Capitolo 3

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22 Marzo

-Bentornato, Generale.-

L'equipaggio dell'Alabarda, il veloce sloop privato di Barbaglio, accolse il suo padrone appena egli scese dalla carrozza. Il vecchio ora era in abiti civili: scese dal veicolo indossando un abito grigio a tre pezzi, col colletto sbottonato fin quasi al petto, come era solito fare quando non doveva presenziare a cerimonie ufficiali. La sua espressione appariva stranamente serena ora.

Poggiandosi al bastone, Domenico salutò tutti e quattro i marinai che lo avrebbero ricondotto a casa, segnalando poi ai soldati che lo avevano scortato di scaricare il suo bagaglio e portarlo sulla barca.

L'Alabarda era un bello sloop, lungo poco più di venti metri con l'unico albero ad armo misto, con randa, gabbiola ed un unico fiocco. Non portava armi ed aveva una cabina poppiera abbastanza grande per un'imbarcazione di dimensioni così ridotte, che culminava in uno specchio di poppa dove tre finestre ovali ne costituivano il coronamento.

In un mare interno come la baia nel cui centro spiccava l'isola dove sorgeva Colle Argenteo, una nave di dimensioni ridotte era quanto di meglio si potesse desiderare per muoversi agevolmente. Nella baia erano nati numerosi piccoli insediamenti lungo la sua costa settentrionale: quel territorio, dove sorgevano delle alte scogliere ricche di vene in una strana pietra colorata, aveva ispirato i primi coloni che vi si erano stabiliti a chiamare i piccoli villaggi con nomi che omaggiassero le bizzarre tinte della roccia su cui sorgevano. Successivamente, quando alcuni villaggi vicini erano cresciuti tanto da "toccarsi" e fondersi in un unico borgo, era stato necessario rinominarli, ma uno di essi, circondato su tre lati da alti pendii in roccia ricchi di vene di ossidiana, ancora conservava il nome originario.

La costa settentrionale, sorgendo davanti ad una piccola ma ricca barriera corallina, era stata il terreno ideale per lo sviluppo di villaggi basati sulla pesca e sulla raccolta di perle e coralli, tanto che molti dei capifamiglia dei villaggi si erano arricchiti al punto da potersi guadagnare qualche posto nel Maggior Consiglio per i propri notabili. Il defunto principe Gradin era infatti uno di essi, essendo nato al Porto Nero, ossia il paese più occidentale della costa settentrionale della baia: il solo borgo a non essersi mai ribattezzato nei secoli.

Colle Argenteo, il centro abitato più grande dell'omonima isola, era sul lato meridionale di essa, quindi la navigazione avrebbe richiesto alcune ore, ore in cui Barbaglio, sedutosi sulla poltrona che aveva fatto installare poco innanzi alla barra del timone, si godette il viaggio standosene in silenzio sotto il sole.

I quattro marinai, conoscendo bene il loro armatore, quasi non gli rivolsero la parola: sapevano che quando navigava in solitaria lo faceva anche per concedersi alcuni momenti di silenzio, cosa che sulle navi che abitualmente comandava gli era preclusa, a causa dell'eccessivo affollamento di quei vascelli, in cui alloggiavano diverse centinaia di persone.

Per gran parte del tempo, Domenico trascorse la traversata riflettendo. Qualche giorno prima, quando era arrivato allo Squalo Scarlatto, la donna era scesa dalla sua carrozza, salendo su un'altra vettura, ferma ad attenderla in loco, che era scortata da ben trenta soldati a cavallo di una milizia privata al soldo dell'Alleanza Mercantile, riconoscibili dalle loro uniformi nere e viola.

Costei gli aveva fatto un'offerta: un'offerta davvero molto ghiotta, ed era stata così "gentile" da offrirgli del tempo per pensarci su.

A quanto gli era stato rivelato, l'Alleanza era intenzionata ad espandere la propria cerchia di influenza anche in altre nazioni. Molte di esse però, apparivano particolarmente restie ad accettare di mettere il proprio commercio nelle mani di un'unica impresa multinazionale, talmente ricca da poter sovrastare persino l'autorità dei vari regnanti. Quindi perché non armarsi di argomenti convincenti per persuadere i tentennanti sovrani a scendere a patti con loro?

Era una cosa immorale? Forse sì. Si trattava di una mossa che avrebbe portato poco a poco l'Alleanza ad ottenere il monopolio economico mondiale? Molto probabile. Avrebbe reso lui uno degli uomini più temuti della terra? Sicuramente sì, ma solo se lui avesse accettato e se il piano di mercanti si fosse realizzato fintanto che il suo corpo lo avesse ancora retto in piedi.

-Simone: dimmi una cosa...- il timoniere si stupì nell'essere interpellato, ma rispose prontamente.

-Mi dica, signore.-

Barbaglio picchiettò sul ponte con la gamba di legno. -A te piace il tuo lavoro?-

Il timoniere sorrise: -Non saprei farne un altro nella mia vita, signore.-

-E se venissi licenziato, che faresti?- voltò la testa per concedergli un sorriso rassicurante: -Non temere: non ti sto licenziando. Te lo chiedo solo per curiosità.-

Simone Mangeri: che da oltre un decennio era il comandante dell'Alabarda, ci rifletté per un po'.

-Credo che ne cercherei un altro simile: ho famiglia, devo occuparmi di loro.-

Domenico si poggiò sullo schienale sospirando.

-E se te ne venisse offerto uno a condizioni migliori a patto che tu accetti di fare anche cose che nel tuo vecchio lavoro non avresti mai osato fare se non per ragioni molto gravi?-

Simone si stupì: -Non credo di aver capito, signore.-

-Mettiamola così: ti offrono il comando di una bellissima nave, non essendo legato ad alcuna marina, ma ti chiedono ad esempio di...trasportare roba di contrabbando in cambio di una paga molto alta...tu lo faresti?-

Il timoniere, temendo qualche colpo di testa da parte del suo datore di lavoro, decise di sondare il terreno.

-Mi ha detto che ora è in pensione, ma non mi starà dicendo che le hanno chiesto di fare il contrabbandiere, vero? Non mi sembra che lei se la passi così male, economicamente, signore!-

Domenico fece una risata.

-No, no, ma figuriamoci!- rimase in silenzio per alcuni minuti, godendosi lo spruzzo di un delfino corallino che stava nuotando vicino allo scafo. -So che tu non hai mai infranto l'accordo di discrezione che hai firmato quando ti ho assunto, quindi credo di poter essere sincero con te.- sospirò. -L'Alleanza Mercantile vorrebbe che io assumessi il comando di una loro flotta militare che stanno costruendo. Una volta che questa sarà pronta, se accettassi avrei al mio comando più navi e marinai di quanti non ne abbia mai avuti in una missione con la Repubblica, e sarei anche pagato molto di più ma...-

-Ma?-

-Ma rischierei di dover combattere guerre contro dei paesi che non mi hanno fatto nulla, ma solo perché essi si sono rifiutati di ammettere l'Alleanza nei loro mercati. Sarebbe abbastanza immorale, insomma.- guardò il suo dipendente negli occhi. -Tu che ne pensi?-

-Penso che se tra tutti hanno proposto questo lavoro proprio a lei, un motivo deve esserci, signore.- rispose Simone dopo alcuni istanti di silenzio. -Ci pensi: chiunque altro, si porrebbe questi dilemmi? Saprebbe quando è il caso di concedere quartiere ad uno sconfitto o quando non sarebbe il caso di combattere, potendo evitarlo?-

Domenico sgranò gli occhi: ora aveva la conferma che lo stipendio del suo timoniere era troppo basso. 
-Probabilmente no.- gli concesse tornando a guardare l'orizzonte. -Ho avuto il mio periodo in cui sono stato spietato coi miei nemici e severo coi miei sottoposti, ma sono anni che mi sono lasciato...LUI, alle spalle.- disse facendo un leggero cenno di assenso con il capo. -Ma sono certo che i miei giorni da passare in mare non sono ancora finiti.-

-Allora, credo che lei sappia già quale risposta darsi, signore.- esclamò Simone iniziando a virare lentamente. -Non crede?-

*


La villa fortificata dei Barbaglio sorgeva vicino al mare, con un piccolo molo privato abbastanza lungo da consentire l'ormeggio di due piccole imbarcazioni.

La villa aveva due piani, di cui solo uno era abbastanza esteso: il primo piano infatti ospitava solo le cinque stanze da letto. Il pianterreno invece, molto più ampio e ricco di grandi finestre, si estendeva a forma di ferro di cavallo attorno a quello che un tempo era stato un piccolo giardino interno, ma che era stato fatto piastrellare dal padre di Domenico oltre trent'anni prima.

Nel salone d'ingresso, largo ed ampio ma leggermente basso, una grossa scala saliva al piano superiore, lasciando però libero un passaggio nel centro, che mostrava una sorta di altare con delle formelle in porcellana, sulle quali erano raffigurati tutti i membri passati della famiglia, a partire da Umberto, il defunto nonno di Domenico, fino ai nipoti dello stesso Domenico e della sorella Lucia.

Attorno all'edificio, ad una decina di metri dalla casa, sorgeva un muro di cinta alto il doppio di un uomo, sormontato da degli spuntoni metallici, che terminava attorno ad un massiccio cancello sul quale era impresso lo stemma della famiglia.

Colle Argenteo, che distava poche centinaia di metri, era un piccolo agglomerato urbano con non più di duemila abitanti: la famiglia Barbaglio era sicuramente la più rispettata della zona, anche se non la più rispettabile. Era capitato infatti che Giovanni, il padre di Domenico, avesse incrementato la fortuna della famiglia con diversi prestiti ad usura e non poche minacce, se non proprio con degli omicidi, nonostante questi ultimi non fossero mai stati provati. Per l'attuale capofamiglia non era certo stato semplice liberarsi dallo spettro del genitore, nonostante esso fosse morto proprio per mano sua e di sua sorella, che avevano poi provveduto a cancellare i debiti dei creditori paterni, riuscendo a farsi, se non apprezzare, almeno perdonare dalla gente del posto.

Nello scendere dall'Alabarda, Domenico non poté fare a meno ripensare alla sua famiglia. Aveva voluto molto bene a suo nonno, ma odiato profondamente i suoi genitori, rei non solo di aver condotto una vita criminale, ma anche di avergli combinato un matrimonio che si era rivelato infelice e non molto fertile. Da sua moglie Enzina Marin, morta otto anni prima, aveva avuto un figlio, con cui aveva fatto il possibile per costruire un bel rapporto, cosa in cui aveva miseramente fallito, nonostante i figli di quest'ultimo adorassero il loro nonno.

Pareva che fosse una specie di tradizione di famiglia: i figli non andavano mai d'accordo coi genitori ma erano in ottimi rapporti coi nonni. Era successo in passato e sembrava continuare. Solo Lucia, la sorella minore di Domenico, era riuscita a farsi amare sia dai suoi due figli, che da suo marito, che dai suoi nipoti, che avevano pianto molto alla sua morte, avvenuta due anni prima in circostanze tutt'ora ignote.

Cos'erano insomma loro, se non una famiglia che era nata grazie ad un atto nobile, ma che si era evoluta ed arricchita soprattutto con la violenza? Domenico se l'era spesso chiesto. Lui aveva cercato per tutta la vita di essere una persona onesta, e forse ci era anche riuscito, ma il fatto di aver scelto di fare il soldato, lo aveva inevitabilmente costretto a far del male ad altra gente. La cosa che lo aveva preoccupato, era il fatto che una parte di lui avesse anche provato un macabro gusto, molti anni prima, nel combattere. Questo gli aveva fatto temere di assomigliare al padre, ma col passare degli anni, il suo lato più feroce si era placato, malgrado la sua abilità come uomo di mare lo avesse spinto a dedicarsi ugualmente alla guerra col massimo impegno.

La guerra non era una bella cosa: solo chi non avesse mai combattuto poteva sostenere il contrario. Domenico ricordava bene quando un colpo dell'elsa di una spada nemica gli aveva sbriciolato i denti, e non avrebbe mai scordato di quel giorno di quindici anni prima, quando in battaglia ci aveva rimesso anche la gamba.

Quella era stata l'ultima occasione in cui il suo lato peggiore era emerso: suo figlio si riferiva a ciò quando gli aveva imposto di calmarsi. In alcuni momenti della sua vita, soprattutto in alcune battaglie in cui l'adrenalina gli era salita a mille, facendogli totalmente perdere il controllo, Domenico era divento una vera e propria furia, quasi incapace di controllarsi, finendo col lanciarsi nella mischia come una belva rabbiosa. In questo soprattutto parevano emergere i geni di Giovanni, e non c'era cosa che Domenico odiasse più di questo. 

L'arrivo dell'Alabarda al molo, dove venne assicurata a due bitte, destò l'ex Generale dai suoi pensieri. Era arrivato finalmente. Posandosi sul bastone, Domenico scese dalla barca e, barcollando leggermente, percorse il vialetto che lo condusse al cortile.

La casa sembrava molto silenziosa: forse pure troppo.

Appena Simone gli ebbe aperto la porta, al vecchio caddero le braccia: il salone era deserto; non c'erano più i mobili.

Appena si fu ripreso, Domenico scacciò dalla mente il pensiero di un furto: nulla era minimamente danneggiato, solo i mobili, i tappeti ed i quadri erano scomparsi; il resto era tutto al suo posto, senza nemmeno un graffio.

-Ma che è successo?-

-Nonno!- una voce stridula fece voltare lo sguardo al padrone di casa, che vide un ragazzino di quattordici anni con una folta chioma rossa, in tinta con l'abito che indossava, correre giù per le scale, arrivandogli addosso per abbracciarlo. -Allora, che mi racconti? Come è andata? Li hai sconfitti?-

Domenico sorrise al ragazzo: lui era Matteo, il figlio più piccolo di Marco. Ancora piuttosto piccolo e gracile per uno della sua età, quel giovane aveva dato prova, soprattutto a suo nonno, di avere una mente strategica eccellente. Nel gioco degli scacchi era a dir poco un campioncino: Domenico stesso non era mai riuscito a batterlo negli ultimi tre anni, e quando il ragazzo gli aveva chiesto di raccontargli alcune battaglie che aveva combattuto, nonostante la sua giovane età, era riuscito ad ipotizzare dei cambiamenti della tattica utilizzata, dei quali, nonostante lo stupore, perfino Domenico aveva dovuto riconoscere la validità.

-Fino all'ultimo, ragazzo mio.- esclamò il vecchio carezzando la testa del ragazzo. -Fino all'ultimo.-

-Ma dimmi: dove è finito tutto?- gli dispiaceva cambiare argomento in modo così brusco, ma lo stupore che aveva provato nell'entrare in casa, ancora non gli era passato.

-Papà lo ha fatto portar via.- spiegò Matteo trascinando il nonno per la mano libera, in modo da farlo andare verso lo studio che, ancora chiuso a chiave, era in teoria la sola stanza risparmiata.
-Tu lo sapevi che il Principe deve arredarsi il palazzo da solo? Io proprio no!-

Domenico scosse la testa, realizzando la cosa: non essendosi mai interessato alla politica, non aveva mai dato peso alle norme che regolavano l'elezione del Principe della Repubblica, ma ora queste gli erano tornate in mente. Solo il vitto e l'alloggio venivano garantiti al Principe ed alla sua famiglia, non l'arredamento del palazzo o il vestiario delle cerimonie: a quelli il regnante doveva provvedere da solo, ed evidentemente, Marco aveva voluto risparmiare qualche zecchino.

-E non poteva comprarsene di nuovi? Come hanno reagito la mamma e Cristina?- gli domandò mentre il ragazzino si fermava vicino alla porta dello studio che, munita di due serrature, era rimasta sbarrata.

-Sono partite l'altro ieri. Assieme ai mobili.- il tono di Matteo divenne piuttosto triste. -Han preso la Sciaboletta, il cutter dello zio Lorenzo, e sono partite per la capitale.-

Domenico sospirò: gli dispiaceva non aver almeno salutato la sua nipote più grande, che di anni ne aveva sedici, ma non gli fu difficile capire il motivo per cui suo figlio avesse lasciato Matteo a casa: era ancora troppo giovane per poter ricoprire delle cariche, e la capitale era un posto pericoloso per il figlio del Principe. Ora ci sarebbe stato da scommettere che Cristina sarebbe diventata la ragazza più ambita da parte dei rampolli più ricchi della Repubblica, visto che suo padre era diventato Principe ancora così giovane. (Giovane solo per l'età media alla quale normalmente si raggiunge la carica.)

Si ripromise di andare a farle visita il prima possibile. Messosi una mano in tasca, ne estrasse una chiave argentea, mentre il nipote, con un sorriso, ne afferrò una dorata che teneva nella tasca del gilet. Insieme, i due inserirono le chiavi nelle rispettive serrature, aprendo così la porta dello studio.

Esso era una stanza non molto grande: occupava l'estremità dell'ala sinistra della casa in tutta la sua larghezza: non più di cinque metri per quattro. Al centro di esso c'era un grande tavolo, in cui l'ex Generale conservava le sue mappe, disegnate e riempite di correzioni e note nel corso di sessant'anni passati in giro per il mondo. Le pareti erano coperte da scaffali pieni di libri e modelli navali, mentre ai lati della porta vi erano rispettivamente una teca contenente le nove medaglie ottenute nella carriera di Domenico, ed un mappamondo alto più di un metro.

Il vecchio però, una volta aperta la porta, rimase impietrito: sulla scrivania, proprio nel mezzo, c'era una grossa scatola di legno, con della ceralacca sulla serratura.
E quando avevano chiuso la stanza, prima della partenza, sul tavolo non c'era nulla.

-Come ci è arrivata quella qui?- chiese Domenico più a sé stesso che a Matteo, che invece non sembrava affatto stupito.

-Non lo so, ma oggi ne ho trovata una uguale in camera mia.- rispose il ragazzino sorridendo al nonno. -Sopra c'era un biglietto che diceva di aspettare il tuo ritorno per aprirla.-

Domenico, sempre più sospettoso, si avvicinò al pacco e, con non poca sorpresa, vide che sulla ceralacca era impresso il logo dell'Alleanza Mercantile. Sopra alla scatola c'era una piccola busta di carta, anch'essa chiusa con il medesimo sigillo.

Spero di aver preso le misure adatte. 
Se la Sua risposta fosse un Sì, la aspettiamo tra dieci giorni alla Guardiarola.
Suo nipote è invitato a seguirla.

Il testo era breve e sbrigativo, su questo non c'era da discutere. Ma cosa intendeva dire con "le misure adatte?"

Domenico inspirò profondamente e ruppe anche il sigillo della scatola; aprendola, tutti i suoi dubbi cessarono di colpo.

-Matteo: va in camera tua.- disse voltandosi a guardare il nipote. -Apri la scatola e, se contiene ciò che penso, indossalo, poi scendi di nuovo qui.- aggiunse sorridendo severamente.

Il ragazzino, sopraffatto dalla curiosità, si precipitò nel corridoio e poi corse su per le scale, lasciando il nonno da solo nella stanza.

Nella scatola c'era una divisa nuova di zecca: il tessuto nero e viola era incredibilmente morbido e comodo, molto più di quello delle uniformi da cerimonia che Domenico aveva tanto odiato nel corso degli anni.

I pantaloni, in tinta col gilet, di un elegante viola scuro, erano allo stesso tempo morbidi ed elastici, con la gamba tagliata esattamente al punto giusto per inserirsi all'altezza della protesi. Lo stivale, di un nero lucido con la fibbia in argento, calzava a pennello, arrivando a coprire il polpaccio e fermandosi poco prima del ginocchio, per non intralciarne i movimenti.

La giubba però era il vero e proprio cavallo di battaglia di quell'uniforme: era lunga fino al ginocchio, con lo spacco centrale che andava a formare due code sulla schiena. Il colore era un nero molto intenso all'esterno, ed il medesimo viola dei calzoni all'interno.

Sul fronte, la giubba aveva due risvolti ricchi di alamari viola con ricami argentei, così come argentei erano i numerosi bottoni, fatti apposta in modo da poter tenere la divisa aperta o chiusa a seconda del clima. A Domenico scappò un leggero sorriso vedendo che la divisa aveva delle spalline. Lui non ne aveva mai utilizzate nella sua carriera, ma appena si mise indosso la giubba, nel guardarsi allo specchio dovette ammettere che gli piacevano. Erano cucite con un filo argenteo, che però copriva solo i loro bordi e le frange. Il centro della spallina era infatti viola con ricamate in argento quattro stelle a cinque punte, sormontate da un'ancora ed una bilancia.

A completare la divisa vi era un cappello a bicorno nero con il bordo viola ed argenteo, che però il vecchio non volle indossare: il cappello non si indossa mai al chiuso.

Se prima di indossare quell'uniforme, Domenico non era sicuro se accettare o meno l'offerta, ora ogni dubbio nella sua mente si era diradato: anche se anziano e pieno di acciacchi, non era pronto a starsene in disparte. E se suo figlio non voleva più lasciarlo in servizio pazienza: avrebbe navigato con qualcun altro.

In procinto di uscire dallo studio, Domenico si accorse che sul fondo della scatola che conteneva l'uniforme, era presente un secondo biglietto, stavolta non incartato, ma solo appoggiato lì, come a voler essere letto.

Grazie, Ammiraglio.

Non più "Capitano Generale" ma "Ammiraglio" ora... non male dopotutto. Pensò Domenico uscendo dall'ufficio. Nel farlo, appena ebbe chiuso la porta alle proprie spalle, trovò Matteo di fronte a lui, con indosso una divisa molto simile alla sua, solo con i risvolti più "puliti" e con le spalline senza alcun simbolo al di fuori della bilancia.

-Ti veste benissimo, ragazzo mio!- si complimentò il vecchio nel vedere il nipote che provava ad imitare le tipiche pose militari davanti al nonno.

-Anche a te, nonno.- replicò il giovane sorridendo. -O devo chiamarti "signore" adesso?-

Domenico, vedendo che nel frattempo Simone e gli altri membri dell'equipaggio dell'Alabarda erano entrati in casa e li stavano osservando, scoppiò a ridere.

-Ancora no, figliolo: ancora no.- gli disse avvolgendolo in un abbraccio con una mano mentre, con l'altra, indicò ai marinai di raggiungerlo.

-Preparate l'Alabarda per un viaggio più lungo del solito, ragazzi.- ordinò loro sorridendo soddisfatto. -Domattina salpiamo per la Guardiarola: abbiamo un nuovo lavoro da compiere!-

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