1 ASSALTO ALLA TORRE

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Le pareti di pietra erano spesse e fredde, anche se, appena fuori dal Forte Maggiore, il sole del mezzogiorno pareva voler incendiare ogni cosa.

Dazira si guardò allo specchio della sua piccola e sterile stanza. Era pronta.

Le protezioni erano quasi un vezzo e la sua armatura praticamente inesistente, ma, tanto, non le sarebbe servita.

Era giunta a Forte Maggiore il giorno prima e, al suo arrivo, le reazioni erano state tra le più disparate: chi era stato curioso nei suoi riguardi, chi l'aveva evitata apertamente, chi, invece, l'aveva guardata con astio.

Comprensibile. D'altronde, la sua fama non era delle migliori.

Lei era, a quanto diceva la gente, l'assassina del castello. La belva. Era un animale selvaggio, dall'aspetto orribile e capace di cose disdicevoli.

Niente di più vero.

Lei era davvero la belva di cui tutti parlavano. Ma era arrivato il suo momento per mostrare a tutti ciò per cui era stata addestrata. Doveva dimostrare che poteva essere dalla loro parte, che non era solo un mostro, ma che esisteva una coscienza dentro di lei, una capacità di discernimento.

Dazira prendeva ordini dalla corona di Forterra, come tutti loro. E, come tutti loro, avrebbe difeso quel forte fino alla fine... anche se iniziava a nutrire il sospetto che, neanche volendo, non gli sarebbe stato concesso di morire.

Non perché qualcuno non la volesse morta, ma perché le sue ferite guarivano in fretta. Molto in fretta. Troppo, per essere qualcosa di ordinario.

A dire il vero, qualcuno aveva già tentato di ucciderla, una volta, durante un allenamento. Un uomo in divisa si era avvicinato al campo d'addestramento e, scoccata una freccia, le aveva inferto una ferita che avrebbe potuto essere mortale.

Il dolore era stato lancinante e la lesione era ancora visibile, ma, quando si era sfilata la freccia, l'emorragia si era fermata e la ferita si era richiusa da sola in pochi istanti.

Nessuno l'aveva vista. Tutti i testimoni erano morti.

In quel momento, nell'area riflessa dallo specchio, comparve una figura alta e vestita di nero, con le mani lungo i fianchi e una lunga cicatrice che spiccava su un volto dai lineamenti marcati. Il volto di Therar, il suo maestro.

Non l'aveva nemmeno sentito entrare nella stanza, come sempre.

Dazira si voltò verso di lui, tesa per il senso di responsabilità che le pesava addosso come un macigno.

Lui la guardò dritto negli occhi con i suoi pozzi neri. Sembrava volergli infondere sicurezza, quasi fosse in grado di percepire la preoccupazione della ragazza.

Therar era un ragazzo, ma sembrava un uomo. Il suo corpo dimostrava che il giovane doveva aver passato da poco la ventina, probabilmente non aveva più di venticinque anni; il suo sguardo, invece... beh, il suo sguardo era così intenso, quegli occhi tanto scuri che sembravano averne viste così tante da far trapelare un vissuto che mal si accompagnava alla sua età.

«Non serve che te lo dica io» proruppe Therar «che andrà tutto come dovrà andare. Sei stata addestrata per questo!»

Sono viva per questo. Già, perché quando il demone di Dorothar aveva preso possesso del suo corpo, lei non era che una ragazzina che lavorava come domestica per la principessa Pheanielle alla corte di Forterra. L'unico motivo per cui era stata tenuta in vita dopo tutti gli omicidi che la ragazza aveva compiuto involontariamente era per essere utilizzata come arma contro Loas.

Perché il demone fosse dalla parte di re Gohr di Forterra.

Lei era solo una pedina nelle mani del suo re. Era l'involucro che conteneva l'inaspettata sorpresa per i soldati loasiani. Ma Dazira era grata di tutto questo: quel suo ruolo all'interno dell'esercito forterrese avrebbe dato un senso a tutte quelle morti inutili. Era il suo modo per riscattare la propria anima, se ancora ne aveva una.

Dazira annuì rivolta a Therar. Presto sarebbe stato il suo momento.

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