Capitolo 27. Uno schifoso sacco di pattumiera

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Kelhatyel e i due uomini avevano raggiunto il corridoio delle celle ed erano rimasti in attesa a pattugliare la zona. Avevano seguito gli sviluppi della battaglia in corso al piano superiore grazie alle ricetrasmittenti sintonizzate su un canale comune, ma l'elfo avrebbe quasi preferito rimanere nell'ignoranza. Dall'apparecchio erano usciti spari sommessi, esplosioni e boati simili a tuoni il cui riverbero si era fatto strada attraverso la tromba dell'ascensore per giungere anche nel corridoio del piano interrato; le pareti e il soffitto avevano tremato per alcuni istanti, come sottoposte a un improvviso sisma. Non voleva credere che quel putiferio fosse stato generato dal Leonardo che aveva conosciuto in quella settimana appena trascorsa; il ragazzo che aveva rapito e ficcato in una cella odiava la magia e ne aveva fatto ricorso solo in situazioni disperate, Kelhatyel non si sarebbe mai immaginato che uno come lui, dal carattere fragile come una foglia in autunno, potesse scatenare un potere simile.

Si ritrovò a stringere con forza la ricetrasmittente, mentre camminava avanti e indietro al centro del corridoio; Lorenzo e Shaoran avevano mantenuto un controllo invidiabile: erano immobili a metà corridoio con i fucili in mano, pronti ad accogliere qualsiasi cosa fosse uscita dall'ascensore o dalla porta delle scale attigua. La battaglia durò meno del previsto e, nel giro di pochi minuti, gli spari e i boati vennero sostituiti da urla sommesse e, infine, dal silenzio.

«Igor,» chiamò Kelhatyel, avvicinando la ricetrasmittente alla bocca.

Gli rispose solo il silenzio e uno strano ronzio elettrico.

«Igor!» Il secondo tentativo diede il medesimo risultato.

«Cazzo!» sbottò l'elfo, abbassando il walkie talkie e agganciandolo al supporto legato alla cintura.

Shaoran mormorò qualcosa in cinese.

«Gesù Cristo, puoi dirlo forte!» gli rispose Lorenzo, disattivando la sicura dall'arma.

Kelhatyel percorse con un paio di rapide falcate i metri che lo separavano dai due mercenari, la parte del volto lasciata scoperta dalla fasciatura era sfigurata in una maschera di nervosismo e tensione; una singola goccia di sudore gli solcò il collo, bagnandogli l'estremità dello scollo della maglietta.

«State pronti,» disse con un filo di voce, estraendo la pistola.

Era impensabile che dei mercenari con addestramento militare fossero stati sconfitti da un ragazzino e da una non morta. Sapeva che Charlotte era pericolosa, ma non fino a quel punto, mentre Leonardo... il ricordo del fulmine che gli aveva deturpato il volto e lasciato in fin di vita era ancora vivo e pulsante e gli bruciava sotto le bende. Quando Kelhatyel l'aveva lanciato giù da quella scarpata, mai avrebbe pensato che quel mago gracilino sarebbe potuto tornare a tormentarlo. Era stato il suo più grande fallimento: aveva deciso di ucciderlo, violando gli ordini di Colin, e non era neanche riuscito a completare l'opera! Ed ecco come un singolo errore avrebbe potuto rovinare l'intero progetto, un singolo mago sfuggito alla rete sarebbe stato sufficiente per mandare in fumo i sogni del suo amico.

Sfregò i denti mentre una smorfia gli si disegnava sul volto e andò a cingere con entrambe le mani il calcio dell'arma, tenendola alzata e pronta. Intorno a loro il corridoio era silenzioso, anche i maghi imprigionati dietro alle porte sembravano essere caduti in una profonda quiete, inconsapevoli di quello che stava accadendo fuori dalle loro minuscole celle. Shaoran imbracciò il fucile e lo puntò contro le porte dell'ascensore, a qualche metro dalla loro posizione, mentre Lorenzo spostò la mira verso la porta antipanico che nascondeva l'imboccatura delle scale di servizio. Non esisteva altro modo per raggiungere quel corridoio senza passare da quei due ingressi, chiunque fosse stato così stupido da varcare le porte dell'ascensore sarebbe stato crivellato da tre caricatori di arma da fuoco. L'elfo rilassò i muscoli contratti del volto e sciolse le spalle; c'era ancora speranza, aveva ancora modo di risolvere la situazione. L'obiettivo di Leonardo e di Charlotte era senza dubbio liberare i maghi e, per farlo, sarebbero dovuti passare attraverso il fuoco dei suoi uomini migliori e Kelhatyel non era arrivato impreparato allo scontro: aveva con sé l'ultimo regalo di Colin, un connubio perfetto tra magia e armi moderne.

Rapido, lasciò slittare all'esterno dell'arma il caricatore e ne estrasse un secondo da un supporto legato alla fondina; caricò l'arma con i proiettili speciali e un ghigno gli si disegnò sul volto al pensiero della faccia che avrebbe fatto Leonardo. Avrebbe giurato di aver avuto un sorriso molto simile, il giorno in cui aveva fatto fuori quello stronzo di suo zio.

La zia era uscita e lui era rimasto a casa da solo con il malvagio elfo. "Sai, credo che tua madre, in fondo, ti volesse bene, in qualche modo", aveva detto lo zio, di punto in bianco, staccando le labbra dalla bottiglia di birra. Era alla quarta, quel pomeriggio, e l'effetto iniziava a farsi sentire. Il giovane Kelhatyel lo aveva ignorato, ma le dita gli si erano serrate sul manico del coltello con cui stava pulendo il pollo rinsecchito. Vombur si era mosso sulla sudicia poltrona alla ricerca di una posizione migliore e la bottiglia era rovinata a terra, infrangendosi in centinaia di frammenti di vetro verdastro, ma l'elfo sembrava non essersene accorto. "Con te ha lasciato dei soldi. Taaaanti soldi, dovevano servire per crescerti", lo zio aveva ruttato e poi sghignazzato. "Li abbiamo spesi tutti!", rideva come se stesse trovando il racconto divertente. Kelhatyel aveva roteato il coltello intorno alla giunzione dell'ala e, con un movimento secco, aveva staccato l'arto dell'animale. "Che cosa poteva farsene un bastardello del cazzo come te di una cifra del genere?". Vombur aveva riso ancora chiudendo gli occhi. Quando li aveva riaperti, il nipote torreggiava su di lui e gli stava affondando il coltello da cucina nella carotide. Con precisione, come aveva imparato a fare con il pollame, il giovane elfo aveva aperto un lungo solco lungo tutta la gola del malvagio zio, che continuava a fissarlo con sguardo stupido e incredulo. Con un secco gesto aveva estratto l'arma improvvisata, per poi affondarla ancora nella gola, nel petto, nel volto e nel cranio del sacco di carne senza vita adagiato sulla poltrona. Sul suo volto solo il sorriso soddisfatto di chi si libera di un peso dopo tanto tempo.

«Dei passi,» avvisò Shaoran.

Kelhatyel era così immerso nelle immagini e nei suoni di tanto tempo addietro, che non si era neanche accorto del flebile scalpiccio di piedi che scendevano i gradini metallici. Era una sola persona ed era ovvio che fosse Leonardo; Charlotte non faceva alcun rumore quando si muoveva, era impossibile da percepire persino con i sensi affinati.

L'elfo armò il cane dell'arma e la puntò contro la porta antipanico, lo stesso fecero anche i due uomini. Seguirono dei secondi lunghi come ore, durante i quali i tre ascoltarono con attenzione i passi che si facevano sempre più vicini fino a fermarsi subito dietro l'accesso al corridoio.

Con un cigolio sommesso, qualcuno dall'altro lato abbassò la maniglia e spinse la porta, aprendola con circospezione di uno spiraglio.

«Sei al capolinea, Leonardo,» urlo Kelhatyel. «Metti un dito oltre quella porta e morirai.»

Ci fu qualche attimo di silenzio, poi la timida voce dell'Archi attraversò la fessura.

«Sei tu che morirai, Kelhatyel. Lo sai che cosa sta facendo Cailean? Pensi di salvarti?»

L'elfo notò Lorenzo lanciare un'occhiata obliqua al suo collega e non rispose.

«Moriremo tutti quanti se lo lasciamo proseguire con il suo progetto,» incalzò il mago. «Che senso ha aiutarlo? Cosa pensi di ottenere?»

«Non voglio ottenere proprio nulla,» rispose l'elfo con voce roca. «Ma ogni suo desiderio è anche il mio desiderio.»

Colin gli aveva salvato la vita e, per quel motivo, ne era padrone. Aveva ogni diritto di disporre della sua esistenza come più gradiva e Kelhatyel sarebbero stato felice di morire sapendolo felice, la stessa felicità che aveva riempito il suo cuore dopo il giorno del loro primo incontro, quella felicità che non aveva mai conosciuto in tutti gli anni precedenti. Dopo aver ucciso lo zio era scappato e aveva vagato per mesi, vivendo di stenti, rubando e dormendo all'addiaccio; si era spostato verso nord e l'inverno lo aveva bloccato nel freddo e triste capoluogo lombardo. Quella notte aveva nevicato e Kelhatyel era seduto sul bordo della strada, tremante e con i laceri vestiti umidi; non sentiva più la fame da qualche giorno, rubare in quella città si era rivelato più difficile che in altri luoghi e iniziava a temere che quel posto sarebbe stato la sua tomba. Era rannicchiato in posizione fetale, in un vano tentativo di scaldarsi con il suo stesso corpo, quando un uomo si era fermato davanti a lui; vide solo le scarpe di cuoio eleganti e l'orlo dei jeans neri. "Questo non è un buon modo di morire", la voce era tiepida, tanto che avrebbe potuto sciogliere la patina di neve molliccia su cui l'elfo era adagiato. "La Morte non è clemente con chi cammina in questo mondo, ma io posso portarti via dalla sua presa e darti qualcosa per cui vivere"; Kelhatyel aveva alzato lo sguardo e incontrato gli occhi più azzurri che avesse mai visto, era come se quell'uomo avesse strappato pezzi di oceano e li avesse usati per fabbricarsi un paio di meravigliose iridi. Lo sconosciuto gli aveva sorriso con gentilezza e aveva teso la mano verso di lui. "Mi chiamo Colin, e tu?".

Aveva fatto esattamente quello che gli aveva promesso quel giorno: gli aveva dato un motivo per cui vivere e per cui morire con gioia.

«Te lo chiedo per l'ultima volta, Kelhatyel,» avvisò Leonardo, sempre nascosto come un codardo dietro la porta. «Lasciami liberare i maghi. Possiamo ancora fermarlo, non è troppo tardi.»

«Capo,» sussurrò Lorenzo, inclinando la testa per avvicinarsi all'elfo. «Non so di cosa stia parlando questo tizio, ma se ha ammazzato tutti i ragazzi al piano di sopra, penso che non ci paghino abbastanza per rimanere qui a morire.»

Mercenari, soldati a pagamento: la feccia del mondo, incapaci di credere in qualsiasi cosa.

«Mostra un briciolo di fedeltà,» lo redarguì Kelhatyel in un sibilo.

«La mia fedeltà va verso chi mi paga e ho il timore che Igor non sia più in grado di espletare questa funzione,» rispose il corpulento mercenario.

Shaoran abbassò il fucile e fece un passo di lato, allontanandosi dall'elfo.

«Spero che stiate scherzando,» abbaiò lui, fulminando il cinese con l'occhio scoperto.

«Niente di personale,» rispose il mingherlino. «Ma ho una famiglia.»

Famiglia. Famiglia? Perché la gente sembrava usare quella parola come una scusa? Bastava avere qualcuno ad attenderti a casa per avere un lasciapassare gratuito per uscire dalle situazione difficili? E chi non aveva nessuno, invece? Chi una famiglia non l'aveva mai avuta? Le persone non si rendevano conto di cosa poteva significare vivere da soli, senza punti di riferimento. Kelhatyel serrò le mani sul calcio della pistola e spostò l'arma verso Shaoran.

«Ritorna al tuo posto!» Lo minacciò con l'arma e con lo sguardo, l'occhio cosparso da sottili striature rossastre.

In tutta risposta, Lorenzo si voltò e rivolse il fucile verso l'elfo.

«Giù la pistola, capo,» intimò il mercenario, monocorde.

Seguirono momenti di silenzio e tensione nei quali Kelhatyel spostò lo sguardo prima a destra e poi a sinistra, per sondare le reazioni dei suoi ormai ex compagni. Com'era possibile che la situazione fosse precipitata a quel modo e così rapidamente? Gli esseri umani si erano rivelati, ancora una volta, la feccia dei viventi, incapaci di mantenere i loro impegni, così impauriti dalla morte da scappare a gambe levate dai loro obblighi. Pensavano che sarebbe stato facile scappare da quella situazione? Che potevano semplicemente decidere di andarsene e tornare a casa ad abbracciare i propri cari? No, cazzo, non gliel'avrebbe permesso! Avevano una famiglia? Beh, ce l'aveva anche lui, dopo tutti quegli anni di solitudine e di sofferenza. Anche lui aveva una famiglia da proteggere e da cui tornare, e non avrebbe permesso a nessuno di rovinare i loro piani. In fondo, quel mondo aveva poco più di qualche ora di vita: nessuna moglie o figlio avrebbe pianto lacrime troppo amare per la morte di quei due merdosi mercenari.

Accadde tutto in una breve frazione di secondo. L'elfo mosse la pistola a destra e, a metà del movimento, inarcò la schiena all'indietro; nell'esatto momento in cui Lorenzo premeva il grilletto ed esplodeva un singolo colpo dalla sua arma, Kelhatyel sparò contro il cinese. Il proiettile dell'italiano fischiò nell'aria, pochi centimetri sopra a Kelhatyel, e colpì la parete opposta; sorte diversa toccò al colpo esploso dall'elfo, che trovò con precisione un'apertura nel corpetto antiproiettile di Shaoran e gli si conficcò nel petto. L'asiatico cacciò un urlò e rovinò all'indietro, accasciandosi contro il muro.

«Cazzo!» sbottò Lorenzo, spalancando gli occhi alla vista del collega che cadeva a terra.

Quel momento di esitazione gli fu fatale, perché Kelhatyel, veloce come il pensiero, sparò di nuovo: la pallottola scavò un vistoso foro nel mento barbuto del mercenario, proseguendo la sua marcia ascendente lungo la mandibola e fuoriuscendo dal cranio. L'uomo si accasciò a terra senza neanche un singolo gemito.

Kelhatyel raddrizzò la schiena e puntò la pistola verso il fondo del corridoio, dove Leonardo, allarmato dagli spari, aveva spalancato la porta e si era lanciato all'interno. I due si squadrarono in silenzio per un qualche momento, lasciando che fossero gli occhi a parlare al posto loro. Shaoran, steso a terra con la schiena contro la parete, gorgogliò qualcosa e mosse la mano tremante, ma la lasciò ricadere in grembo con un gemito.

«Avrei dovuto ammazzarti con le mie mani, invece di lanciarti giù dalla montagna,» commentò l'elfo, fulminando il suo ultimo avversario con l'occhio libero dalla medicazione. La ferita, sotto le bende, gli faceva un male atroce.

«Basta, Kelhatyel,» mormorò Leonardo, con voce tremante. «Vuoi davvero veder morire così tante persone?»

«Tutte quelle che sono necessarie,» rispose.

Leonardo fece un timido passo in avanti e disse:

«Io... io capisco che tu possa—»

«Non azzardarti!» urlò Kelhatyel, e sparò un colpo che, però, si conficcò nel pavimento a pochi centimetri dai piedi del mago, che sobbalzò.

«Non azzardarti nemmeno a pensare di potermi capire,» urlò, mentre l'esplosione dell'arma ancora risuonava tra le pareti.

Sempre con la pistola puntata, iniziò a camminare in avanti. Leonardo alzò le braccia e le stese verso di lui, ma non accadde nulla. Kelhatyel sogghignò e sparò, e il mago non poté far altro che osservare impietrito il proiettile volare verso di lui e conficcarglisi nella spalla sinistra. Urlò e cadde a terra, portandosi una mano a coprire il punto dove il proiettile aveva scavato il foro d'ingresso.

L'elfo ridacchiò e ringraziò le pallottole su cui Colin aveva lanciato il suo incantesimo anti magia. L'effetto non era potente come quello delle pietre che aveva usato per tendere la trappola ai maghi nella villa, ma era stato sufficiente per creare lo spiraglio adeguato per mettere in ginocchio quell'insistente ragazzino. Ora, con un proiettile conficcato in corpo, gli sarebbe stato impossibile richiamare la magia. Aveva vinto, aveva sconfitto Leonardo e il piano di Colin era salvo!

Si avvicinò al mago, riverso a terra, e gli puntò l'arma addosso.

«Muoviti,» ordinò.

A fatica, il ragazzo rotolò su sé stesso e si rialzò, aiutandosi con un braccio. Era pallido e sembrava stare in piedi a malapena, il sangue scorreva dalle dita premute contro la ferita. Gli appoggiò la pistola alla schiena e lo spinse in avanti, lungo il corridoio; lo avrebbe chiuso in una delle celle libere e l'avrebbe lasciato lì a marcire fino a quella notte, quando anche lui sarebbe stato usato nel rituale di Colin. Kelhatyel sorrise, mentre camminava dietro al barcollante mago; aveva sistemato la situazione e aveva pure riparato all'errore che aveva fatto qualche giorno prima, lasciandosi sfuggire l'Archi e fallendo nell'ucciderlo. Colin sarebbe stato molto soddisfatto di sapere che aveva guadagnato un'ulteriore pedina per il suo sacrificio. Non male per uno schifoso sacco di pattumiera, dopotutto; avrebbe tanto voluto avere dinanzi gli zii per sbattere loro in faccia i suoi successi! Lo avevano chiamato schifoso, inutile e merdoso, e lo avevano minacciato di morte ogni ora del giorno, dandogli respiro solo durante le ore di buio, quando però c'era il dolore per l'abbandono a tenergli compagnia. Non era più lo stesso schifoso sacco di pattumiera che avevano cresciuto: era un elfo adulto, padrone di sé e delle sue azioni. Faceva solo quello che voleva, nessuno gli dava più ordini. Chi era lo schifoso sacco di pattumiera adesso, eh?

Erano arrivati a metà corridoio quando qualcosa si serrò sulla sua caviglia, facendolo incespicare; barcollò in avanti e si scontrò con il mago, che rovinò a terra con un gemito. Kelhatyel si voltò verso il basso e vide Shaoran, ancora steso a terra, che si era proteso in avanti ad afferrargli il piede, con l'altra mano reggeva la pistola e la stava puntando lentamente verso di lui. Con un ringhio, l'elfo strappò la gamba dalla presa del mercenario e gli calciò via dalla mano l'arma, che rotolò sul pavimento.

«Schifoso sacco di merda,» mormorò l'elfo, puntando l'arma su di lui.

Qualcosa alle sue spalle gli si scagliò contro, travolgendolo e facendolo barcollare. Con un grugnito, crollò sul duro pavimento e si esibì in una rapida capriola per ritornare con i piedi ben piantati per terra; si rialzò, veloce, e si voltò: Leonardo era chino vicino a Shaoran e teneva in mano la pistola che pochi attimi prima era stretta tra le mani del cinese.

I loro sguardi si incontrarono per l'ultima volta.

Kelhatyel spostò l'arma verso di lui, ma il mago aveva già steso il braccio. Ci fu un solitario sparo e l'elfo si rovesciò a terra, un alone di calore si dipanava da un punto imprecisato al centro del petto e le braccia gli si erano fatte pesanti ed estranee. Spalancò la bocca e provò a prendere aria, ma un dolore improvviso al torace lo colse, investendolo con intense e continue scariche di agonia; la vista gli si appannò e iniziò ad ansimare.

Una lacrima si allontanò dall'occhio e strisciò lungo la guancia.

Quando la nuca dell'elfo toccò il pavimento, aveva già smesso di respirare.



Le gambe di Leonardo cedettero poco dopo lo sparo. Il ragazzo lasciò andare la pistola e si accasciò a terra, il braccio sinistro abbandonato lungo il fianco e coperto di sangue; respirando affannosamente, si trascinò fino al corpo riverso supino del mercenario asiatico e lo fissò, cercando di individuare il movimento del petto sotto i vestiti mimetici che indossava.

«Chiavi...» rantolò il militare, facendolo sobbalzare per lo spavento.

L'uomo alzò il braccio e indicò il corpo immobile di Kelhatyel.

«Chiavi,» ripeté, aprendo un poco gli occhi a mandorla.

Emise un lungo flebile sospiro e il braccio ricadde a terra. Ignorando la sensazione di gelo che lo stava abbracciando, Leonardo si protese in avanti e vide che il petto dell'uomo si muoveva ancora. La camicia sotto il giubbotto antiproiettile era sporca di sangue all'altezza delle costole, ma il mercenario sembrava ancora resistere; se fosse riuscito a trovare e liberare i Guelfi, forse avrebbe potuto salvargli la vita. Glielo doveva, era solo merito di quello sconosciuto se Kelhatyel non era riuscito a completare la sua opera.

Stringendo i denti, con un ringhio, il mago si trascinò sul pavimento per raggiungere il cadavere dell'elfo: la sua snella figura giaceva immobile, gli occhi vacui aperti, la bocca spalancata in una sorta di silenzioso grido. Leonardo sentì un brivido e gli parve che il cuore si fosse fermato il tempo di qualche battito, la vista gli si annebbiò e distolse lo sguardo da quell'orribile spettacolo; l'elfo aveva fatto la sua scelta e Leonardo, per un momento, lo aveva odiato solo per averlo costretto a doversi difendere, una seconda volta. Respirando a fatica, alzò entrambe le braccia per tastare il corpo dell'elfo alla ricerca delle chiavi e una stilettata di dolore si propagò dalla ferita alla spalla in tutto il corpo; esalò un'esclamazione e gli occhi vennero coperti da uno strato turbinante di stelline sfavillanti. Si lasciò andare sul corpo ancora tiepido del rivale e rimase immobile in quella posizione per un tempo che non riuscì a calcolare, intento solo a respirare e a lottare per mantenere la coscienza; gli era difficile persino pensare e la consapevolezza di stare disteso sul cadavere di una persona che aveva ucciso lo sfiorò soltanto, senza causargli alcun tipo di reazione emotiva. L'unica cosa che riusciva a pensare era ai prigionieri oltre quelle porte e a Charlotte che stava correndo verso una lotta impari e che contava su di lui; non poteva deluderla, non poteva lasciare che se ne andasse da sola.

Si rialzò puntellandosi sul braccio sinistro, ringhiando contro il dolore per sentirsi più forte, come fanno gli animali, e ricominciò a esplorare il cadavere sotto di lui, finché la mano non incontrò un evidente rigonfiamento nella tasca dei pantaloni scuri. Estrasse un voluminoso mazzo di chiavi metalliche e, per la prima volta in quella tremenda giornata, si sentì sollevato, tanto da riuscire a rimettersi in piedi stabilmente.

Le orecchie gli ronzavano e il collo gli formicolava, era la stessa sensazione di quando aveva raccolto il cubo di pirite incantato che aveva trovato intorno a casa. Prima di essere colpito dalla pistola di Kelhatyel, non aveva avuto che pochi secondi per realizzare che lo stesso incantesimo che disgregava la Trama doveva essere stato lanciato sui proiettili; finché non fosse riuscito a togliere la pallottola dalla ferita, la magia sarebbe stato solo un ricordo per lui. Mentre camminava verso la prima porta che vide, però, un lieve moto di orgoglio si fece strada attraverso il dolore e la fatica: anche senza magia, era riuscito a combinare qualcosa.

Arrivato davanti alla sua meta, armeggiò con le chiavi alla ricerca di quella giusta e, per fortuna, la trovò dopo soli due tentativi; l'uscio metallico si spalancò e, all'interno della minuscola stanza, Cassandra Doria lo guardava con occhi rossi, gonfi e colmi di terrore.

Alla vista della donna, l'immagine del cadavere del suo anziano padre gli balenò dinanzi agli occhi, e il mago non riuscì a impedirsi di scoppiare in un pianto improvviso.

«Mi dispiace,» mormorò, tra un singhiozzo e l'altro. «Mi dispiace.»

Anche la donna aveva iniziato a piangere, forse per il sollievo, o forse come reazione inconscia al suo pianto. Leonardo si chinò su di lei e, pur con la vista offuscata dalle lacrime, si mise alla ricerca della chiave che avrebbe aperto le manette che la imprigionavano.

«Sapevo che saresti arrivato,» disse Cassandra.

«Mi dispiace,» ripeté lui, infilando una minuscola chiave nella serratura.

Era come un disco rotto, non riusciva a pensare o ripetere altro. Era stanco, ma non poteva fermarsi, non prima di essere riuscito a liberare tutti quanti. E Charlotte lo stava aspettando.

La chiave scattò e sciolse i polsi di Cassandra che, finalmente libera, scagliò lontano le manette che colpirono il pavimento con un frastuono metallico.

Era fatta, era libera. Leonardo sorrise e si lasciò andare all'indietro, sentendo la schiena sbattere contro la parete. Cassandra gli stava dicendo qualcosa, ma la sua voce gli giungeva lontana e disturbata, come quando si prova ad ascoltare qualcuno che urla sott'acqua. Ma non gli importava di capire; Cassandra era salva e avrebbe liberato tutti gli altri prigionieri. L'unico pensiero che gli balenava nella testa, mentre chiudeva gli occhi, fiacco, era Charlotte, che combatteva da sola il culmine della sua secolare lotta.

Voleva essere al suo fianco, ma era così stanco.

Sentì freddo e un brivido gli scosse il corpo, socchiuse gli occhi e spostò lo sguardo sulla sagoma di Cassandra, china davanti a lui. Ma non era Cassandra.

Il volto cerchiato di lunghi capelli corvini della Signora era fisso su di lui, a millimetri dal suo naso. I suoi lineamenti erano nebulosi e cangianti e, ogni secondo, gli pareva di vedere il volto di una persona diversa: era suo padre, sua nonna, suo nonno, Ferdinando Doria, la guardia che aveva bruciato vivo qualche ora prima, Kelhatyel, il mercenario cinese; tutti gli elementi di miliardi di volti si mescolavano in uno solo, formando un intricato e alieno maelstrom di fattezze umane. Il ragazzo si perse in quel vorticare illogico, desiderando solo di poterlo raggiungere e navigare in quel mare tempestoso per l'eternità.

«Non adesso,» mormorò la Signora. Alzò un dito e lo poggiò sulle sue labbra, era tiepido e subito gli tornò in mente la mano di sua nonna e quel dolce tocco che adorava da bambino. «Non siamo ancora pronti ad averti con noi.»

La sagoma tremolò e si ritrasse, il tepore accogliente di quel dito grinzoso si allontanò e il mago si protese in avanti, tentando di seguirlo, ma incontrò, invece, una mano che gli si posò sul petto.

Alzò gli occhi ridotti a fessure e incontrò quelli di Michela, preoccupati ma luminosi e incredibilmente caldi.

La Guelfi sorrise e l'Archi fece lo stesso.

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