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CAPITOLO 6 | GALWAY GIRL (1)

2017

"Boys, I ain't never seen nothin' like a Galway girl."

(Steve Earle - Galway girl)


È giovedì sera e l'atmosfera del pub, così chiassosa e allegra durante i fine settimana, è fumosa e rilassata. Il Nelson è il locale prediletto da molti studenti: è in una posizione centralissima, vicina agli edifici universitari, e offre un'ottima selezione di birre a prezzi ragionevoli. Stasera sono qui con Emily e Grace: abbiamo deciso di goderci una serata di chiacchiere e relax, dopo aver trascorso tutto il pomeriggio piegate su una presentazione di gruppo che dobbiamo preparare per il corso di Linguistica Storica.

"Dovremmo uscire più spesso," dice Gracie, giocherellando con una patatina fritta.

Emily annuisce con fare deciso. Il suo sorriso è più luminoso del solito e si accompagna perfettamente alle sue guance arrossate dalla birra. "Giusto! Holly, ti proibisco di darci buca d'ora in avanti, non vedi quanto siamo divertenti?" mi accusa, ridendo.

Le sorrido e incasso. So che non me ne fa una colpa, perché sa quanto la mia vita sia frenetica tra lezioni da seguire e da preparare, tesi da scrivere e turni di lavoro da ricoprire, eppure non posso fare a meno di sentire una punta di amarezza farsi strada dentro di me. Perché mi mancavano serate come questa, e realizzo solo ora quanto ne avessi davvero bisogno.

Il mio cellulare vibra nella tasca dei miei pantaloni: bevo un lungo sorso di birra - è la seconda, ed ora è finita - e poi controllo. È un messaggio. Lui.

Sono ancora in ufficio e ne avrò per almeno un'altra ora. Posso passare da te, dopo?

È trascorsa quasi una settimana dalla cena mancata con Kevin, e io mi sto crogiolando in una fiera indifferenza mista a un pizzico di infantilismo.

La mattina successiva l'ho trovato alla mia porta, un bicchiere fumante di caffè in una mano e un bagel nell'altra. Ha detto di essere terribilmente dispiaciuto, ma non si è avventurato nel darmi ulteriori dettagli sul contrattempo che lo ha trattenuto - dal canto mio, io non ho chiesto. Ho visto un lampo di sorpresa passare nei suoi occhi quando l'ho semplicemente baciato sulla guancia e gli ho rubato il caffè dalle mani, invitandolo ad entrare e chiedendogli quali fossero i suoi progetti per la giornata. Cosa ti aspettavi, avrei voluto dirgli, una scenata? Sono situazioni come questa che mi ricordando qual è il mio posto, e che mi insegnano dolorosamente a non pretendere più di quanto mi spetti. Facciamo quello che fanno gli amanti, tesoro.

Sto per mettere via il cellulare, senza rispondere, quando arriva un nuovo messaggio.

Mi manchi, Livia.

Ricaccio il telefonino in tasca. Vaffanculo.

*

Quando raggiungo il bancone del bar per ordinare la mia ormai quarta birra, ho le gambe malferme e la testa piacevolmente leggera. Tamburello le dita sulla superficie di legno scuro e laccato, canticchiando distrattamente le parole di You shook me all night long, le cui note si diffondono dalle casse a un volume che non urta le orecchie, e seguo con sguardo rapito la collezione di superalcolici invecchiati impilata sulle mensole dietro il bancone.

"Cosa posso servirti?"

La voce è così improvvisa e così scozzese che, nel mio ormai avviato stato di allegra ubriachezza, è un miracolo non mi cedano le gambe. Abbasso di scatto la testa dal conteggio dei whisky sul ripiano più alto, incrociando lo sguardo del barista, che mi osserva con un sopracciglio inarcato mentre asciuga un boccale con un panno.

Potrà avere esagerando trentacinque anni: capelli corti castano scuro e barba rossiccia, c'è un lampo divertito nei suoi occhi azzurri mentre mi guarda. Me ne accorgo di sfuggita, impegnata come sono a far scorrere lo sguardo sul modo indecente in cui la maglietta nera che ha addosso risalta le sue braccia. Ho un tipo. Rosso e scozzese, a quanto pare.

"Vedi qualcosa che ti piace, tesoro?" mi chiede. Oh, questa mossa ti riesce molto meglio di me. Sorride e io sento le guance bollenti, ma non ho la forza di volontà di preoccuparmene.

"Mi dispiace," inizio. Sono molto educata, specialmente da ubriaca. "... è che sei davvero molto bello," gli spiego, senza pensarci troppo su. Un'altra cosa che mi succede, quando esagero un po'. Totale perdita di filtri. Una voce nella mia testa che suona stranamente con Piper mi dice che lo rimpiangerò domani mattina, ma al momento non sembra importante.

Se inarcare un sopracciglio fosse uno sport, quest'uomo sarebbe un campione mondiale. Continua a guardarmi con una divertita espressione benevola, e per fortuna parla di nuovo prima che io possa rivolgere la mia totale attenzione al bracciale di cuoio che porta al polso.

"Sei molto bella anche tu," mi dice, riponendo il boccale e prendendone un altro.

"Grazie."

"... ma anche molto ubriaca," mi fa notare. Fa una pausa, ripone anche questo bicchiere e si sistema davanti a me. Appoggiata coi gomiti al bancone e protesa appena in avanti come sono, quando lui mette le mani sul legno siamo decisamente vicini. Riesco a sentire l'odore di fumo sulla sua maglietta. "... vuoi un bicchiere d'acqua e limone? Un caffè?"

Se fossi un attimo più percettiva in questo momento, gli farei notare quanto sia controproducente per un barista cercare di vendere liquidi che non siano alcolici ai propri clienti, ma al momento tutto quello che riesco a produrre è uno sbuffo sonoro e palesemente esagerato.

"Voglio una Galway Hooker," dico, con tutta la decisione di cui sono capace. Frugo nelle tasche e appoggio i soldi sul tavolo. "Per favore," aggiungo, facendo un piccolo sorriso.

Alza le mani in segno di resa, prende la banconota e si sposta per trafficare dentro il frigo, alla ricerca di quello che gli ho chiesto. "Una ragazza di Galway, mh?" mi chiede, quando ritorna davanti a me. Prende un bicchiere e lo appoggia tra di noi sul bancone, iniziando a versarci la birra.

"Perché, tu bevi solo Gordon?" ribatto con leggerezza, inclinando appena la testa.

Mi guarda, e sembra sinceramente divertito. "No," mi risponde con pazienza, "... ma hai un discreto accento, e la birra ha fatto il resto."

"Oh. Già." Questo è probabilmente vero. La mia cadenza torna particolarmente irlandese quando non ho le capacità mentali per pensare a quello che dico, figurarsi al come lo dico.

Ride, divertito dalla mia improvvisa mancanza di parole, mentre spinge il bicchiere pieno fino all'orlo verso di me. "Okay, ragazza di Galway, promettimi che questa è l'ultima e che non vomiterai nel tragitto da qui al tuo tavolo, d'accordo?"

"Promesso."

"E magari," inizia, portandomi ad alzare lo sguardo verso di lui. "... un'altra volta, quando sarai sufficientemente meno ubriaca da non rimpiangere le tue decisioni..." C'è aperta e divertita malizia nei suoi occhi, e io mi ritrovo di nuovo a guardarlo con le labbra dischiuse e le guance in fiamme, mentre la sua mano sale dal mio braccio per riportare su la spallina del mio top nero, scivolata dalla mia spalla chissà a quale punto della serata. Una sensazione di inaspettato piacere a questo tocco, così deliberatamente lento, scende dal mio collo lungo la schiena. "... potrai tornare e avere un assaggio di Scozia."

La sua espressione un po' ammiccante si trasforma in un sorriso allegro. Quando scoppio a ridere di gusto, lui mi segue dopo pochi istanti.

"Non posso credere che tu l'abbia detto davvero!" lo sgrido, prendendo un respiro tra le risate e colpendolo scherzosamente sulla spalla, "Un assaggio di Scozia," gli faccio il verso, cercando di riproporre il suo fortissimo accento scozzese.

"Mi dispiace, mi dispiace!" Lui scoppia di nuovo a ridere, e io sono davvero fiera di me. Ha una risata meravigliosa.

Bevo un sorso della mia Galway Hooker, mentre lentamente recuperiamo il controllo di noi stessi. Quando riabbasso il bicchiere, lui mi sta guardando: c'è ancora un rimasuglio di divertimento nei suoi occhi, e poi qualcos'altro che non riesco a decifrare. Sono troppo in là con la birra per mettermi a capire le persone dai loro sguardi come faccio di solito. E poi lui non è Kevin, non lo conosco a memoria. Kevin. Scaccio il pensiero dalla mia testa con tutte le forze.

"È stato divertente, comunque," gli dico a mezza voce, sorridendogli. "Hai uno stile di aggancio notevole," aggiungo.

"Ti ricordo che cinque minuti fa mi guardavi come se fossi sul menù," mi fa notare, inclinando appena la testa e inarcando un sopracciglio. Da quando inarcare un sopracciglio è una mossa sexy? Dannazione. "... siamo pari, non credi?"

"Credo di sì," approvo.

Mi volto appena, notando Emily e Grace che mi osservano intente e divertite, al nostro tavolo dall'altro lato del locale. Lui segue la direzione del mio sguardo, ridacchiando quando Gracie - quei suoi cocktail rosa acceso sono evidentemente più dannosi di quanto sembrino - gli fa un cenno entusiasta con la mano. "Immagino sia ora di tornare dalle tue amiche, tesoro," mi dice, sorridendomi appena quando mi giro di nuovo verso di lui.

Arrossisco mentre penso che a quest'uomo dovrebbe essere impedito di pronunciare la parola tesoro. "Oh, sì, credo anch'io..." È ora di tagliare la corda, Holly. "È stato un piacere, ehm..." mi fermo, mentre realizzo che non conosco il suo nome. Con un gesto un po' impacciato, gli tendo la mano che non regge il bicchiere di birra. La sua stretta è decisa, e il suo sorriso è tornato malizioso.

"James," mi aiuta.

"Holly," mi presento. Il suo pollice accarezza appena il dorso delle mie dita prima di lasciarmi andare, ed è come se una scarica di calore liquido e improvviso percorresse tutto il mio corpo. "... beh, sarebbe Olivia, ma tutti i miei amici mi chiamano Holly," aggiungo, così velocemente da quasi mangiarmi le parole. Sono insopportabilmente eccitata e terribilmente in imbarazzo. La vita è ingiusta.

"Holly," ripete piano, e il mio nome è morbido sulle sue labbra malgrado l'inflessione ruvida della sua voce.

Faccio mezzo passo indietro, salutandolo con un sorriso e un cenno della mano, l'altra che tiene saldamente la birra. Un cliente richiama la sua attenzione e io mi allontano, il sorriso ancora sulle labbra, libera e leggera.

2014

"She is everything I need that I never knew I wanted,
She is everything I want that I never knew I needed,
This is going to bring me to my knees,

I just want to hold you close to me."(The Fray - She is)

Mi massaggio le tempie con le mani e chiudo gli occhi, in fuga dal quaderno davanti a me. Il silenzio della biblioteca universitaria, che di solito mi aiuta a trovare la concentrazione, in questo momento non fa altro che acuire il mio mal di testa.

La prova intermedia di filologia romanza si sta avvicinando con rapidità disarmante, e io mi sono arenata su un argomento particolarmente ostico che sento di non riuscire ad afferrare del tutto, la metafonesi. Il professor McKidd ci aveva anticipato che sarebbero state un paio di lezioni linguisticamente intense, per così dire, e la sfortuna ha voluto che coincidessero con la settimana in cui ho preso l'influenza. Sono andata in università comunque, imbottita di antipiretici e analgesici, ma tra raffreddore e un po' febbre insopprimibile i miei appunti di quei giorni non sono dei migliori. Ho chiesto a Grace di controllare il suo quaderno, ma la situazione che ci ho trovato dentro era decisamente più confusionaria della mia.

Sospiro, perché so che c'è una sola via praticabile, ed è quella di chiedere al professor McKidd.

*

Il giovedì, alle quattro in punto, sto percorrendo i corridoi intricati che ospitano gli uffici dei professori del dipartimento, oltre la biblioteca di Letteratura. All'ingresso, mi hanno gentilmente indicato la posizione dello studio del professor McKidd, e così ora, dopo aver bevuto un caffè doppio e non il mio solito americano per caricarmi più che mai, sto camminando con lo zaino sulle spalle tra le assi di legno del parquet che scricchiolano ad ogni mio passo e interi armadi ricolmi di volumi che occupano le pareti.

La porta dell'ufficio è aperta. Prendo un respiro profondo e faccio il mezzo passo che mi manca per essere sulla soglia: sulla destra, con alle spalle scaffali e scaffali di libri che si inerpicano verso l'alto, il professor McKidd è alla scrivania di legno scuro, le maniche della camicia bianca arrotolate fino ai gomiti e una penna in mano, completamente concentrato sui fogli sparsi che ha davanti.

Faccio un respiro profondo e batto due colpi leggeri sullo stipite.

"Mi scusi..." inizio, e la voce mi esce più sottile di quanto non faccia di solito. Il professor McKidd alza di scatto lo sguardo dal suo lavoro, trovandomi appoggiata sulla soglia, e io cerco di recuperare un po' di sicurezza. "... posso?"

Ha un'espressione sorpresa - non si aspettava qualcuno durante il suo orario di ricevimento o non si aspettava me durante il suo orario di ricevimento? -, ma quando vedo distendersi sulle sue labbra un caloroso sorriso, riesco a sentirmi un po' più rincuorata.

"Miss Gardner, certo, prego," mi invita, alzandosi in piedi e facendo cenno alle due sedie davanti alla sua scrivania.

"Grazie."

Il suo ufficio è semplice, ma ben arredato: tutta la luce proviene da una finestra situata sulla parete opposta alla porta, mentre l'intero lato sinistro è occupato da un piccolo divanetto che sembra piuttosto confortevole, e da altri scaffali. Quando entro noto, appena sulla destra, quasi a portata di mano dalla scrivania, un mobiletto su cui sono appoggiati un fornelletto elettrico e un bollitore, oltre a qualche barattolo.

Passa qualche secondo di silenzio in cui io lotto per liberarmi da sciarpa e giacca e appoggiarli insieme allo zaino su una delle due sedute, per poi prendere l'altra, e lui riordina i fogli che aveva sparsi sulla scrivania, mettendoli in un cassetto, e poi ritorna di nuovo al suo posto.

"Allora," inizia, i gomiti appoggiati sul legno della scrivania e i pugni uniti sotto il mento, leggermente proteso in avanti. "... cosa posso fare per lei?"

Oh, le cose che potresti fare.

"Dunque, ehm," comincio, cercando in ogni modo di rallentare il ritmo della mia conversazione: quando sono nervosa ho la tendenza incontrollabile a parlare così veloce da mangiarmi le parole. "So che è il suo orario di ricevimento, oggi" - mi torco le mani e lui annuisce, invitandomi a proseguire e guardandomi con gentilezza. - "E io ho avuto qualche problema negli ultimi giorni con la parte sulla metafonesi che abbiamo visto a lezione, quindi mi chiedevo se potesse aiutarmi a chiarire quei punti che mi stanno mettendo in difficoltà, ecco."

"Ma certo."

Dopo questa apertura, le cose sono più facili e il tempo scorre troppo velocemente. Prendo il mio quaderno dallo zaino, e gli mostro direttamente dai miei appunti le parti con cui sto combattendo: ho molte domande, e il fatto che lui sembri sinceramente interessato ad aiutarmi a capire a fondo l'argomento non fa che protrarre i nostri ragionamenti. Mi piace perché non mi tratta con condiscendenza, eppure allo stesso tempo riesce a smascherare i complicati salti mortali della sua disciplina per quello che sono, un percorso lineare: le parole cambiano, ma non mentono mai. In linguistica, per lo meno.

Ho rubato una penna dalla tazza in cui le tiene sulla scrivania, e mi sono fatta dare un foglio bianco su cui annotare i consigli bibliografici che mi ha elencato per approfondire un paio di argomenti, mentre lui sta trafficando con il bollitore, in piedi davanti al mobiletto. Si è offerto di prepararmi un tè, e io non posso fare altro che approfittarne per lasciar scorrere lo sguardo sulle sue spalle, la schiena ampia e il modo in cui quei pantaloni di sartoria grigio scuro gli stanno addosso - dannatamente bene, è la risposta.

Quando ritorna alla scrivania, facendo scorrere la tazza fumante davanti a me, ci scambiamo un tiepido sorriso. "Lo sai, sono contento che tu sia venuta," mi dice, e io mi rendo conto che non è la prima volta, nel corso di questa conversazione, che mi si rivolge con un tono più confidenziale - era già successo in libreria, dopotutto. Dovresti davvero imparare a guardare dove metti i piedi, aveva detto. "... dico sempre agli studenti di chiedere se incontrano qualche difficoltà nello studio, ma alla fine raramente qualcuno mi dà retta, e poi i problemi si rivedono tutti durante l'esame."

Annuisco, "Sì, beh, molto spesso è più imbarazzo che altro, parlo per me almeno," rifletto, immergendomi nel profumo del tè e bevendone un piccolo sorso. Mi guarda, interrogativo, e io alzo appena le spalle, "Ho sempre paura di disturbare, o di non essere abbastanza preparata e di fare una brutta figura," gli spiego ulteriormente. Siamo troppo rilassati e tranquilli, per essere un professore e una studentessa, con le nostre tazze di tè caldo e gli appunti di filologia romanza sparsi tra di noi. O almeno, io lo sono - ma a giudicare dall'ammorbidirsi della sua espressione mentre mi osserva, proprio ora, posso giurare che lo sia anche lui.

Avvicina la tazza alle labbra, e dopo aver bevuto la ripone nuovamente davanti a sé. "Per quello che vale," mi dice, "Non mi hai disturbato affatto, e mi sei sembrata più che preparata, Olivia."

La sua voce è pacata e riesco a sentire tutta la sincerità nel suo tono, perché è quella che riesco a leggere anche nei suoi calmi occhi azzurri. L'unica cosa che la mia testa riesce ad elaborare però, in questa frazione di secondo, è che mi ha appena chiamata per nome. Si ricorda il mio nome, dallo scontro in libreria perché da cos'altro, altrimenti?, e mio dio mi piace quando dici il mio nome.

"Oh, beh, grazie," balbetto. Sbatto le palpebre, e so di stare arrossendo; devo fare appello a tutte le mie forze per non sfuggire al suo sguardo sincero. "Anche se era una strada obbligata, in questo caso: ho preso l'influenza la scorsa settimana, e i miei appunti erano davvero terribili," dico con un lieve sorriso, e mi sfugge uno sbuffo leggero - una risata piccola e mal trattenuta, nel mio tentativo di alleggerire l'intensità di questo momento appena passato. "Aramaico, praticamente."

Mi rifugio nella tazza di tè, e lo vedo corrugare appena la fronte. "Stai meglio, adesso?" mi chiede. Il fatto che sembri sinceramente preoccupato e interessato alle mie condizioni di salute mi fa provare una potente e inappropriata ondata di affetto nei suoi confronti.

Annuisco. Lo guardo e sorrido, cercando di ripagare i suoi sguardi così sinceri con altrettanta cortesia. Quasi incoraggiato dal mio sorriso, lui ricambia la mia espressione.

"Adesso sì, grazie."

Adesso sì, con te.

Continuiamo a gustarci il nostro tè caldo e il confortevole silenzio.

Le parole non mentono, ma a volte anche i silenzi sanno dire la verità.

2017

"Your grace is wasted on your face, your boldness stands alone among the wreck."
(Mumford and Sons - Little Lion Man)


La strada di ritorno verso casa è tranquilla e silenziosa: l'aria della notte d'autunno è gelida, e sento il freddo pungermi le ossa malgrado il cappotto caldo e la sciarpa di lana. Sono sicuramente più sobria di due ore fa, quando ho dato una povera prova di me al bancone del Nelson, ma probabilmente prendere un analgesico prima di dormire potrebbe comunque non essere una cattiva idea.

Traffico un po' con le chiavi del portone principale del palazzo e salgo lentamente le scale, concentrata sul recuperare dal mazzo quella per il mio appartamento. Quando arrivo nel mio corridoio, l'uomo appoggiato di schiena sulla mia porta cattura tutta la mia attenzione: ha le braccia conserte, e quando mi vede e scioglie la stretta per distenderle lungo i fianchi i pugni rimangono chiusi.

La rabbia lo circonda come un'aura: la riconosco nel suo sguardo lucido e deciso che si fissa su di me, nella sua postura, tesa come la corda di un violino, e nel silenzio che cala tra di noi. I nostri silenzi sono spesso affettuosi e confortevoli, ma questo no. C'è qualcosa di furioso e predatorio nei suoi occhi.

Ci fronteggiamo così, muti nella penombra.

"Non hai risposto, non hai richiamato," inizia. Cerca di trattenere il tono della voce, perché è tarda sera e siamo nel corridoio del condominio, esposti all'orecchio di chiunque non riesca a prendere sonno, ma la rabbia passa anche attraverso la voce bassa. "Non sapevo dove fossi, se stessi bene..." - mi appoggio allo stipite di legno della mia porta, lasciando che la sua figura mi sovrasti. Sono stanca, e non sono tornata a casa per sentire dei rimproveri. - "Ero preoccupato!"

"Mi dispiace," le parole volano fuori dalla mia bocca prima che possa trattenerle, e la mia voce è tanto melensa quanto avvelenata, "Ho avuto un contrattempo."

Ho avuto un assaggio della vita spensierata che non mi appartiene, perché ho sacrificato tutto per stare con lui - i miei principi, la mia dignità, ogni cosa - e provo un selvaggio e ubriaco piacere al solo pensiero di sbatterglielo in faccia. Avrei potuto finire nel letto di uno sconosciuto, stasera, se avessi voluto, lo sai?

Incrocio il suo sguardo e so di aver colpito basso. L'ho ferito. Se lo meritava, ma vedere la sofferenza nei suoi occhi mi riporta con i piedi per terra, e ora non mi sento più euforica, ma solo spenta.

"Livia-"

Prima che possa continuare, mi spingo verso di lui: gli circondo la vita, abbracciandolo stretto e appoggiando la guancia sul suo petto, contro il tessuto freddo della giacca. "Mi dispiace," dico ad occhi chiusi, e questa volta lo penso davvero. Sento le lacrime, in attesa sotto le ciglia. Sono solo stanca, amore mio, non lo vedi?

Passa un istante, e poi la sua mano destra mi circonda le spalle e l'altra trovare il suo posto sul mio fianco, a tenermi premuta contro di lui; appoggia il mento sulla mia testa, e lo sento inspirare profondamente, mentre affonda il naso tra i miei capelli chiari.

Rimaniamo così, stretti l'uno all'altra, in un silenzio di nuovo nostro.





Woah, un capitolo piuttosto lungo, eh? Spero che vi sia piaciuto, io mi sono divertita moltissimo a scriverlo - Holly ubriaca e l'entrata in scena di James, soprattutto! Se avete notato, questo capitolo si chiama Galway Girl (1); ho in previsione un (2), che però non sarà immediatamente la parte successiva, ma arriverà un po' più in là - non posso dire molto al momento - non voglio rovinare la sorpresa -, ma posso dire che avremo altre citazioni da altre canzoni intitolate Galway Girl, dopo quella di Steve Earle a inizio di questo capitolo (ovvero, ED SHEERAN!)

Okay, la parentesi confusionaria è finita: se avete letto e vi è piaciuto, ditemelo, io sono contenta! Se avete letto e non vi è piaciuto, ditemelo ugualmente, il feedback mi fa sempre piacere, di qualsiasi tipo sia! Ci si legge tra una settimana!

A venerdì! ;)

Holly

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