che nessuno si avvicini ai prigionieri.»

«Il capo ha detto che stiamo per essere attaccati,» disse Shaoran, parlava a voce bassa e monocorde. «Quanti sono?»

«Due.»

In condizioni normali si sarebbe dovuto vergognare: era spaventato a morte da sole due persone. Era comunque sicuro che anche quegli uomini, che ora lo guardavano perplessi, si sarebbero ricreduti entro la fine del pomeriggio. Non che Kelhatyel temesse di essere sconfitto, ma quanti danni avrebbero potuto causare un mago e un vampiro a pieni poteri? Sarebbe bastato anche solo liberare un altro dei maghi prigionieri per mandare a rotoli il piano di Colin e anni di pianificazione e mesi di preparativi sarebbero andati in cenere nel giro di poche ore. No, non l'avrebbe mai permesso, anche a patto di sacrificare ogni briciolo della sua energia, anche a costo di rinunciare a ben più di un occhio e di metà faccia. Se si fosse trovato con tutti gli arti carbonizzati, avrebbe tenuto la pistola con la bocca pur di ergersi in difesa dell'unica persona che lo avesse mai amato.



Il loro obiettivo era un modesto edificio costruito ridosso a un ampio magazzino, nei sobborghi della zona industriale di Trezzano sul Naviglio. Malgrado l'orario, la zona era deserta e nel parcheggio davanti allo stabilimento c'erano soltanto una manciata di auto, segno che qualcuno, effettivamente, fosse presente all'interno.

Leonardo e Charlotte non esitarono davanti a quello che dovevano fare e, consci del fatto che avrebbero trovato ben più di un paio di uomini della sicurezza armati di pistole, si lanciarono come due trattori in corsa contro l'ingresso del palazzo; non prima, però, che Charlotte lanciasse un'occhiata alla luce del sole che stava morendo oltre l'orizzonte.

«Benedetto l'inverno, la stagione migliore dell'anno!» aveva detto con una risata. I canini accentuati le spuntavano dalle labbra conferendole un aspetto selvaggio e pericoloso.

Non si lasciarono ingannare dall'apparente tranquillità del luogo, Leonardo sapeva bene che, oltre le porte a doppio battente metallico dell'edificio, ad attenderli avrebbero trovato una bella festa. Per questo lasciò che fosse Charlotte a spalancare i battenti, per poi vomitare oltre l'ingresso una nube di fuoco magico che dilagò all'interno. Si sentirono delle urla e partirono degli spari che attraversarono le finestre dai vetri oscurati che davano sull'esterno. Solo allora entrarono.

Nell'ampio ingresso vuoto di ogni sorta di mobile o suppellettile, ad aspettarli, c'era un nutrito gruppo di uomini armati, gli stessi che la sera prima avevano rapito gli altri maghi, a giudicare dal loro abbigliamento e dalle loro armi. Erano disorientati dalle fiamme: alcuni si dibattevano a terra urlando nel tentativo di spegnere lingue di fuoco che si erano attaccate alle loro mimetiche, altri invece giacevano immobili a terra. Chi era ancora in piedi si accorse troppo tardi dell'ingresso del mago e della vampira. Charlotte scattò in avanti, veloce come un proiettile, e le sue fauci si chiusero sulla faccia del primo mercenario che trovò, che cadde a terra con un gorgoglio. Partirono dei colpi di arma da fuoco, il boato degli spari echeggiò all'interno dello stanzone vuoto e creò un frastuono caotico e assordante; Leonardo si circondò nel suo bozzolo protettivo di fuoco e iniziò a scagliare con precisione sottili saette bluastre, mandandole a impattare, con un rombo di tuono, contro i soldati.

Gli sembrava quasi di trovarsi in un campo di battaglia, come fosse stato risucchiato all'interno di un film sulla guerra in Vietnam. Spari, rombi, esplosioni e urla gli riempivano le orecchie, inebriandolo al punto da domandarsi se fosse ancora cosciente o se si trovasse in un sogno molto vivido; la stanza era permeata dalla foschia causata dalle esplosione di fiamme e fulmini che gli rendeva difficile individuare i suoi bersagli, si stava lasciando guidare dall'istinto e da ciò che la magia gli sussurrava. Aveva abbandonato l'idea di non causare vittime, sarebbe stato impossibile in mezzo a tutto quel putiferio, e la magia rispondeva agli stimoli come fosse una propaggine del suo corpo.

Stava iniziando a chiedersi quanto tempo fosse passato dall'inizio del confronto, quando gli spari cessarono. L'echeggiare dell'ultima esplosione si esaurì e l'unico suono che rimase ad aleggiare fu il ronzio nelle sue orecchie e una serie di lamenti e gemiti soffocati di dolore e disperazione.

L'Archi sciolse l'incantesimo protettivo e azzardò qualche passo nello stanzone: da metà della sala fino alla parete in fondo, il pavimento era tappezzato di sagome umane riverse a terra; alcune si muovevano debolmente, ma molte altre erano immobili e silenziose. I vetri sulla parete alle sue spalle e su quella a destra erano tutti esplosi verso l'esterno e l'aria gelida era penetrata a stendere un velo di morte su quel terribile spettacolo. Non era un film sulla guerra del Vietnam, era la guerra reale, vivida e palpabile come quel cadavere a pochi passi da lui. Neanche nei peggiori incubi che lo avevano tormentato avrebbe potuto osservare uno spettacolo così tremendo.

Come un'apparizione dell'oltretomba, Charlotte si aggirava nella foschia diradante: si fermava accanto a chi ancora gemeva e poneva fine alla sua vita con un singolo affondo della sottile spada. Quante volte aveva già eseguito quel gesto in tutta la sua lunga esistenza? Pareva così disinvolta e agiva meccanicamente come un ragazzo che gioca ai videogames e non deve più pensare a quale pulsante vuole battere sulla tastiera. Leonardo sentì un conato, ma si trattenne; non voleva dare spettacolo ancora. Aveva accettato il fatto che la magia servisse per uccidere e che l'unico modo per salvare i suoi cari passasse per forza attraverso quella deprecabile azione, ma non si sarebbe mai abituato all'idea che, a causa sua, tutte quelle persone non sarebbero mai più tornate alle loro famiglie.

«È stata una faticaccia, ma poteva andare molto peggio!» Charlotte sbuffò, mentre si avvicinava al mago. Il volto era sporco di sangue e la maglietta, in origine nera, aveva assunto un colorito poco più vivace a causa del fluido scarlatto che la sporcava.

«Vieni,» aggiunse con un cenno. «Ne ho tenuto vivo uno da interrogare.»

A giudicare dalla pianta della stanza, un tempo doveva essere stata usata come lobby o sala d'attesa. Nella parete in fondo si aprivano un paio di porte in legno scuro e un'ampia apertura verso un corridoio scarsamente illuminato; nel muro sulla sinistra, un altro corridoio si allontanava per qualche metro, per poi piegarsi e scomparire dietro un angolo; alcune porte aperte conducevano a quella che sembrava essere una segreteria, a giudicare dai tavoli e dagli schedari appoggiati contro le pareti. In ogni caso, vedere quelle pareti vuote e silenziose, gli ricordò l'edificio abbandonato dove era stato imprigionato insieme a Michela. Non c'erano proprio dubbi che quello fosse il posto giusto: usare costruzioni in disuso come copertura per i suoi piani sembrava essere il marchio di fabbrica del loro avversario.

Charlotte si chinò su un militare seduto contro la parete, respirava a fatica e un grosso foro in mezzo alla pancia riversava all'esterno un copioso rivolo di sangue; gli picchiettò sulla spalla in modo molto poco educato e parlò a voce alta.

«Sei ancora sveglio?»

L'uomo piegò la testa di lato e alzò il capo, tremante, per cercare il volto della vampira. Leonardo sentì gli occhi bruciare e si dovette sforzare per non voltarsi e uscire a grandi passi da quel posto.

«Dove sono i prigionieri?» chiese la francese, senza un minimo di sentimento nella voce.

L'uomo non rispose, ma spostò gli occhi su Leonardo, che rabbrividì. Non voleva guardare altra gente morire davanti a lui, era una cosa troppo crudele a cui assistere. Gli tornarono alla memoria le parole di Michela, quando avevano parlato dell'apparizione della Signora nella villa dei Doria: si era rivelata a lui perché era vicino alla morte. Nel susseguirsi di eventi concitati del giorno precedente, l'Archi si era quasi dimenticato che cosa quelle parole volessero significare e soltanto in quel frangente sembrò capire davvero il senso di tutto: erano anni che la Morte lo circondava, prima suo padre, poi gli incubi indotti dal suo spetto, poi il volo giù per la montagna dal quale era sopravvissuto per miracolo. Per ultimo la scia di morti che si stava lasciando alle spalle. La Morte era sempre stata con lui e la stava guardando in faccia anche in quel momento, la vedeva negli occhi di quel pover'uomo e negli spasmi inconsapevoli dei suoi muscoli.

«Ehi, mi hai sentito?» lo incalzò Charlotte, tirandogli un buffetto sulla guancia per attirarne di nuovo l'attenzione. «Dimmi dove sono i prigionieri.»

Lui sussultò e rovesciò la testa all'indietro, contro la parete.

«Nel piano interrato.» C'era così tanto silenzio che persino il rantolo dell'uomo echeggiò nella sala. «Scale in fondo al corridoio.»

«Molto bene!» esclamò Charlotte, annuendo con un sorriso. «E il tuo capo?»

Lui indugiò, forse perché non voleva rivelare troppo, ma più probabilmente perché la sua capacità di mettere in ordine i pensieri stava inesorabilmente venendo meno.

«Ultimo piano,» mormorò, alla fine, dimostrando uno sforzo sovrumano.

La vampira gli batté una mano sulla spalla, come un padrone che accarezza il cagnolino, poi puntò l'arma e fece fuoco a bruciapelo contro la tempia. Leonardo sussultò e indietreggiò, mentre la carcassa del mercenario crollava a terra in silenzio.

«Cazzo, Charlotte...» mormorò il mago, voltando lo sguardo.

«Non sarebbe arrivato a questa sera,» rispose la francese, lapidaria.

Si alzò e lasciò slittare fuori il caricatore dell'arma di qualche centimetro, osservandolo corrucciata.

«Andiamo a liberare gli altri,» propose Leonardo, lasciando cadere l'argomento.

«No, Leo,» replicò Charlotte, lanciandogli un'occhiata cupa. «Andrai tu a liberare i maghi. Io ho un conto in sospeso da sistemare.»

Lui scosse la testa con veemenza.

«Andremo insieme, non puoi batterlo da sola.»

«Ah ah, ma questa volta ho il tuo piano!»

Charlotte sorrise e si batté il palmo della mano su un discreto marsupio che teneva legato alla cintura. Leonardo fu sul punto di ribattere, ma si interruppe di botto, con la bocca semi aperta. Non sarebbe servito a nulla discutere con lei, era troppo sicura di sé e, in parte, aveva anche ragione: se c'era qualcuno che poteva fermare Cailean, quella era lei.

«Non credo che riuscirò ad avere la meglio su di lui da sola,» confessò la vampira, rimettendo il caricatore a posto. «Ma non voglio neanche che se la dia a gambe ancora, sono stanca di inseguirlo. Lo tratterrò finché potrò e spero che tu mi raggiunga presto!»

Il ragazzo annuì, ma non parlò; non riuscì a trovare le parole giuste da dire, sopraffatto dalla consapevolezza che l'amica non morta stava consciamente correndo incontro anche alla sua fine. Era quello che desiderava, in fondo: poter essere libera dal patto che aveva stretto per poter abbracciare la pace eterna che anelava da tanto. Era stato con lei poco meno di una settimana, ma sapere che non l'avrebbe mai più vista, che non l'avrebbe mai più sentita parlare o prendere in giro Michela con quell'accento francese... sapere che Charlotte sarebbe sparita per sempre nel giro pochi minuti fu come essere sotterrato da una frana: il fiato gli venne meno e i polmoni gli si svuotarono.

«Ci vediamo dopo!» La vampira lo salutò, allegra, sventolando la mano in aria e avviandosi verso il corridoio più vicino.

«Sì,» mormorò Leonardo, con la voce incrinata. «A dopo.»

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