1.2

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Le sentinelle di vedetta avevano dato l'allarme e tutto il forte si era attivato per rispondere all'assalto dei loasiani.

All'interno dell'austero edificio in pietra, le urla degli uomini si sovrastavano al rumore metallico delle spade che venivano spostate e imbracate all'altezza del bacino di ogni fante a cui era destinata altresì una lancia.

Ai piani più alti, gli arcieri correvano frenetici verso la cima della torre per raggiungere la loro posizione.

Gli uomini restanti all'interno del forte, invece, si stazionarono sotto le direttive del comandante Fohruos in posizione di difesa dietro ad ogni feritoia che la costruzione offriva.

Dazira si guardò intorno incerta. Tutti, intorno a lei, sembravano sapere esattamente cosa fare e dove andare e si muovevano rapidi su e giù per le scale di quell'ambiente buio.

«Ehi, tu! Ragazza!» sentì chiamare. Dazira si voltò e vide un uomo alto e ben piazzato che, a giudicare dalla divisa, doveva avere un ruolo importante all'interno del forte. Era in cima alle scale, proprio davanti a lei.

La ragazza si voltò dietro di sé, per essere sicura che si stesse rivolgendo a lei.

L'uomo alzò gli occhi al cielo spazientito. «Certo che parlo con te! Vedi altre ragazze in questo maledettissimo posto?»

Dazira si voltò di nuovo verso di lui e negò timidamente con il capo.

«E, allora, che diavolo ci fai ancora là?» sbraitò accigliato. «Perché non sei fuori con gli altri?»

«Comandante!» s'intromise un uomo alto, con una barba curata, all'incirca sulla trentina. «Abbiamo appena chiuso i portoni!»

Il comandante, sempre più nervoso, scosse la testa e si rivolse di nuovo a Dazira: «Vai sul tetto! Sparisci!»

La ragazza, a quel punto, non attese oltre e si precipitò in cima alle scale correndo come una forsennata alla cieca, senza sapere bene cosa fare.

Decise semplicemente di seguire la massa di arcieri che, in preda alla smania, salivano i gradini a due a due.

Non appena mise piede sul tetto, una potente folata di vento la investì. Era giunta da poco la sera e il sole era completamente sparito dalla loro visuale, lasciando degli strascichi di luce prima che il buio calasse del tutto.

Dazira si guardò intorno spaesata. Disposti appena dietro le merlature che circondavano l'intero perimetro del tetto, gli arcieri si stavano posizionando ordinatamente in due file mentre, di fianco alla botola aperta che portava al piano di sotto, altri soldati avevano acceso un fuoco dal quale stavano ricavando braci ardenti.

Ognuno aveva un ruolo. Ognuno sapeva quale fosse il suo posto. Tranne lei.

In quel momento avrebbe desiderato che Therar potesse uscire dalla sua copertura di scudiero e salire a darle una mano. Lui l'aveva preparata a combattere, a gestire il proprio potere, ad inferire colpi in grado di uccidere, stordire o mutilare a sua discrezione... ma, in quel momento, Dazira sembrava aver dimenticato tutto.

L'improvvisa frenesia, la tensione nell'aria, le urla. La ragazza, per quanto in cuor suo potesse saperlo, non era preparata ad affrontare una battaglia e men che meno sapeva cosa avrebbe dovuto fare in relazione ad i suoi compagni d'armi.

Perciò rimase al centro del tetto a cercare d'intuire dove vi fosse bisogno della sua presenza.

«Ardira!» Un ragazzo dalla corporatura taurina e i capelli di un biondo scuro che ricordavano quelli di Ernik la chiamò facendole segno con il braccio di raggiungerlo dietro ad una merlatura.

La ragazza non se lo fece ripetere due volte e si approssimò a lui afferrando l'arco che lui le porgeva.

«Sai come si usa, questo?» le domandò con strana gentilezza. In risposta, Dazira annuì.

«Perfetto! Parto io. Tu tieniti pronta!» spiegò il giovane indicando lo spazio tra le merlature. «Quello» continuò poi indicando un uomo vicino alla brace che stava coordinando alcuni soldati «è il sottufficiale a capo degli arcieri. Lui ci darà le direttive: pronti, mirare, fuoco! Chiaro? Quando ho scoccato io, toccherà a te, Ardira!»

«Veramente è Da...»

«Primo plotone di arcieri!» urlò il sottufficiale. «Pronti!»

A quel punto, metà degli arcieri incoccarono la freccia posizionandosi nello spazio tra le merlature in attesa del prossimo ordine.

«Mirare... fuoco!»

Ed una pioggia di dardi partì dal tetto della torre per atterrare sui corpi dei soldati nemici che si stavano pericolosamente avvicinando ai loro uomini a terra.

Nel terreno a nord del forte, infatti, i due eserciti erano disposti uno di fronte all'altro, a circa un centinaio di metri di distanza. Distanza che si stava sempre più colmando con l'avanzata dei loasiani.

Stavano attaccando da due fronti. Ma quello che preoccupava di più era il numero: i soldati loasiani erano moltissimi, troppi in confronto a quelli che il forte offriva in difesa di Sartesia.

«Secondo plotone!» urlò l'uomo in tono di comando mentre il ragazzo lasciava il posto a Dazira.

La ragazza sospirò e si fece coraggio. Imbracciò l'arco e ci posizionò la freccia mettendosi al centro tra le due merlature e, all'improvviso, lo scenario che le si presentò di fronte fu ancora più completo: la tensione che si respirava era palpabile e, appena sotto di lei, l'ufficiale a terra stava impartendo ordini al suo esercito. Molti di loro avevano l'aria sconvolta, esattamente come lei.

«Mirare!»

Dazira sbuffò cercando di scacciare l'ansia che le era salita in corpo, ma il cuore le era arrivato alla gola e minacciava di scoppiare.

Devo concentrarmi, si disse. Decise di mirare il più lontano possibile dal suo esercito, in direzione di un soldato che, dietro ad uno scudo, marciava a passo deciso insieme agli altri loasiani.

«Fuoco!»

E la freccia partì, insieme a tutte le altre, e, con lei, un carico di tensione. Andò a conficcarsi sul corpo dell'uomo, facendo breccia sulla sua armatura.

Dazira si voltò verso il ragazzo che le stava di fianco, dietro alla merlatura. Lui la stava guardando con un sorriso di approvazione, mimando un "brava" con le labbra mentre prendeva il suo posto.

Gli arcieri continuarono a scoccare frecce fino a quando non fu impossibile distinguere i due eserciti. A quel punto, rimasero immobili in attesa di un esito dal combattimento che stava avvenendo a qualche metro sotto di loro: se i loasiani avessero provato a sfondare il portone del forte, sarebbe toccato di nuovo agli arcieri e, in tal caso, sarebbero piovute altresì le braci ardenti.

Il campo di battaglia era, visto dall'alto, un cimitero coperto di sangue ove le spade si affrontavano in un gioco mortale tra le urla degli uomini.

L'odore metallico del sangue giungeva sino al tetto e Dazira percepì un senso di nausea al ricordo della cella nella quale era stata rinchiusa per così tanti mesi. Una cella costantemente sporca di sangue. Era un odore che non l'abbandonava mai. Un odore che risvegliava gli acuti sensi del demone.

«Non guardare» l'avvertì il ragazzo mettendole una mano sulla spalla.

Ma Dazira non lo ascoltò. «È un massacro!»

Il ragazzo annuì in risposta, guardandola comprensivo in un'espressione greve.

I loasiani continuavano ad avanzare e, sebbene vi fossero vittime da parte di entrambe le fazioni, gli assaltatori erano di gran lunga più numerosi.

«Non ce la faranno!» esclamò Dazira rivolta al ragazzo.

«Per questo siamo ancora qui sopra!»

In quel momento, lei si rese conto che avrebbe potuto fare qualcosa. Avrebbe dovuto.

Si guardò nuovamente intorno e, dopo un'ultima occhiata all'arciere che l'aveva aiutata, lasciò la sua postazione per dirigersi verso il sottufficiale a passo spedito.

«Ardira!» si sentì chiamare dal ragazzo mentre percepiva i suoi occhi su di sé. «Torna qui!»

Ma lei finse di non sentire ed iniziò a correre, fino a che il sottufficiale non si accorse di lei. «Dove diavolo pensi di andare, ragazzina? Torna immediatamente al tuo posto!» urlò l'uomo con uno sguardo iracondo mentre il collo spesso gli si tingeva di un rosso violaceo.

«Signore!» protestò lei tirando fuori tutta la voce che aveva mentre il cuore le batteva all'impazzata. «Devo scendere!»

«Tu non vai da nessunissima parte!» replicò nuovamente il sottufficiale facendo segno a due uomini di avvicinarsi a loro.

«Posso aiutarli!»

«Senti, mocciosa, se non torni immediatamente alla tua postazione io ti faccio rinchiudere da qui a...»

Ma la ragazza non attese oltre. Si voltò e lasciò che due maestose ali nere appuntite le spuntassero dalla schiena, tutte sbrandellate e coperte di un vischioso liquido simile alla pece.

Non si guardò indietro ad osservare i volti dei presenti, ma era certa che tutti gli occhi fossero puntati su di lei. Forse sorpresi, forse inorriditi.

Dazira non ci pensò più. Prese la rincorsa e si gettò nel vuoto.

Non l'aveva mai fatto. Non in questo modo. Non a questa altezza. Il vento era forte e le schiaffava il volto, ma, benché il suo corpo fosse leggero, le ali erano incredibilmente potenti e non faticavano a destreggiarsi nonostante l'aria. Per qualche istante, Dazira si dimenticò di trovarsi nel bel mezzo di una battaglia e si godette quella sensazione di assoluta libertà.

Alla sua vista, i due eserciti parvero immobilizzarsi per qualche istante per la sorpresa prima che qualcuno cogliesse l'occasione per attaccare di nuovo e il conflitto ricominciasse più insanguinato di quanto già non fosse stato prima.

Da vicino, lo scontro era ancora più cruento di ciò che appariva dall'alto e, per qualche istante, persino Dazira – che al sangue era abituata – rimase immobile a guardare l'orrore da vicino.

Poi raccolse tutta la grinta che riuscì a raccattare dentro di sé e permise ai poteri del demone di fluire in lei, lasciando alle sue spalle una scia di morte.

La ragazza attaccava mescolando le mosse che Therar le aveva insegnato alla potenza e all'agilità del demone mentre la sua smania di sangue prendeva il sopravvento uccidendo tutti i loasiani sul suo cammino.

Le sue mani erano morse letali e l'ombra scura che aleggiava intorno al suo corpo rendeva difficile prevedere ogni sua prossima mossa.

Le sorti della battaglia si ribaltarono nel giro di pochi minuti e, ad un tratto, la tromba della ritirata mise fine allo scontro mentre l'esercito loasiano si allontanava sempre più velocemente sotto il tiro degli arcieri.

Un urlo liberatorio accomunò tutti i soldati dentro e, soprattutto, fuori dal forte: molti di loro erano stati certi di aver visto la morte negli occhi.

Dopo i primi istanti di festeggiamento, tutti si voltarono a guardare ed acclamare la loro nuova eroina. Quella minuta ragazzina dagli occhi celesti e le lentiggini sul naso... non aveva più nulla che ricordasse il mostro che, pochi minuti prima, aveva messo in fuga un intero esercito, salvo i vestiti ridotti a brandelli sulla schiena.

Dapprima titubanti, poi sempre più audaci, i guerrieri le diedero delle pacche sulla schiena; qualcuno la prese in braccio e se la caricò sulle spalle, fiero di condurre la loro salvatrice all'interno del forte.

Il primo ad andarle incontro fu proprio l'arciere che l'aveva aiutata poco prima. «Sei stata grande, Ardira!» esclamò abbracciandola con le sue braccia possenti e sollevandola da terra, mentre lei cercava di prendere le distanze, in imbarazzo. Non era certo abituata a tutto quell'affetto.

«In realtà, mi chiamo Dazira...»

In risposta, il ragazzo scosse le spalle con un sorriso a trentadue denti. «Rebjo» disse lui porgendole la mano. Lei la strinse e, in quel momento, qualcun altro toccò la sua spalla.

Dazira si voltò a guardare di chi fosse quel tocco tanto sicuro e, davanti a sé, trovò il comandante del forte e il sottufficiale responsabile degli arcieri. La stavano osservando in parte sbigottiti, in parte soddisfatti. «Ben fatto» dichiarò soltanto il comandante, prima di andarsene e lasciarla di nuovo sola con i suoi nuovi ammiratori.

●●●

Therar la stava attendendo nella sua stanza, seduto su una sedia di legno con la schiena curva sulla scrivania, davanti ad un pezzo di carta dai bordi mangiucchiati.

Dazira entrò nel piccolo ambiente e si richiuse la pesante porta di legno alle sue spalle.

La sua camera era scura, anche a quell'ora del pomeriggio. L'unico fascio di luce filtrava da una piccola feritoia ed andava ad illuminare proprio la scrivania in legno chiaro, tutta tarlata e piluccata, sulla quale era appoggiato il suo maestro.

Quando la giovane avanzò verso di lui, lentamente il ragazzo si voltò a guardarla e si alzò in piedi. «Ti stavo aspettando» disse. «Mi è giunta una lettera da parte del principe Arthis» Dazira osservò il foglio che Therar teneva tra le mani. Aveva impresso il sigillo reale.

«Devo rientrare a corte per qualche giorno» ammise lui in tono neutro, ripiegando alla perfezione la lettera del principe.

«Non puoi!» sbottò la ragazza scuotendo il capo con fermezza. Voleva davvero abbandonarla in quel forte? «Non puoi lasciarmi qui da sola! E se qualcosa va storto?»

«Te la sai cavare anche senza ti me»

No. Non poteva farlo. «E se non riuscissi a controllare il demone?»

Therar scosse la testa con un accenno di sorriso mentre le fossette mettevano in risalto la cicatrice che gli solcava un sopracciglio e terminava accanto all'orecchio, proprio sotto lo zigomo. Nessuno sembrava sapere come se l'era procurata, e Dazira non aveva mai avuto il coraggio di chiederglielo.

«È solo qualche giorno, Dazira. Mi fido del fatto che saprai gestire tutto da sola...»

«Per favore, Therar...» insistette la ragazza guardandolo implorante. «Se tu te ne vai, sono da sola!»

Se tu te ne vai, non avrò nessuno. Sarà come essere tornata in quella cella, meditò pur consapevole che lui non era nelle facoltà di poter ignorare un ordine di Arthis, esattamente come non lo era lei.

«La solitudine è una cosa con cui devi imparare a convivere» replicò Therar freddamente, mentre una smorfia gli si dipingeva sul volto. «Comunque, se ti può consolare, la gente qui sta già iniziando a cambiare idea sul tuo conto... Hai salvato la vita a molti di loro!» le fece notare incrociando le braccia sul davanti.

Era vero. Lei aveva salvato la vita ad alcuni soldati... ma restava la bestia. Nessuno di loro avrebbe dimenticato ciò che aveva fatto – e che continuava a fare – per colpa del demone!

Il Nero si nutriva delle anime, e così doveva fare lei. Una volta al giorno, per sempre, lei avrebbe ucciso. Era questa la sua maledizione.

Chi mai avrebbe potuto starle accanto e stimarla?

Therar afferrò il mantello scuro e imbrattato di fango che aveva appoggiato alla sedia e, a passo sicuro, superò la ragazza dirigendosi alla porta. «Confida nelle tue capacità, perché se non lo farai tu, non lo faranno nemmeno loro!» esclamò prima di andarsene e lasciarla sola nella sua stanza.

Sola, come già era stata. Sola, come avrebbe dovuto imparare ad essere.

Ma, in fondo, sola non lo era mai. Con lei, c'era sempre qualcun altro: un'ombra scura e assetata di sangue che non l'abbandonava un solo istante.

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