Capitolo 28. Il suo riflesso

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Charlotte spalancò con un calcio la porta e puntò in avanti le pistole, ma la stanza era spoglia e buia e non c'era nessuno all'interno; eppure era impregnata del fetore di Cailean e la vampira aveva dato per scontato di trovarlo lì. Corrugando la fronte, abbassò le armi e fece un passo, guardandosi intorno e annusando l'aria in una grottesca imitazione di un cane da caccia in cerca della sua preda.

Possibile fosse arrivata tardi, ancora? L'immortale aveva intuito che il cappio gli si stava stringendo intorno al collo e se l'era data a gambe senza indugiare, senza neanche darle tempo di guardare la sua faccia di merda per l'ultima volta? No, non dopo essere arrivata così vicina! Non poteva farlo scappare di nuovo! Girò un paio di volte nella stanza, seguendo l'odore intenso del nemico, ma l'analisi di quelle quattro mura le confermarono soltanto che il suo bersaglio non si trovava più lì, ma se ne doveva essere andato da poco tempo.

La vampira tornò nel corridoio silenzioso, si fermò al centro e annusò l'aria circostante, alla ricerca della pista che l'avrebbe condotta da lui. Ed eccola lì, l'evidente scia di odore nauseante che si allontanava dalle porte appena spalancate e seguiva il corridoio; era così forte che Charlotte si chiese come fosse possibile che non l'avesse percepita subito. Corse sulla moquette che foderava il pavimento fino a raggiungere la fine del rettilineo che si interrompeva davanti a una porta antincendio grigia; spinse il maniglione antipanico e varcò l'uscita, ritrovandosi sul pianerottolo di una rampa di scale di emergenza che saliva di un piano. L'odore di Cailean si stava facendo sempre più forte e, come sospinta da un richiamo ultraterreno, la francese si lanciò in corsa su per le scale, superando i gradini a tre a tre.

La scala terminava davanti a una malconcia porta metallica e il puzzo era diventato così forte che Charlotte avrebbe potuto vomitare dallo schifo, se non fosse morta da un pezzo. Calciò l'uscio con foga e l'attraversò, ripetendo lo stesso movimento di pochi minuti prima per tendere le pistole davanti a sé. Era arrivata sul tetto dell'edificio e davanti a lei si apriva un largo spiazzo pianeggiante, il sole tramontato da poco rischiarava appena l'orizzonte, ma la sua luce non era più abbastanza potente da essere d'impiccio alla vampira: i suoi poteri da creatura della notte erano ben svegli e pronti a scagliarsi sull'unica sagoma umana che si stagliava a qualche metro di distanza. Le dava le spalle e camminava a passo lento verso la balaustra metallica che delimitava la superficie del tetto; sembrava del tutto inconsapevole della sua presenza, completamente immerso in quella che, a un osservatore esterno, poteva sembrare una placida passeggiata per sgranchirsi le gambe dopo tante ore di lungo lavoro.

La vampira, per un istante, fu sul punto di lanciarsi su di lui urlando, ma qualcosa la bloccò. Lo voleva guardare in faccia, voleva vederlo ancora e osservare l'espressione che avrebbe fatto quando si sarebbe reso conto di quello che stava per succedere.

«Ehi!» urlò, avanzando di un passo. «Scappi ancora? Non sai fare altro?»

Cailean si bloccò e si voltò: sorrideva.

«Salve, Marie,» la salutò, mantenendo un tono calmo e cortese. «Temevo tu fossi morta davvero, ieri sera.»

«Non potrò avere pace finché sarai vivo,» commentò lei, i muscoli del volto tirati e contratti, la mascella serrata. Perché sorrideva? Che cazzo aveva da sorridere? Aveva perso, il suo piano era andato a rotoli!

«Allora saremo destinati a una lunga eternità di crucci e fastidi reciproci,» affermò, sconsolato, Cailean. «Eppure saremmo potuti essere un'ottima squadra, io e te.»

A Charlotte scappò una risata beffarda.

«Preferirei rimanere l'unica sulla faccia della Terra!» esclamò, sempre tenendolo sotto tiro.

Fece un altro passo in avanti, ma la distanza che la separava dall'immortale era ancora troppa per poter attaccare. Doveva arrivargli vicino e sapeva che lui non gliel'avrebbe mai permesso. Quello che poteva fare era distrarlo e, intanto, assottigliare i metri che li separavano.

«E quindi che cosa pensi di fare?» le chiese lo scozzese, sistemandosi un fulvo ciuffo di capelli, smosso da un alito di vento gelido. «Vuoi ripetere l'esperienza di ieri sera? Pensi che andrà in modo differente, oggi?»

Charlotte alzò le sopracciglia e si aprì in un sorrisetto.

«Oggi sarà molto diverso,» rispose la vampira.

Certo, tutto dipendeva da Leonardo e, solo una settimana prima, Charlotte non avrebbe scommesso neanche un centesimo sul giovane mago. Ma nessuno di loro era rimasta la stessa persona che era uscita dalla prigione improvvisata da Cailean; in pochi giorni troppe cose erano cambiate e la francese sapeva bene che il ragazzo avrebbe fatto appello a qualsiasi incantesimo e a tutte le sue forze per compiere l'obiettivo che si era prefissato. Dopotutto, il loro avversario aveva fatto un grosso errore, lo stesso che continuava a fare da secoli: aveva reso quella faccenda una questione personale, prima tirando in mezzo il padre defunto di Leonardo, poi lui stesso e gli altri maghi dello Statuto. Aveva ucciso Ferdinando Doria e Dio solo poteva immaginare che portata avrebbe raggiunto la furia di sua figlia.

Fece un ulteriore passo in avanti, nel silenzio, ma Cailean alzò la mano a monito, dicendole:

«Non un altro passo, Marie. È il mio ultimo avviso: vattene e lasciami perdere. Sono arrivato così vicino e non intendo permetterti di rallentare il mio operato.»

Beh, non aveva senso indugiare ancora. Charlotte premette il grilletto di entrambe le pistole: due proiettili esplosero all'unisono e fischiarono nell'aria verso l'immortale che, però, non si fece trovare impreparato. Gli bastò un gesto della mano e le due pallottole si infransero in mille schegge contro una barriera invisibile comparsa a pochi centimetri dal suo volto inespressivo.

«Ringrazia la tua Signora, per questo,» disse Cailean, corrugando la fronte e perdendo parte del suo apparente controllo. «Mi ha dato millenni per studiare la magia. Nessuno tra i maghi che stanno correndo qui è abbastanza potente da impensierirmi. Non hai soluzioni, Marie, accettalo! Non puoi uccidermi e non puoi fermarmi in alcun modo.»

Charlotte scattò in avanti e sparò un'altra raffica di colpi, ma tutti si fermarono contro l'insormontabile barriera magica innalzata dal mago millenario. Arrivata a pochi metri dal suo avversario, la vampira saltò in alto, in un tentativo di compiere un arco che l'avrebbe portata sopra la testa del suo bersaglio, ma una famigliare sensazione la colse e la bloccò a mezz'aria a metà strada. Proprio com'era accaduto la sera prima, si trovava immobilizzata in aria, incapace di muovere un qualsiasi muscolo. Non era stata abbastanza veloce e Cailean l'aveva fregata ancora. Si sentì muovere e una forza invisibile la scagliò di qualche metro, mandandola a sbattere con forza contro il parapetto di ferro. Sentì alcune ossa del braccio scricchiolare, mentre rovinava a terra con un gemito. Si rialzò con un balzo e, ignorando il fastidio, tese il braccio contuso, sentendo le ossa spostarsi e ripararsi a velocità innaturale.

Buttò una fugace occhiata oltre la balaustra quando alcuni rumori provenienti dal basso le giunsero alle orecchie: l'oscurità del parcheggio sottostante, dove anche lei aveva abbandonato l'auto, era rischiarata dai fari di una decina di veicoli che si stavano fermando a pochi metri dall'ingresso; da alcuni camioncini scuri stavano uscendo gruppetti di uomini armati, coperti da pesanti tute militari nere.

Erano arrivati i rinforzi, e Charlotte non si sentì più così tanto ottimista sull'esito di quella serata.




«La vampira sta combattendo con Cailean sul tetto,» disse Francesco Fieschi. Aveva gli occhi chiusi e un rivolo di sudore gli colava dalla matassa di capelli castano scuro che portava spettinati. «Fuori si stanno ammassando un po' di persone: sono tutti armati, sembrano soldati come quelli che ci hanno presi ieri sera.»

Michela e Leonardo erano in piedi davanti all'ascensore, mentre il resto dei maghi dello Statuto, ormai liberati dalle manette magiche, formava un campanello intorno al mago divinatore. Giovanni Guelfi era ancora chino sulla figura immobile dell'asiatico, la magia gli fluiva con insistenza fuori dalle mani e sembrava intento a combattere un'invisibile lotta per strappare il mercenario dalle grinfie della morte.

Quando Cassandra aveva fatto irruzione nella sua cella, Michela aveva stentato a credere ai suoi occhi ed era esplosa in un pianto liberatorio; non ebbe modo, però, di sfogarsi quanto avrebbe desiderato, perché la donna, con gli occhi gonfi e la voce affannata, le aveva detto che Leonardo stava per morire e che aveva bisogno di aiuto urgente. Basita, tirando su con il naso, aveva guardato la Doria liberarla dalle manette con dita tremanti e si era lanciata all'esterno, ignorando del tutto i corpi stesi sul pavimento, per infilarsi di corsa nell'altra porta aperta. Leonardo era steso contro la parete, immobile, con gli occhi ridotti a fessure e protendeva una mano in avanti, come a cercare di toccare qualcosa che soltanto lui riusciva a vedere. Nella cella che aveva ospitato Cassandra faceva freddo, la differenza di temperatura rispetto a fuori era evidente, ma la maga non si era soffermata a interrogarsi sulla causa; si era chinata sull'amico e, con un moto di sollievo, aveva sentito la magia rispondere subito al suo richiamo, fluendo dalla mano fino nel malconcio corpo di Leonardo. Come unico saluto, i due si erano scambiati un sorriso, ma era stato abbastanza perché la Guelfi si rendesse conto dell'innegabile verità che aveva ignorato fino a quel momento: le era mancato, e il vederlo di nuovo dopo averlo dato per morto fu come infilare una forchetta nella presa della corrente.

Ci aveva impiegato più del dovuto per rimettere in sesto l'Archi, ma, tutto sommato, nessuna di quelle ferita era abbastanza grave da impensierirla. Nei pochi minuti durante i quali Cassandra aveva liberato tutti i prigionieri, Leonardo era tornato come nuovo, neanche un graffio a sfigurargli la pelle.

«Dobbiamo aiutare Charlotte, non ce la farà da sola,» proruppe lui, sovrastando il brusio emesso dal resto dei maghi.

«Voi non andrete da nessuna parte!» esclamò Pamela e, in due rapide falcate, raggiunse il figlio e gli si piantò davanti. «Tu non hai idea della paura che ho avuto ieri... credevo di aver perso anche te.»

Michela distolse lo sguardo da quel commovente quadretto famigliare e incontrò gli occhi di suo padre: si era appena alzato da terra, lasciando da solo il mercenario svenuto che, però, aveva ripreso a respirare regolarmente.

«Pamela ha ragione,» disse il Guelfi, monocorde. «Siete troppo giovani e inesperti per questa faccenda e avremmo già dovuto capirlo giorni fa. Dovevamo essere noi adulti a occuparcene.»

Fu forse il nervosismo che aveva accumulato durante quelle terribili ore, ma la maga decise che era stufa di farsi dire che cosa poteva o non poteva fare. Davvero voleva passare tutta la vita a farsi dare ordini da un genitore che la disprezzava? Cazzo, era una Guelfi anche lei! Era stato abbastanza orribile sentirsi sottomessa a uno sconosciuto, ma la sensazione non le era affatto estranea: lei era soggiogata alla sua famiglia e agli stupidi dogmi di suo padre da quando era venuta al mondo, ed era stata da sempre incapace di liberarsene. Era stanca di sentirsi incapace.

«Aiuteremo Charlotte.»

Quelle parole perentorie che diedero voce ai muti pensieri di Michela non sembravano neanche essere uscite dalla bocca di Leonardo. La maga si voltò a fissare il suo amico e fu come guardare una persona diversa: guardava la madre con la mascella serrata e con le sopracciglia corrugate, in una palese occhiata di sfida che il Leonardo di qualche giorno prima si sarebbe solo potuto sognare. Lui ce l'aveva fatta a liberarsi dagli spettri che lo incatenavano; che cosa frenava, invece, lei?

«Non potete tenerci fuori, ormai,» lo spalleggiò Michela, rivolta principalmente a Giovanni.

Notò gli occhi di sua madre levarsi verso di lei, velati di inquietudine, e la gola le si annodò, costringendola a un colpo di tosse improvviso.

Fu però Cassandra a rispondere.

«Ammazzatelo,» disse, in un sussurro. Teneva lo sguardo fisso su Leonardo. «Lo dobbiamo a mio padre: quel bastardo non può vedere un'altra alba.»

«Sono dei ragazzi, Cassandra, per l'amor di Dio!» proruppe Erika Guarneri. Si era spostata verso il lato del corridoio, dove il suo anziano padre stava seduto, in evidente stato di agitazione: respirava a fatica e si guardava intorno, non del tutto conscio di dove si trovasse. «Sono troppo giovani per... per tutto questo.»

«No, io sono d'accordo con Michela!»

Sgranando gli occhi, la maga vide l'esile sagoma di suo cugino allontanarsi di qualche passo da zio Aldo e avvicinarsi a lei.

«Prima o poi avreste comunque dovuto farvi da parte per lasciare a noi le sorti dello Statuto,» continuò Federico, esibendo un sorriso caparbio. «Questo è un problema che dobbiamo fronteggiare tutti insieme, nessuno deve essere lasciato in disparte.»

Gli stava sul cazzo, quel saccente biondino, ma doveva ammettere che era abbastanza bravo con la retorica. Molto più di lei, purtroppo. Avrebbe voluto dimostrare abbastanza fermezza da riuscire a mettere in discussione le parole di suo padre in quel modo, ma non era riuscita a imprimere abbastanza forza nella voce e, ora, l'attenzione dei maghi era rivolta su Federico. Michela rimase in silenzio, sforzandosi di ignorare la ferita che le bruciava nell'orgoglio, pensando in modo oggettivo: suo cugino la stava spalleggiando, per una volta.

«Forse, se Cailen avesse rapito te, le cose sarebbero andate in modo diverso,» commentò suo padre, con un sorriso amaro sul volto.

Le mancò il respiro, come se qualcuno l'avesse ripetutamente presa a calci nel basso ventre.

«Giovanni!» proruppe Marta, voltandosi imperiosa verso il marito.

Anche gli altri adulti tenevano lo sguardo fisso sul Guelfi, come a giudicare il duro rimprovero che aveva rivolto alla figlia. Poteva quasi sentire la tacita domanda espressa dal volto perplesso di Ivan Graziani: "tu avresti fatto meglio di tua figlia?".

Michela abbassò gli occhi sulle gambe rigide, stringendo i pugni per bloccare il tremore che le stava attraversando le dita.

«Sai, papà?» chiese, con un filo di voce, mentre una lacrima solitaria le rigava la guancia. «Devo dire anch'io qualcosa... qualcosa che mi tengo dentro da molto tempo.»

Sentì una mano sulla spalla; non le servì guardare per accorgersi che Leonardo le si era fatto più vicino e le stava dando il suo supporto morale. Sorrise e alzò gli occhi arrossati sul volto impassibile del genitore.

«Vai a farti fottere, papà.»

Giovanni Guelfi sgranò gli occhi, mentre la bocca di Marta si spalancava in una voragine d'incredulità. Non attese la risposta, né la reazione: si voltò verso le porte dell'ascensore e le oltrepassò. Con la coda dell'occhio vide Leonardo seguirla e sentì i passi affrettati del cugino dietro di lei, mentre zio Aldo lo chiamava con voce esitante.

Premette il tasto sulla pulsantiera, in silenzio, ma avrebbe voluto urlare a squarciagola la sua soddisfazione. L'ultima cosa che vide quando le porte scorrevoli si chiusero, fu il volto esterrefatto di suo padre e gli occhi velati di preoccupazione di Pamela. Entrambi guardavano i propri figli allontanarsi da loro e, forse, avevano realizzato finalmente che quella era la cosa giusta da fare.

Non fu tanto aver mandato a fanculo suo papà ed essersi così levata un grosso peso sullo stomaco che l'appagava, quanto la faccia che aveva fatto: non aveva mai pensato che sua figlia potesse decidere di rispondergli, era rimasto senza parole!

«Ora posso dirtelo,» esordì Leonardo, rompendo il silenzio nell'ascensore. «Tuo padre mi è sempre stato sulle palle.»




Giovanni Guelfi si trovò preda di una sensazione sconosciuta: per la prima volta nella vita, non sapeva cosa dire, né come reagire. Si era sempre crogiolato nella sua superiorità e nella sua condizione di controllo perenne, sapendo che nulla l'avrebbe mai smosso, che nulla avrebbe mai infranto quella quiete. Eppure la reazione di Michela l'aveva scosso nel profondo, lasciandolo con un'amara sensazione a riempirgli la bocca. Aveva esagerato con lei. Marta glielo diceva già da alcuni anni, ma lui aveva proseguito imperterrito con il suo comportamento autoritario, perché era in quel modo che suo padre aveva formato il perfetto Guelfi che Giovanni era diventato; non voleva che il meglio per sua figlia... voleva solo vederla prendere il posto che le spettava all'interno dello Statuto, come la degna erede del primogenito di Arturo Guelfi.

Non si era mai chiesto, però, che cosa volesse lei e aveva sempre dato per scontato che il suo punto di vista fosse quello più corretto; era scontato, dopotutto: aveva mai sbagliato nella vita? Non aveva mai commesso un singolo errore, né sul lavoro, né nello Statuto, né, almeno credeva, in famiglia. I suoi anni erano stati costellati da un successo dopo l'altro, traguardo dopo traguardo, sempre con lo sguardo fisso verso l'obiettivo successivo. Possibile che avesse fallito proprio con la sua unica figlia?

Abbassò gli occhi e cercò i palmi delle mani, rimando a fissare le linee grinzose tracciate sulla pelle, seguendone le curve frastagliate, come se la risposta che cercava fosse scritta lì, tra quegli intellegibili solchi. Sì, aveva esagerato con Michela, non vi era alcun dubbio, ed era stato così cieco da non accorgersi che non stava crescendo una figlia, ma il riflesso di ciò che lui era diventato. E lei non bramava essere solo il suo riflesso. Nessuno lo avrebbe mai potuto desiderare.

«Lo sai, Giovanni?» La voce di Cassandra ruppe il silenzio teso che si era addensato intorno ai maghi. Pamela ancora fissava le porte chiuse dell'ascensore, con la mano a mezz'aria, forse continuando a sperare che Leonardo cambiasse idea e tornasse indietro.

«Adoro tua figlia!» continuò la Doria, appoggiando una mano sulla spalla dell'uomo, che trasalì a quell'inaspettato contatto fisico. «È proprio com'ero io alla sua età.»

Perché? Com'era Michela? Giovanni alzò lo sguardo sulla donna, ma non parlò. Come poteva dire di conoscere sua figlia in quel modo? Si erano viste solo un paio di volte, eppure ne parlava come se si frequentassero da anni, come se Cassandra avesse capito tutto del carattere della giovane. Lui poteva dire lo stesso? Quante parole aveva scambiato con lei durante gli ultimi anni? Conosceva i nomi dei suoi amici? Sapeva cosa le piaceva fare nel tempo libero? Aveva un fidanzato? No, non gli era mai importato di tutte quelle bazzecole! Lui era suo padre, non un amico, dannazione! Il suo dovere era dirigerla sulla strada corretta, non farle le treccine e spettegolare sull'ultima boy band di liceali americani. Ma poteva dire di aver avuto successo? Quello che era accaduto poco prima era la risposta a quella domanda, e venirne a conoscenza lo atterriva. Si sentì all'improvviso stanco e anziano come mai prima.

«Non credo che tu abbia mai mandato al diavolo Ferdinando,» commentò Giovanni, togliendosi gli occhiali e massaggiandosi il setto nasale con le dita.

«Succedeva in continuazione, invece,» rispose Cassandra, con un sorriso amaro e gli occhi lucidi. «Non riuscivamo proprio ad andare d'accordo. Eppure, adesso, preferirei veder morire milioni di persone, se servisse a farlo tornare.»

Dei passi pesanti sovrastarono quelle ultime parole: Pamela si era mossa, di scatto, verso la porta antipanico che conduceva alle scale.

«Devo seguirlo,» mormorò la donna, imboccando di fretta l'uscita e scomparendo dalla loro vista.

Aldo la chiamò e fece per andarle dietro, ma Ivan Graziani lo bloccò, posandogli una mano sull'avambraccio.

«Lasciala andare,» disse, occhieggiando Francesco Fieschi che si era appoggiato alla parete, respirando affannosamente. «Dobbiamo pensare ai mercenari all'esterno. Dobbiamo tenerli lontani finché la vampira non avrà fatto quello che deve.»

Cassandra ridacchiò e si allontanò di qualche passo, chinandosi sul cadavere dell'elfo steso al centro del pavimento.

«Ti ho invitato in casa mia,» bisbigliò, posando la mano sul volto emaciato di Kelhatyel. «Mio padre ti ha accolto nelle sue stanze e ti ha dato un posto alla nostra tavola.»

Giovanni distolse lo sguardo, inforcando di nuovo gli occhiali. Sapeva costa stava per accadere e una parte di lui era contenta che i ragazzi se ne fossero andati: non sarebbe stato uno spettacolo adatto ai deboli di stomaco. Non dovette osservare per sentire la magia muoversi intorno a loro e condensarsi intorno al corpo della Doria; l'energia arcana circondò il corpo dell'elfo, che iniziò a tremare, come preda di violente crisi epilettiche. Marta e Myriam si voltarono verso la parete, posandosi una mano sulla bocca, mentre Erika Guarneri abbassò gli occhi e scosse il capo, sconsolata.

A nessuno all'interno dello Statuto piaceva la necromanzia, fatta ovvia eccezione per i membri della famiglia Doria. Giovanni la considerava un'aberrazione: da medico e da custode della magia di guarigione, l'idea di sfruttare la carne ormai morta gli dava il voltastomaco. Ma nella situazione in cui si trovavano, nessuno avrebbe fatto lo schizzinoso.

Kelhatyel si mise seduto di scatto, come spinto da una molla invisibile sotto di lui. Gli occhi erano rovesciati all'indietro e la bocca spalancata in un orribile grido silenzioso, la mandibola piegata di lato; la carnagione si era fatta grigiastra e un rivolo di sangue colava dalla narice sinistra, oltrepassando il labbro e gocciolando sulla lingua scura e gonfia.

Giovanni corrugò la fronte e levò lo sguardo su Cassandra: sul volto le erano apparse delle rughe che, avrebbe giurato, prima non c'erano, e gli occhi erano attraversati da alcune strisce di sangue cremisi. Sorrideva, soddisfatta della sua opera, e guardava il neonato zombie con brama e desiderio. Era la cosa più terrificante che il Guelfi avesse mai visto in tutta la sua vita.

«Vediamo di farti ripagare il tuo debito, mio caro elfo traditore.»

Cassandra si alzò e si passò la lingua sul labbro superiore, prima di voltarsi verso il resto dei membri dello Statuto. Lo zombie si alzò in piedi e rimase immobile alle sue spalle, come un'ombra fatta di carne e ossa.

«Cazzo, Cass!» proruppe Ivan, disgustato. «Dovevi proprio farlo?»

«Oh, non ho ancora finito,» fece lei. Il gelo della sua voce cozzava con il sorriso inquietante che le sfigurava il volto. «Credo proprio che tornerò a casa con un bel po' di nuovi dipendenti, questa sera.»

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