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Arrivammo a metà pomeriggio. Ero stanca, ma non appena vidi ciò che mi aspettava provai sentimenti ben diversi.
     
In lontananza si vedeva infatti, parzialmente coperto dalla foschia, il profilo scuro di un castello, con torri nere e aguzze che svettavano macabre verso il cielo.
     
Sentii lo stronzo ridacchiare sotto i baffi. A me invece non divertiva affatto. Era una vista terrorizzante. Chi poteva mai vivere lì se non uno squilibrato o un pazzo eremita?

Scendere dalla macchina fu difficile. Preferivo di gran lunga il carro funebre al castello infestato dai fantasmi; ma Senza nome mi aprì la portiera costringendomi a uscire con un mezzo sorriso tirato in volto.
     
Da vicino il castello era se possibile ancora più impressionante. I muri erano nerastri, ricoperti per buona parte da un’edera incolta e dall’aspetto insalubre, che camminava verso l’alto come un cancro infestante. C’erano poche finestre, e un enorme portone con un battente di bronzo dall’inquietante forma di diavolo con una falce tra le mani. Non indugiai a verificarne i dettagli, invece distolsi lo sguardo disgustata da quell’orrore.
     
Qualcuno aprì senza lasciarci il tempo di bussare. Era una donna sulla sessantina, magra coma un chiodo, la pelle secca e tirata sul volto come una maschera bianca. Non aveva certo un aspetto rassicurante, e presto scoprii che la sua voce lo era ancora meno.
     
«Benvenuti, signor Gary e signorina…». "Gary, ecco come si chiamava."
     
«Margaret.»
     
«Margaret» ripeté. Eccola, la sua voce. Mi pare quasi di risentirla; ruvida e gracchiante, con un che di limone ammuffito. Per un attimo pensai di trovarmi di fronte una vecchia cornacchia. Dove cavolo ero finita? mi chiesi terrorizzata.
     
«Signora Claville, che piacere…» Gary le strinse la mano. «Signor Racket.» Accanto alla donna era apparso un uomo, sulla cinquantina, alto e allampanato; sembrava il maggiordomo della famiglia Addams. Era quello il mio datore di lavoro?  
     
«Salve signor Gary. Signorina Margaret, vuole venire con me?» Mi invitò a seguirlo con un elegante movimento della mano. Compresi allora che doveva essere davvero il maggiordomo, a giudicare, mi accorsi in quel momento, anche da come era vestito. Quindi ero in una casa di ricchi? mi domandai. Se davvero pagavano qualcuno solo per accompagnare gli ospiti nelle stanze, in un luogo dove non potevano esserci di certo molti visitatori, pensai allora che forse, dopotutto, sarei stata pagata bene.
     
Dapprima guardai il signor Gary, come per ricevere la sua benedizione, quella che non avevo ricevuto da mio padre. Lui mi sorrise annuendo convinto e in quel momento mi fece un po' meno schifo; ricambiai poco convinta, ed entrai seguendo poi il signor Racket per i corridoi del castello.
     
Era un luogo piuttosto buio, anche se centinaia di torce e candele su pesanti candelabri d’argento a molte braccia erano appesi dappertutto. Io rabbrividivo, sconcertata. Come si poteva vivere in un posto del genere? Le pareti erano fredde, grigie e spoglie, a parte qualche antico quadro raffigurante gelidi inverni, scene di caccia e sanguinose battaglie. Il pavimento era di un bel marmo bianco, ma molto trascurato. Tutto comunicava tristezza, oscurità e un senso di opprimente solitudine.
     
Il maggiordomo mi condusse fino a una stanzetta chiusa da una porta di legno marcescente. Forse non era proprio così ricchi. Il maggiordomo, pensai, doveva essere uno di famiglia.
     
Mi trovavo in uno spazio piccolo, buio, anche se fui sollevata nel constatare che c’era una finestra, sebbene le imposte non avessero un aspetto sano.
     
Rimasi sola dopo che il maggiordomo mi ebbe lasciata consegnandomi la mia valigia. Rimasi sbalordita, poiché non mi ero accorta che l’avesse presa lui, anzi me n’ero completamente scordata.
     
Non la disfeci, anzi la lasciai a terra e sedetti stralunata sul bordo del letto. Mi guardai intorno. Sembrava il set di un film dell’orrore. Davvero troppo grottesco per i miei gusti.
     
Oltre al letto c'erano semplicemente una cassa di legno d’ebano, un vecchio armadio a due ante, un tappeto logoro e una sedia a dondolo. Mancava solo la bambola rotta con gli occhi che fissavano il vuoto e mi sarei messa a piangere. Invece non c’era, così rimasi lì immobile finché il maggiordomo tornò a chiamarmi per la cena.
     
Nessuno mi aveva ancora detto niente, perciò speravo di incontrare quanto prima il padrone di casa per discutere del mio lavoro; rimasi delusa quando compresi che per quel giorno non aveva intenzione di farsi vedere.
     
La sala da pranzo era enorme, tappezzata di vecchissimi arazzi raffiguranti scene di caccia e battaglie in campo aperto. Un grande tavolo di legno scuro capeggiava nel mezzo della sala, e seduti stavano la signora Claville, che doveva essere la governante, un ragazzo dai capelli scuri e una ragazza riccia che teneva gli occhi bassi.
     
Quando il maggiordomo e io facemmo il nostro ingresso, la signora Claville si alzò in piedi e disse con la sua voce gracchiante: «Lei è la ragazza nuova, la signorina Margaret. Mi aiuterà nei lavori di casa.»

Solo allora fui consapevole di ciò che mi aspettava. Finalmente qualcuno si degnava di dirmelo. Certo doveva esserci molto da fare in quella “casa”, pensai quasi sconvolta.
     
Gli altri si alzarono in piedi e la governante continuò: «Signorina Margaret, loro sono Robert Hale e Anita. Anita è la cameriera e aiuta anche in cucina».
     
«E io sono Marisette, mia cara, la cuoca di questo postaccio!»

Mi volsi e mi trovai davanti una grassa signora dalle guance rosa e paffute, col grembiule e una cuffia in testa, che teneva in mano un enorme vassoio. «Ma tu, bella fanciulla, puoi chiamarmi Isa.» Parlava con accento leggermente francese, e sorrideva in modo adorabile. Lei a differenza degli altri mi piacque subito.
     
Mi invitò calorosamente a sedermi.
«Stasera il padrone non c’è, ma per darti il benvenuto ho comunque deciso di servire io in tavola. Di solito lo fa Anita, vero cara?» ”Padrone?" Quella parola mi suonò subito strana, molto strana.
     
Anita non parlò, continuando a tenere lo sguardo inchiodato a terra. Ero seduta accanto a lei, a sinistra, e mi sentivo a disagio.

Mangiai bene quella sera, tra arrosti, deliziosi contorni di patate e una marea di dolci, ma non mi piaceva l’atmosfera che aleggiava intorno a noi. Mi sembrava di trovarmi alle pompe funebri. Ne sapevo qualcosa io, avendo un padre che ci lavorava – forse era proprio per questo motivo che odiavo i posti grigi e freddi - ma non avrei mai pensato di andare a vivere in un posto simile.

Da quel giorno la mia vita non fu più quella che conoscevo. Nulla fu come lo conoscevo. Nemmeno io.





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