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Il mattino dopo mi svegliai che il sole non era ancora sorto. Non era raro che dormissi poco, quindi mi scrollai facilmente di dosso il sonno.
     
Aprii le imposte, e fui subito delusa dalla fredda accoglienza di un cielo grigio scuro coperto dalle nubi. Il paesaggio al di fuori del castello sembrava poco incoraggiante; la foschia ricopriva tutto.
     
Mi vestii come il giorno prima, sperando che fosse una scelta adatta, e pettinai con cura i capelli con la mia spazzola che mi ero portata dietro.
     
Fuori dalla stanza, nei corridoi poco illuminati, rischiai davvero di perdermi. Non pensavo che in una casa, per quanto enorme, potessero esserci tante stanze e tanti corridoi come in quel castello.
     
Quando infine riuscii a trovare la sala principale, accanto alla sala da pranzo, mi accolse il rigido saluto della vecchia signora Claville.
     
«Buongiorno.» Accennai un sorriso, cercando di essere gentile ed educata, due qualità che sapevo bene di non possedere.
     
«Sei in ritardo» gracchiò la governante.
     
«Cosa?»
     
«Ho detto che sei in ritardo» mi ripeté scuotendo la testa con disapprovazione.
     
«Ma non è ancora l’alba!» ribattei senza curarmi di celare il mio sdegno. In fondo non mi era stato detto alcun orario, perciò avevo pensato che il lavoro iniziasse alle otto, o alle nove, come la maggior parte dei lavori, e che nel frattempo sarei stata libera di farmi un giro e magari di prepararmi la colazione.
     
«Qui si comincia a sgobbare un’ora prima dell’alba, mia cara, quindi sei in ritardo di ben quindici minuti.»
     
Sbarrai gli occhi, non potevo crederci. Cosa pensava quella vecchia? Che me l’avesse detto il suo padrone fantasma?
     
Mentre la seguivo, ansiosa e sbalordita, registrai mentalmente di mettere la sveglia nel cellulare per i giorni seguenti.
     
Mi fu dato un grembiule per coprire i miei bei vestiti. Poi il lavoro cominciò. La signora Claville mi spiegò come dovevo svolgere i determinati lavori, in un modo tutto suo che mi provocò una corposa dose di ansia.

Continuò a squadrarmi  per tutto il tempo che impiegai a pulire le oltre quattro scale che mi indicò, i pavimenti di cinque sale, due vecchi lampadari pieni di polvere e l'interno di due vecchi e odorosi armadi. Dovetti poi lucidare l’argenteria di tre enormi mobili dall’aspetto antico, pulire i vetri di sei camere da letto e curarmi delle piante, fortunatamente non numerose, all’interno della casa.
     
Impiegai tutta la giornata e a mezzogiorno mangiai un panino mentre salivo e scendevo da una scala per lavare un vetro.
     
La sera ero distrutta. Mi facevano male le gambe, non riuscii nemmeno a contare le vesciche alle mani e la testa pulsava dalla stanchezza.
     
Feci una doccia prima della cena e vestii larghi pantaloni neri per stare più comoda e una maglia blu a maniche lunghe. Pettinai i capelli in una treccia dopo averli asciugati, poi mi guardai allo specchio. I capelli ondulati mi stavano bene raccolti, anche se qualche ciuffo fuoriusciva dalla treccia scomposta, ma gli abiti così scuri erano orrendi; in fretta mi diressi tra le mie cose sparse nell'armadio e nella valigia e agguantai una collanina rossa.

Scesi in sala da pranzo tutta soddisfatta, perché ero abbigliata in pendant con la casa rimanendo comunque me stessa.
     
La governante, il maggiordomo, la cuoca e il ragazzo dai capelli scuri erano già seduti a tavola. Mancava solo la ragazza, Anita, che probabilmente quella sera avrebbe servito. Come il giorno prima il padrone di casa non venne a cena.

Lo conobbi il giorno dopo, mentre andavo a pranzo dopo una mattina di estenuante lavoro. Ero sudata, pettinata male, e i vestiti, larghi e comodi, che mi aveva prestato la signora Claville, non donavano per nulla al mio corpo.
     
Fu quindi in una circostanza non proprio piacevole che incontrai per la prima volta il mio titolare.
     
Stavo percorrendo l’ultimo lungo corridoio prima della sala quando lo vidi uscire da una stanza davanti a me, immaginando subito che fosse lui poiché non mi parve nessuno degli altri. Accelerai il passo per salutarlo da brava dipendente, ma lui proprio allora si voltò.
     
Rimasi sbalordita trovandomi di fronte un ragazzo forse di qualche anno in più di me, ma dotato di una straordinaria bellezza. Mi saltarono subito agli occhi i capelli chiarissimi e lo sguardo glaciale, come fosse un statua di marmo, ma quando parlò la sua voce risultò piacevole.
     
«Tu devi essere la nuova addetta alle pulizie» disse senza l’ombra di un sorriso, ma con una voce calda e dolce. Mi limitai ad annuire. Non riuscivo ad aprire bocca. Avevo immaginato un uomo sulla cinquantina, stempiato e appesantito dagli anni; invece mi trovavo davanti un giovane alto e attraente.
     
Lui tese la mano e fortunatamente spezzò il silenzio: «Sono Adam Hale, il proprietario della casa.»
     
Presi la sua mano arrossendo e sbattendo le palpebre come un’idiota. «Molto piacere, si-signor Hale.»
     
«Stavi andando a pranzo suppongo. Ti accompagno.»
Ci dirigemmo verso la sala. Tutti gli altri sembrarono sorpresi di vederci insieme, provocando in me un forte imbarazzo. Tentai di dissimularlo raffreddando la mia espressione, ma colsi un lampo di curiosità negli occhi  all’apparenza timidi di Anita.

Più tardi, approfittando di un momento in cui la signora Claville si era stancata di starmi addosso, tornai indietro verso la sala e cercai la cucina.

Era enorme, un po’ all’antica, con mobili in legno scuro, vetrine contenenti eleganti servizi da tè, un’enorme camino e una sola, piccola finestrella che sbocciava accanto al camino.
     
L’aria era satura di vapore, ma anche densa di un invitante profumo di arrosto e focacce col miele. China su una di queste, con le mani immerse in un impasto giallastro, che rimestava con estremo vigore, stava la cuoca Isa, l’unico componente di quella stramba “famiglia” che mi aveva fin da subito suscitato simpatia.
     
Non era mia intenzione farmi vedere da lei, ma non so come mi sentì appena misi piede nella cucina. Si voltò, per nulla spaventata, e mi rivolse un sorriso a trentadue denti.

«Sei tu Margaret. Oh che bello, finalmente vieni a farmi visita!» Nel suo tono scorsi una vena di ironica indignazione. «Vieni, vieni, sto giusto facendo una bella focaccia. Se vuoi c’è qualche biscotto al cioccolato nel forno. Aspetta che te li tiro fuori.»

Entusiasta, mi avvicinai. Adoravo i biscotti al cioccolato! «Sei troppo gentile Isa.» Avevo subito imparato a chiamarla così per non indispettirla.
     
Si infilò due strambi guanti da cucina a forma di papere, e tirò fuori dal forno una teglia piena di biscotti dal profumo più buono che il mio naso avesse mai sentito.
     
«Prendine quanti vuoi,  cara, non fare complimenti» mi invitò la cuoca con un sorriso. Io la ringraziaiEraanche se era bollente ne assaggiai uno. Era ottimo. Stavo per prenderne qualcun altro per fare scorta quando entrò in cucina Anita.

Appena mi vide abbassò lo sguardo, arrossendo di imbarazzo. Isa la salutò distrattamente, poi continuò con il suo lavoro. «Ciao» dissi alla ragazza, cercando di attirare benevolmente la sua attenzione con un tono dolce e gentile. Dopotutto era lei che stavo cercando e non volevo certo farmela scappare.
     
«Ciao» mormorò lei. Mi sorpassò di fretta e sparì oltre una porta dall'altro lato della cucina. Io la seguii. Avevo intenzione di parlarle, non potevo permettermi di avere nemici e la timida cameriera mi inquietava parecchio con i suoi modi schivi.
     
Oltre la porta, lungo un corridoio stretto, potei ammirare molti dipinti come nel resto della casa. L'aria era fredda e sapeva di stantio ma la curiosità mi spingeva a continuare. Trovai Anita in una stanzetta buia e rotonda; mi dava le spalle e trafficava con alcuni barattoli di quella che sembrava marmellata.
     
«Cosa fai?»
     
Lei si volse di scatto: «Mi hai seguita.»
     
«Volevo solo parlare. Dato che viviamo insieme pensavo di poter... ecco, fare amicizia.»
     
Anita prese un paio di barattoli dal contenuto rossastro, inquietante nella penombra scura della stanza. «Io non posso avere amici.»
     
«E per quale motivo non potresti? È assurdo.»
     
«Il padrone non vuole lavoranti chiacchierone come te. Potrei finire nei pasticci.»
     
«Il tuo… il nostro "titolare”» marcai su quella parola, «mi è sembrato una persona gentile, non credo invece che avrebbe qualcosa in contrario se noi diventassimo amiche. In fondo siamo entrambe sole, un po’ di compagnia non potrebbe che farci bene. Probabilmente poi lavoreremmo anche meglio.»
     
Anita alzò appena lo sguardo, gli occhi in parte celati da una lunga frangia riccia. La sua espressione era di stupore, ma una sfumatura di ansia adombrava gli occhi grandi a farfalla. «Non devi esserne troppo sicura. Diffida dalle apparenze.»

Dopo queste parole misteriose, Anita fece per uscire nel corridoio  ma io la fermai prendendole un braccio. «Che cosa intendi dire? Di chi dovrei diffidare?» Volevo sapere; il suo sguardo e il tono basso e cupo della sua voce aveva creato un senso di disagio e timore dentro di me.
     
Lei però tacque. Abbassò di nuovo gli occhi, le labbra serrate in un linea dura. Non conosceva ancora la mia testardaggine. La lasciai andare ma subito incalzai: «Se hai bisogno di aiuto con quei barattoli... Mentre ti aiuto potremmo parlare un po’, che ne dici?»
     
«Dico che è meglio non parlarne.»

La ragazza non si volse neppure. Imboccò il corridoio e sparì dalla stanza. Io rimasi lì impalata, con un sapore amaro in bocca.
   
     

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