TRENTOTTO

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CAPITOLO 38 | DIDN'T THEY SAY THAT ONLY LOVE WILL WIN IN THE END?



"Se dici ciò che vuoi sentirai forse cose che non vorresti."

(Alceo)

GENTILE Miss Gardner,

la aspetto giovedì mattina nel mio ufficio per discutere le conclusioni della sua tesi.

Con qualche eccezione – la lontanissima notte dell'ultimo dell'anno, più di tutto – io e Kevin abbiamo sempre cercato di mantenere la nostra comunicazione elettronica il più formale possibile. Uno scrupolo insignificante in un'ampia valle di segreti, ma a cui avevo finito col fare l'abitudine.

Proprio per questo, non è la forma della mail a lasciarmi lo stomaco annodato, questa mattina. È che - l'ultima volta in cui ho visto Kevin lui mi stava osservando rigirarmi tra le braccia di James, dall'altra parte del cortile dell'università. Dopo tutto quello che mi ha fatto, odio che ci sia ancora una parte di me che senta il bisogno di giustificarsi.

"Qualcosa di interessante?"

Alle mie spalle, Jamie si piega appena su di me per baciarmi una guancia, prima di oltrepassarmi per riempirsi una tazza di caffè.

Scuoto appena la testa, cercando di sorridere mentre lo osservo trafficare davanti ai fornelli, padrone della mia cucina: ha i capelli spettinati e ancora segnati dalla piega del cuscino, i piedi scalzi e nient'altro addosso oltre a un paio di boxer neri. C'è una combinazione di tenerezza e sensualità nella sua figura, abbastanza per riempirmi il cuore di gioia e farmi sentire il calore liquido dell'eccitazione sotto la pelle.

"E' soltanto il mio relatore," rispondo, cercando di suonare il più casuale possibile. L'uso dell'avverbio soltanto mi fa quasi sorridere amaramente. Allungo una mano per prendere la mia tazza e berne lentamente l'ultimo sorso. "... vuole vedermi per parlare delle conclusioni della tesi."

Jamie apre il frigo, alla ricerca del cartone di latte già aperto da aggiungere al suo caffè. "E' quasi fatta, allora, mh?"

"Quasi," annuisco. È davvero la parola chiave: quasi finita, quasi vuota, quasi libera, quasi coraggiosa. Quasi.

James recupera i cereali dalla credenza e si siede di fronte a me, riempiendo con metodica precisione la sua tazza, fino all'orlo: da quando fa colazione qui, ho dovuto raddoppiare le mie scorte di cereali – ne versa praticamente metà pacchetto per bicchiere di latte, è sconvolgente. Lo guardo schiacciarli per bene nella tazza con il cucchiaio, lo sguardo concentrato.

Sono le piccole cose come questa che mi lasciano sospesa, in bilico tra un ti amo, lo sai? devi saperlo, e un silenzio denso e solo da cui ancora non riesco a trovare via d'uscita. Quasi.

Le parole continuano ad avere troppa importanza.

"Hai già pensato alla tua festa di laurea?" mi chiede, portandosi alle labbra un cucchiaio – decisamente troppo pieno - di cereali bagnati di latte e caffè.

Chiudo lo schermo del portatile, incrociando nuovamente il suon sguardo. "Non so nemmeno quando mi laureerò, sinceramente," ammetto, un sospiro leggero, "... forse luglio, o magari settembre," considero. Gli esami sono finiti, e io ho tutto il tempo per dedicarmi soltanto alla tesi. Soltanto. Pensarci mi fa annodare lo stomaco.

Jamie ammicca divertito, strappandomi alle mie riflessioni. "Lo dico perché al Nelson organizziamo ottime feste," mi fa notare, una mezza risata sulle labbra mentre raccoglie un altro cucchiaio di cereali.

I ricordi riescono a strapparmi un sorriso. "Oh, ed è il mio ragazzo o il gestore del pub che ci tiene a farmelo sapere?" chiedo, divertita.

C'è una piega soddisfatta sulla sua bocca quando dico il mio ragazzo, e per un instante meraviglioso dimentico tutti i miei dubbi. "Entrambi," ammette con nonchalance, mescolando il caffelatte. "Ma ehi, niente obbligo. Direi che c'è ancora tempo per decidere."

Ripenso a tanto tempo fa, a quello che avevo pensato per il giorno della mia laurea. Niente è come l'avevo immaginato.

"... ma se festeggi da Veronica's m'offendo."

Sorrido, facendogli una linguaccia. Ti amo, lo sai? Devi saperlo.

*

"Sei pensierosa."

Alzo lo sguardo dalla mia Eneide, incrociando gli occhi grigi di Will.

È un pomeriggio piovoso, come ce ne sono molti, in maggio, e il lunedì è sempre un giorno pigro per La Libellula: il risultato è che in libreria ci siamo soltanto noi, al riparo dalla pioggia che si infrange contro i vetri, un tè caldo fumante ancora da bere grazie al fornelletto elettrico che Elaine ha sistemato sul retro.

Sorrido appena, passandomi una mano tra i capelli. "Non è neppure una domanda?" provo a chiedere con leggerezza.

Gli occhi di Will rimangono concentrati sul mio viso. Sospiro. "Lo sono, ma non influisce sul mio lavoro," prometto, cercando di sviare il discorso in un altro modo, "... e neppure sui miei esametri, sono una capra così di mio," scherzo, abbassando per un momento gli occhi sul mio libro. Ille meos, primus qui me sibi iunxit, amores abstulit; ille habeat secum servetque sepulcro (1). Dannazione, Will, vorrei dirgli, me lo stai insegnando bene il latino.

Il tentativo di sorriso che avevo sulle labbra muore lentamente, mentre assorbo le parole di Didone. La risposta di Will arriva qualche attimo dopo, quieta e profonda - come ogni cosa di lui. "Non devi parlarne, se non ti va."

Sollevo la testa: se ne sta accanto alla sezione poesia, accanto ai lirici greci e latini, la posizione che occupa sempre quando traduciamo l'Eneide. All'inizio, ricordo di aver pensato che la vicinanza alla letteratura antica gli fosse necessaria a sopportare lo scempio che facevo del latino. Adesso, vedo fantasmi di poeti immortali ovunque si proietti l'ombra di Will.

"E' che..." inizio, perdendo immediatamente il mio impeto. Fuori, la pioggia di maggio continua a picchiettare sulle vetrate de La Libellula.

Will mi osserva, paziente e in attesa: c'è stato un momento in cui quest'uomo ha smesso di essere soltanto il mio capo. È stato il giorno di Aiace, il giorno degli spettri e delle ombre. Non ho la presunzione di considerarlo un amico – quale amicizia potrebbe trovare, un uomo come lui, in una ragazzina come me? -, ma mi piace pensare che ci sia qualcosa di affine, tra noi due. Anche se fosse soltanto Aiace, sarei felice ugualmente. Un libro non è mai soltanto un libro.

Mi passo le mani sul viso, chiudendo gli occhi per un momento, prima di trovare il coraggio per continuare. Il pensiero di Kevin, dritto, appuntito e pungente, mi attraversa la mente. "... qualche volta, l'amore è crudele."

Lo osservo assorbire le mie parole, e per un istante, spero soltanto che abbia una risposta, la risposta, che mi dica quello che devo fare per essere felice senza fare del male a nessuno o farmi altro male lungo la strada. Ma lui resta in silenzio per un lungo momento, i suoi occhi grigi che guardano oltre la mia figura senza realmente vedermi, come quella sera lontana in cui abbiamo parlato di Aiace. Non ho mai smesso di chiedermi chi lo abbia ferito in questo modo e chi lui abbia ferito in modo altrettanto crudele, da quel giorno.

Mi nascondo nuovamente il viso tra le mani, l'Eneide ancora aperta davanti al tavolo della cassa, umiliata da questo mio incontrollabile momento di debolezza.

Il groppo del pianto mi stringe la gola. Niente è come l'avevo immaginato.

I passi di Will scricchiolano sul parquet della nostra libreria, e anche se so che si sta avvicinando a me, voglio continuare a tenere gli occhi chiusi e le mani sul viso, per tenere a bada le mie lacrime.

"Dolce amara indomabile belva (2)," dice soltanto, e la sua voce è bassa e roca e vinta.

Le sue dita mi sfiorano con delicatezza i capelli, ma lo scampanellio della porta annuncia l'ingresso di un cliente. Will è rapido ad accoglierlo, mentre io alzo di nuovo lo sguardo.

Il suo tocco è stato così leggero che per un istante penso che potrei averlo soltanto immaginato.

*

"Scusa, era Jake," – James entra in camera da letto, interrompendosi per un istante mentre io alzo lo sguardo dal mio libro. Lo vedo osservare per un momento la rovinata copertina blu notte del volumetto che tengo tra le mani.

"Problemi?" chiedo con un sorriso gentile, sistemando Tristano e Isotta sul comodino, accanto a Il Barone Rampante.

"Un fornitore, niente di che, Jake si era dimenticato..." - la sua voce assume una sfumatura interrogativa quando calcio indietro il lenzuolo, alzandomi in piedi. All'improvviso, la sola idea che quei due libri se ne stiano l'uno accanto all'altro sul mio comodino mi provoca un dolore quasi fisico. - "Dove vai?"

"Metto via il libro," dico soltanto, zampettando a piedi scalzi fino alla libreria nel mio salotto. Imprigiono Tristano e Isotta accanto all'Edda, accanto ai miei appunti di filologia romanza quasi con rabbia - come se non fossi stata io a riportarli silenziosamente in camera mia, in questo mesto pomeriggio.

Quando torno di là, James mi guarda, un sopracciglio inarcato.

Lo bacio su una guancia senza dire nulla, prendendolo per mano e muovendomi verso il bagno.

*

James mi osserva affaccendarmi attorno alla vasca già colma di acqua bollente, impegnata ad accendere le candele profumate alla lavanda.

"Mi stai viziando," considera con voce roca.

Inizia a spogliarsi, tenendo lo sguardo concentrato su di me, che in questo momento ho addosso soltanto le mutande e la sua maglietta. Sorrido, soddisfatta una volta sistemata l'ultima candela, spostandomi verso di lui nella luce aranciata e profumata.

Mi sollevo appena sulle punte soltanto per premermi meglio contro di lui, imprigionandolo con un bacio lento contro lo stipite della porta. Salgo con una mano sul suo viso, sfregando il pollice sulla barba che ha iniziato a crescere e il cui segno è ben impresso sulle mie cosce, mentre poso l'altra sul suo petto, le unghie appena sulla pelle, al di sopra del cuore.

"Mi piace viziarti," sussurro sulla sua bocca, affondando con le dita tra i suoi capelli e cercando un altro bacio. Mi piace il suono basso del suo gemito, quando la sua lingua trova la mia e la sua mano scende a stringermi il sedere, per attirarmi ancora di più contro di lui e premersi meravigliosamente su di me. Anche attraverso il cotone, la sensazione è così potente da farmi girare la testa.

Quando ci separiamo appena, quanto basta per riprendere fiato e guardarci negli occhi, l'affetto che leggo nel suo sguardo è quasi insopportabile. Alla luce calda delle candele, James mi prende il viso tra le mani, sfregando il naso contro il mio prima di piegare appena il viso per trovare di nuovo le mie labbra, mentre io riesco soltanto a chiedermi se mi merito davvero, di essere guardata così.

*

Quando arriva il giovedì, lento e inesorabile, in cielo c'è di nuovo il sole: io ho sistemato nello zaino una copia un po' più strutturata delle mie conclusioni e sono di ritorno da un tutorato di due ore di linguistica generale.

Ormai è quasi ora di pranzo, e il mio stomaco brontola fastidiosamente – non ho fatto in tempo a fermarmi al bar neppure per un caffè, perché gli studenti del primo anno mi hanno chiesto di ripercorrere lentamente e passo per passo gli esercizi dell'ultimo compito scritto della professoressa Lee, e ovviamente ci è voluta una esageratamente ridicola quantità di tempo.

Busso alla spessa porta di legno con la targhetta placcata che dice Professor McKidd, spingendomi nell'ufficio senza aspettare davvero una risposta – c'è una parte di me, da qualche parte, che vuole farla finita con questa tortura il prima possibile.

"Volevi veder- oh, mi dispiace, non-" balbetto, gli occhi sgranati. Il panico mi risale lungo la gola chiusa, e so che potrei vomitare.

L'abitudine, la fretta, la rabbia, ti portano a commettere degli errori.

Se avessi aspettato a spalancare la porta senza premura, se mi fossi fermata a riflettere per qualche minuto prezioso, magari in caffetteria, davanti a un americano e a un bagel, ora non sarei qui, le guance in fiamme e la sensazione della bile che brucia nello stomaco davanti a Jane McKidd.

Immobile sulla soglia, ho ancora la mano sulla maniglia quando lei mi sorride appena, con gentilezza. "Cercava mio marito?" mi chiede, e non c'è una traccia di malizia o cattiveria o vittoria nella sua voce. Perché dovrebbe?

L'ufficio è vuoto, oltre a lei: Jane è seduta su una delle due poltroncine davanti alla scrivania, le gambe accavallate e una camicia di seta con una stampa floreale nei toni del bordeaux che fa risaltare ancora di più la sua pelle bianca e il verde chiaro dei suoi occhi, e io forse ho smesso di respirare.

"Mi dispiace," ripeto nuovamente, muovendo un mezzo passo in avanti ma senza staccarmi del tutto dallo stipite della porta. "Dovevo discutere con il professor McKidd della mia tesi, mi aveva detto di passare questa mattina-"

Jane mi osserva annuendo appena, un sorriso leggero di comprensione indulgente sulle sue labbra, mentre io mi chiedo come sia possibile che tutte queste parole di senso compiuto mi stiano uscendo dalla bocca. Questo non è decisamente il demone contro cui credevo di dover combattere questa mattina. Soprattutto perché questo demone è un aggraziato angelo dagli occhi verdi che mi guarda come se io non fossi nient'altro che uno tra i tanti studenti di suo marito. Ecco, è questo quello contro cui non ero davvero pronta a combattere.

"Miss Gardner," – Mi rendo conto di non aver sentito lo scricchiolio dei passi sul parquet del corridoio quando ormai è troppo tardi, e Kevin, un plico di fogli tra le mani, mi passa accanto per entrare nel suo ufficio, dove sua moglie lo osserva con un sorriso che non ha niente a che vedere con la cortesia educata che ha riservato a me. "... sono le undici passate, non credevo sarebbe venuta," dice freddamente, senza guardarmi negli occhi. Fa più male della freddezza che non ho mai sentito in Miss Gardner.

Mi sta rimproverando. Se non fossi sulla soglia del suo ufficio, insieme a sua moglie, decido che potrei anche cavarglieli con le unghie, i suoi maledetti occhi.

"Ha ragione, mi scusi," ribatto rapidamente, sistemandomi una ciocca di capelli sfuggita alla treccia dietro l'orecchio. Questa mattina mi sono sforzata così tanto per sembrare il più adulto e professionale possibile, per il tutorato, e ora la mia semplice camicia bianca infilata nei pantaloni palazzo neri mi sembra soltanto il tentativo di una bambina che gioca a sentirsi più grande, davanti alla semplicità aggraziata di Jane McKidd. "... avevo il tutorato di linguistica generale, ed è andata troppo per le lunghe."

Sposto lo sguardo da Kevin, ancora impegnato nel sistemare nel cassetto della scrivania i suoi fogli, e cerco gli occhi verdi di Jane. Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace. "... posso tornare in un'altra occasione."

"Oh, non si preoccupi per me, ci mancherebbe!" Scuote la testa, alzandosi in piedi e raccogliendo la propria borsa dall'altra poltroncina. Cerca gli occhi di Kevin, che chiude l'ultimo cassetto e alza la testa per guardarla. Mi chiedo se la veda anche lei, la tensione improvvisa delle sue spalle e il profilo della mascella rigido e serrato, o se io me lo stia soltanto immaginando. "Ti aspetto in caffetteria, va bene?" gli dice pacatamente, con dolcezza.

C'è qualcosa, nel suo portamento, nel suo tono, che all'improvviso mi riporta alla mente mia sorella Esme. Il pensiero di poter fare una cosa del genere a mia sorella brucia rapido come uno schiaffo.

Il nervosismo nella postura di Kevin si allenta quando incrocia il suo sguardo, e io mi sento impotente spettatrice di una complicità che davvero, non avevo bisogno di vedere.

"Va bene, a dopo."

"A dopo," – Jane si volta verso di me, e io mi scosto dalla soglia con un movimento che vorrei fosse più fluido per farla passare, cercando di non colpire con la coscia lo spigolo del mobiletto con il bollitore e il fornelletto. Questo ufficio mi sembra improvvisamente troppo stretto. – "Arrivederci," mi saluta educatamente con un lieve sorriso, oltrepassandomi.

"Arrivederci," sussurro, cercando di ricambiare.

Per un momento lunghissimo, l'unica cosa su cui riesco a concentrarmi sono i suoi passi che si allontanano nel corridoio. Ho pensato per un attimo che sarei stata meglio, senza di lei in questa stanza, ma la verità è decisamente diversa. Il mio sguardo trova di nuovo la figura di Kevin, ancora oltre la scrivania, e i suoi occhi abbandonano la porta da cui è appena uscita sua moglie per spostarsi appena su di me, paralizzata a metà tra lo stipite e il muro.

Nel silenzio denso che rimane su di noi, Kevin aggira lentamente la scrivania, muovendosi verso di me. Rimango immobile, continuando a seguirlo con lo sguardo mentre lui mi si ferma accanto, avvicinando la porta. È nel mio spazio personale, è troppo vicino, io ho appena parlato con sua moglie e riesco a sentire l'odore della sua pelle e della sua camicia.

Alzo il mento, senza spostarmi, in attesa. Quando finalmente abbassa appena la testa per guardarmi di nuovo, c'è soltanto il silenzio, e la rabbia che riesco a vedere nei suoi occhi azzurri. Sposta una mano, e per un momento sono quasi inspiegabilmente convinta che mi stringerà un fianco, che mi spingerà via, che mi attirerà a sé, che-

Poi succede qualcos'altro.

La chiave gira nella toppa, e Kevin chiude la porta a chiave.

"Prima di loro, mentre furono nella foresta, mai due furono così ubriachi d'amore; e mai, come dice il racconto là dove Bèroul lo vide scritto, nessuno si amò reciprocamente e con tanta intensità, nessuno la pagò così cara."

(Bèroul - Tristano e Isotta)

(1) "Lui, che m'ha unita a sé per il primo, il mio amore s'è preso: e lo tenga con sé, chiuso dentro il sepolcro!" (Eneide, Libro IV – vv. 28-29)

(2) Tramontata è la luna, Saffo – traduzione di Salvatore Quasimodo

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