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«Il tuo nome?»
«Catrina Margaret, signore.»
«Bene, fa un po' vedere Catrina…»

Il mio interlocutore aveva un fastidioso accento strascicato che mi dava un senso di nausea. Si trovava di fronte a me, dietro una scrivania ingombra di scartoffie, alle cui spalle si affacciava, oltre una vetrata costellata di goccioline, la città di Portsmouth annebbiata dal mattino.
     
Quell'uomo non mi piaceva, come non mi piacevano il suo ufficio freddo e grigio e la piovosa città che gli faceva da sfondo perfetto. Era un uomo grassoccio, sulla cinquantina, ben vestito, baffi curati, capelli radi ma ben pettinati, enormi dita dall’aspetto untuoso con cui mi strappò di mano il mio ridicolo pezzo di carta.
     
Sfogliò con espressione distratta il lungo curriculum. Come se ci fosse scritto davvero qualcosa. Erano solo troppi fogli, con una lettera di accompagnamento ben infiocchettata, sui miei pochi precedenti lavori – per l'appunto solo due – che mi avevano vista come cameriera in un piccolo bar del mio paese e cassiera di un super maledetto market. Poi qualcosa sui miei studi e una lunga serie di cose che non sapevo fare.

Detto tra me suonava ironico, eppure se ci ripenso non mi diverto affatto.
Avevo frequentato il liceo scientifico in Italia, dove fino a tre anni prima vivevo con la mia famiglia. Ma l’avevo fatto solo per seguire la mia migliore amica che poi, in seguito, si era rivelata una vera stronza, e il risultato fu che non riuscii nemmeno a prendere il diploma, perché in realtà ero un disastro nelle materie scientifiche.
Anche per questo, più che probabile, non riuscivo a trovare lavoro, nemmeno come barista o qualcosa di simile. Senza un diploma – almeno così sembrava – non si trovava proprio nulla di decente.
   
Pensai che forse avrei dovuto tentare come spazzina, pulisci cessi o puttana. Mi sa che non avrei avuto nemmeno tanta sfortuna come accettando quel lavoro che mi offriva quella sottospecie di uomo che avevo davanti.

Tazzina di tè nell'altra mano, l'uomo prese un rumoroso sorso. Da perfetto inglese aveva accanto alla scrivania un carrello da cucina apparecchiato con un ben di Dio da far invidia a qualunque chef: tartine, tramezzini, sandwich, piccoli panini al burro, fette di torta, budini, caramelle. C'era davvero di tutto sopra quel carrello.
In effetti era l'ora del tè e quel tipo sembra prenderla sul serio.
     
Appena giunta in Inghilterra, tre anni prima, dopo essere fuggita dalla mia disastrosa famiglia, o meglio dopo essere stata cacciata a calci nel sedere, avevo cercato di trovare lavoro mentre elemosinavo da zia Clari e zio Antonio. Ma dopo il pasticcio combinato al market - avevo rovesciato in testa a un cliente una montagna di scatolette di cibo per cani - non avevo più avuto molta fortuna.
     
Ecco come ero giunta dal ciccione dietro la scrivania. Cercando disperatamente un po’ di fortuna, dopo che zia Clari mi aveva sfrattato dal suo appartamento dov’ero in affitto. Che bella zia, a dispetto del suo nome tutto zucchero e i suoi abiti a fiocchetti e il suo fottuto tè all'inglese.
   
«Bene, bene, vedo che hai conseguito anche la laurea magistrale» ironizzò il signor "Ciccione” sollevando un sopracciglio invisibile. Non ero così certa, però, che stesse scherzando.
   
«Sì, beh, no… io…» balbettai imbarazzata, ancora me lo ricordo. Ma lui sembrò non farci caso.
   
«Allora… niente diploma, niente laurea, niente macchina, ma la patente ce l'hai …» Mi restituì il blocco di fogli dall'odore di cimice. «Bene, direi che è tutto apposto. Sei assunta.» Il tipo si ficco in bocca un pezzo di torta al cioccolato e si leccò le dita in un modo disgustoso, ma io ero troppo presa da quella parola. Assunta.
   
«Cosa?» Dapprima lo squadrai come inebetita, poi pian piano cominciai a rendermi conto che non stava affatto scherzando.
   
«Ho detto che sei assunta, Catrina Margaret. Fatti trovare qui domani mattina alle otto, ti porterò io nel tuo nuovo posto di lavoro.»
   
Ero davvero sorpresa, ma riuscii a formulare una risposta decente: «Io… la ringrazio, signore. Domani ci sarò sicuramente, ma… di che lavoro si tratta? Insomma, che cosa dovrei fare?» Nella proposta non era specificato proprio nulla.
   
«Oh, di questo non preoccuparti. Sarai certamente all'altezza.»
   
«Okay, va bene signore.» Non mi ricordavo il suo nome. «A domani.»
     
«Sì, sì, e ricordati di fare la valigia. E metti vestiti buoni, perché al tuo nuovo titolare piacciono.» Mi strizzò l’occhio. Non dimenticherò mai l’impressione che mi fece quell’iride quasi trasparente che mi fissava. Era agghiacciante.
     
«Grazie, signore» dissi quasi scappando da quella stanza più veloce che potevo.
     
E così si concluse il mio terzo e alquanto strambo colloquio di lavoro. Che cosa mi aspettava l'indomani? mi chiedevo esterrefatta. Durante tutto il tragitto in autobus, per tornare a casa, cioè l’appartamento che dovevo lasciare entro una settimana, non feci che pensarci e ripensarci.






Mi presentai il mattino seguente, davanti all'ufficio, alle otto precise. Uscita dall'ascensore mi trovai praticamente davanti il signor "Dita unte.”
   
«Non sono in ritardo, vero?»

«Questo lo saprai tu …» rispose l'uomo facendomi cenno di rientrare in ascensore. Notai che non aveva l'orologio al polso, come il giorno prima e vestiva di nero. "Cos'era, un funerale?" mi chiesi stupita.
     
In ascensore non parlammo. Una volta scesi, mi guidò fuori; io avevo ancora la mia dannata valigia in mano.

C'era un'enorme auto nera ad aspettarci, che prima non avevo visto, e il signor "Senza nome” mi fece cenno di entrare, tenendomi aperta la portiera. E io ci entrai, con la brutta sensazione di trovarmi in un carro funebre.
   
Lui sedette accanto a me e l'auto partì subito. Chi diavolo guidava? Io non lo vidi mai. Era tutto così dannatamente nero.

Scivolammo per tutta la campagna inglese, mentre nel cielo settembrino spuntava un tiepido sole biancastro. Faceva freddo quel giorno, infatti portavo un maglioncino di lana sopra alla camicetta candida.

Avevo messo i miei vestiti migliori, seguendo il consiglio del signor di cui non ricordavo il nome: pantaloni blu, stivaletti tirati a lucido e orologio al polso accompagnavano la camicetta bianca con il colletto ben stirato e il maglioncino dello stesso colore dei pantaloni. Avevo pettinato i capelli con più cura del solito, li avevo lisciati e raccolti in una coda ordinata. Avevo messo anche un cerchietto, per evitare ciuffi ribelli spaziali.
     
Ero carina, e speravo che questo bastasse al mio nuovo datore di lavoro almeno come prima impressione. Inutile nasconderlo, perché era impossibile. Ero terrorizzata.
Cosa mi aspettava non ne avevo idea. Sapevo solo che era la mia ultima possibilità e non dovevo per nessuna ragione al mondo lasciarmela sfuggire.





















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