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CAPITOLO 25 | BUT A BRUSH WITH THE DEVIL CAN CLEAR YOUR MIND

"it must hurt to know

i am your most

beautiful

regret"

(Rupi Kaur)

*

"QUANDO hai detto che torni?"

Tengo il cellulare con una mano e due borse della spesa nell'altra. Come mi ero ripromessa, ho appena consumato quasi un intero stipendio de La Libellula nell'acquisto di frutta, verdura e altri generi alimentari di cui mia madre sarebbe fiera.

"Il prossimo finesettimana," rispondo a Keeran, fermandomi al semaforo in attesa di attraversare. Imprigiono il telefonino tra spalla e orecchio, iniziando a cercare le chiavi di casa.

"Perfetto," risponde, e so che sta sorridendo, "Passi a trovarci?"

"Non vorrei disturbare..." inizio, incerta.

"Non provarci neanche," mi ammonisce dolcemente. "E in più, io e Katie abbiamo davvero bisogno di parlare con altri adulti," sospira, e io mi lascio sfuggire una risata. "... o comunque, qualcuno a cui io possa rivolgermi senza usare la mia voce in falsetto."

"Non saprei, ho un bel ricordo della tua voce prima della pubertà..." lo prendo in giro.

"Oh, intendi fino ai miei dieci anni?" risponde, senza perdere un colpo.

Apro il portone del mio palazzo, facendo un rapido cenno di saluto alla signora Bloom, che si gode sul balcone l'inaspettato sole di questa giornata.

"Ti ricordi? Sei tornato dalle vacanze e boom, avevi la barba e la voce di un fumatore cinquantenne."

Abbandono le due borse della spesa sul tavolo della cucina e calcio via le mie scarpe da ginnastica senza troppi complimenti, mentre continuiamo a chiacchierare con leggerezza.

*

Will mi osserva dalla sua posizione alla cassa.

Oggi ci siamo solo noi due: è la tarda mattinata di un pigro e assolato giovedì – i clienti sono pochi e si aggirano a passi lenti tra le varie salette della libreria, il parquet che scricchiola sotto le suole delle loro scarpe.

Sto percorrendo con lo sguardo alcuni scaffali, alla ricerca di un libro da portare a Katie, quando tornerò a Galway. Sorrido tra me e me, esplorando con le dita le coste della sezione di Poesia.

L'improbabile sole di questa giornata filtra da una delle finestre, abbattendosi sulle nostre teste. L'atmosfera è quieta, quasi sacrale. Da quella inaspettata conversazione su Sofocle, mi sento come se una piccola crepa si fosse aperta nella barriera di professionalità che ci ha sempre separati. Non ti chiederò mai nulla, tu non mi dirai mai nulla, ma sono qui.

Volto appena la testa, accennando un sorriso. "Ehi, Will?"

"Si, Olivia?"

"Voglio regalare un libro alla moglie del mio migliore amico, che è anche il mio ex-fidanzato. Qualche consiglio?"

Lui mi guarda, incredulo, la bocca che si apre in un sorriso. "La tua vita è davvero strana, Olivia Gardner," dichiara con un sospiro, alzandosi per raggiungermi.

Rido, alzandomi sulle punte per sfilare un libro da uno degli scaffali.

Non ti chiederò mai nulla, tu non mi dirai mai nulla, ma sono qui.

*

Quando torno a casa, uso la prima metà del pomeriggio per riscrivere ordinatamente tutte le mie idee su una nuova versione del capitolo centrale della mia tesi. Sgranocchio del croccante di avena come spuntino, le gambe incrociate sul divano.

Domani ho deciso di passare in ufficio da Kevin. Da quando l'ho visto alla caffetteria dell'università ho evitato con cura di pensare a lui, cercando di seppellire l'istintiva sensazione di tradimento che ho provato nel vederlo con quell'anello al dito. È un pensiero amaro – con quale diritto, Holly?

Sospiro. Ho distratto la mia mente con lo studio e il mio corpo con il sesso, ma avevo anche promesso a me stessa di comportarmi da adulta - la mia tesi ha bisogno di un relatore.

Il messaggio di Piper arriva provvidenzialmente a strapparmi dai miei pensieri scuri: propone a me e Vicky una merenda in caffetteria, più tardi, e io decido immediatamente di aver mangiato sufficientemente sano, per oggi, e di meritarmi più che mai una tazza di tè e un piatto di scones.

Abbandono gli appunti su cui mi sono impegnata tutto il pomeriggio e mi preparo velocemente, senza fare troppo caso a quello che sto indossando: le mie amiche mi hanno vista vomitare nel mio bagno con addosso solo una maglietta dei Flogging Molly, possono sicuramente apprezzarmi anche in jeans, felpa e scarpe da ginnastica.

Sono quasi le cinque quando metto piede in strada, stretta nel giaccone: il sole si sta avviando al tramonto, colorando il cielo di striature aranciate, mentre l'aria inizia a farsi fredda. Passo vicino al Nelson con un sorriso, tentata di mettere dentro il naso per un saluto – riesco a trattenermi, soprattutto perché so benissimo che passare da James vorrebbe solo dire non raggiungere mai e poi mai la caffetteria.

Incontro Vicky a pochi passi dal bar. La prendo sotto braccio, salutandola con un sonoro bacio sulla guancia, e insieme raggiungiamo Piper, che ci sta aspettando al solito tavolo – il nostro tavolo.

"Ehi!" saluto allegramente, sporgendomi verso di lei per abbracciarla.

Mi sorride appena, indugiando nella mia stretta un po' di più quando nasconde il viso nella mia spalle. Ha di nuovo gli occhi tristi, quello sguardo perso e buio che solo lo sconosciuto alto e biondo era riuscito a cancellare, quella sera al pub. Vicky ci chiede allegra come ce la passiamo e io cerco di cancellare l'ombra che vedo passare sul viso di Piper raccontando di come mi sono ufficialmente messa a dieta, salvo poi chiedere una abbondante porzione di scones non appena il cameriere – che ormai ci conosce e sopporta da anni – viene a recuperare le nostre ordinazioni.

La vetrata permette una visione totale sulla strada brulicante, incendiata dai colori del tramonto.

Vicky sorseggia il tuo tè con quella grazia che è solo sua – ho sempre invidiato quel modo spontaneo e naturale che ha di rendere ogni gesto posato, femminile. Io mi avvento senza troppi riguardi sulla mia merenda, aggiungendo un po' di latte alla mia tazza fumante di Darjeeling – sono un'irlandese trapiantata in Inghilterra, lasciatemi sbagliare.

Piper addenta distrattamente uno scone ripieno di marmellata.

"Ragazze, vi devo dire una cosa."

La sua voce piccola e sottile mi fa alzare lo sguardo di scatto.

Qualcosa non va.

Smetto di tormentare il bordo della mia tazza ormai vuota, osservando la mia amica portarsi nervosamente una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

"Devo tornare a casa, ad Abridge."

Qualcosa non va.

Ancora, è la sua voce a farmi capire il peso di quelle parole.

"Quanto stai?" chiede Vicky, incuriosita.

Qualcosa non va.

Guardo Piper, e nei suoi occhi scuri trovo la risposta che mi serve – Piper non sta tornando a casa per un finesettimana o poco più, come ho imparato a fare io in questi anni. Non so perché, ma Piper sta tornando a casa per restarci, e questa decisione le sta spezzando il cuore – e il mio, e quello di Vicky.

Tocco un braccio di Vicky, senza sapere bene cosa dire, mentre Piper sorride – triste. Oh, amica mia.

"Definitivamente. Devo lasciare Oxford."

I minuti successivi scorrono velocissimi e al rallentatore.

Devo cercare di essere calma e ragionevole davanti a questa notizia, perché Vicky accanto a me è arrabbiata, oh se è arrabbiatae io la capisco, la capisco davvero, perché questa è la nostra Piper e ce la stanno portando via – ma più guardo la mia amica trattenere il magone più mi rendo conto che un'altra persona livida a questo tavolo non servirebbe a nulla.

Piper ci spiega per sommi capi la situazione economica della sua famiglia, tracollata. Il negozio dei suoi genitori è fallito, e all'improvviso i soldi che erano già pochi ora non sono nemmeno abbastanza, e lei deve tornare a casa a dare una mano. Vorrei dirle qualcosa che la faccia stare meglio, ma non riesco a trovare nulla.

"Quando devi partire?" chiedo, la voce asciutta e la gola secca.

"Questo sabato?"

A Vicky trema la voce. "Di già?"

"Sì, di già," risponde lei, atona.

Rimaniamo in silenzio.

Fuori non è ancora scesa la notte, ma a me sembra già buio.

*

Quando rimetto piede nel mio appartamento, mi rendo conto che il mio primo giorno di dieta può considerarsi fallito miseramente.

Indosso i pantaloni della tuta senza considerare neanche la possibilità di cenare, un nodo stretto alla bocca dello stomaco quando mi accoccolo sul divano e mi stringo le ginocchia al petto, finalmente libera di piangere.

Ho resistito quanto ho dovuto – sono l'amica più grande, sono mamma Holly, dopotutto. Piper non se ne va dall'altra parte del mondo, questo è certo, ma è comunque la fine di qualcosa, qualcosa che avevamo qui e che era solo nostro – mio, suo e di Vicky.

Il pacchetto di Lucky Strike mi osserva promettente dal tavolino. Addio, sane abitudini mai recuperate. Mi sfrego gli occhi arrossati, prendo il mio parka ed esco sul balcone, la sigaretta già tra le labbra.

Inspiro profondamente, mettendomi una mano sul cuore quando nella semi-oscurità noto la figura allampanata sul balcone di Sibyl. Un ragazzo, alto, moro e dalla pelle olivastra, alza una mano in un incerto segno di saluto.

"Scusami, scusami," - Tossisco ripetutamente, il fumo che si alza in piccole nuvolette. – "Non mi aspettavo ci fosse qualcuno," ammetto, cercando di produrmi in un sorriso conciliante.

"Scusami tu," mi dice, ricambiando la mia espressione. Si appoggia con entrambe le mani sulla ringhiera, guardandomi inspirare un'altra boccata di Lucky Strike, mentre io mi chiedo come faccia a non avere freddo in jeans e maglietta a maniche corte.

Scrollo le spalle, come a dire non fa nulla, e mi avvicino lentamente al lato del mio balcone adiacente a quello di Sibyl e Tom. "Sei un amico di Tom?" chiedo, mordendomi la lingua per la mia maleducazione, "Dio mio, scusa," – quante volte avrò detto scusa, negli ultimi trenta secondi? – "... sono Holly, piacere di conoscerti."

Gli tendo la mano che non tiene la mia sigaretta ormai quasi finita, mentre mi complimento con me stessa – le mie tecniche per fare amicizia sono le stesse e sono infallibili, da quando ho cinque anni. La sua stretta è salda ma gentile.

"Dev, piacere mio," si presenta, passandosi l'altra mano tra i capelli lunghi. "... anche se io ti conoscevo già," aggiunge.

Inclino appena la testa, osservandolo interrogativo mentre inspiro un'altra boccata dalla Lucky Strike. Ci siamo già visti? Non ricordo-

"Sei la ragazza di James, giusto?"

Ricomincio a tossire, appoggiandomi a mia volta alla ringhiera. Dev si sporge appena per battermi dei leggeri ma preoccupati colpetti sulla schiena. "Ho detto qualcosa che non va?"

"No, beh, è che-" balbetto, tra un respiro e un colpo di tosse. Mi copro gli occhi con la mano, lasciandomi scappare una mezza risata. Ci voleva. "Insomma, non è proprio-" mi zittisco, senza sapere bene dove andare a parare.

Dev mi guarda, il sorriso un po' intimidito. Sto per chiedergli come conosce James, quando la portafinestra dal suo lato del balcone si spalanca rumorosamente. La mia vicina di casa, tutta gambe e capelli rossi, mette piede nell'aria fredda della notte, abbandonandosi docilmente tra le braccia di Dev.

Guardo Sibyl, accennando un saluto con la sigaretta ancora in mano, e in quel momento realizzo che Dev non è decisamente amico di Tom. Oh, proprio no.

"Ehi, ciao!" mi saluta allegra, spostandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Lancia un'occhiata divertita a Dev, "Se avessi saputo che eri qui gli avrei detto di spogliarsi prima di uscire!"

Mi sfugge un lieve sorriso. Gli occhi chiari di Sibyl studiano la mia espressione, e anche nella semi-oscurità del cortile interno del nostro palazzo, posso vedere i suoi lineamenti farsi preoccupati mentre mi guarda.

"Pulcino, sembra che ti sia passato addosso un camion!" – Sibyl è più giovane di me e usa nomignoli che ho sentito solo dalle labbra della mia prozia Colleen. È adorabile. Dev la bacia tra i capelli, e io realizzo che anche lui deve pensarla allo stesso modo. – "Che è successo?"

Faccio un ultimo tiro di sigaretta e poi lancio il mozzicone giù dal balcone. Le racconto brevemente di Piper, cercando di non sembrare troppo – troppo cosa, Holly? Puoi essere triste anche tu, lo sai? – abbattuta, anche se mi rendo conto che non c'è scampo da questo sentimento, almeno questa notte. Piper se ne va.

"Mi dispiace..." dice Sibyl a mezza voce.

Mi stringo il giaccone addosso e faccio a lei e Dev un cenno di saluto con la mano, voltandomi per entrare in casa. Non c'è ragione di appestare l'atmosfera con il mio umor nero. Domani andrà meglio.

"Holly, aspetta!"

Mi volto, la mano già sulla maniglia della mia portafinestra. Sibyl mi sorride, e alle sue spalle Dev mi osserva, incoraggiante.

"Perché non fai un salto di qui?"

*

Apro gli occhi molto prima del suono della sveglia.

Quando sono tornata nel mio appartamento, dopo essermi persa in chiacchiere dai miei vicini, mi sono dimenticata di chiudere completamente le persiane, e ora il sole appena sorto invade la stanza di piccoli spicchi di luce.

Ieri sera, gli amici di Sibyl e Tom sono stati una boccata d'aria fresca in una giornata da dimenticare. La mia amica e Dev sono davvero belli insieme, teneri in quel modo un po' imbarazzato che non mi ricorda alcuna delle relazioni che ho avuto nei miei ventisei anni di vita – considerando come sono finite tutte quante, meglio per loro.

Tuttavia, non ho potuto fare a meno di notare lo sguardo scuro di Tom che correva sulla figura di Sibyl, o il modo in cui sembrava irrigidirsi appena ogni volta in cui Dev le affondava il naso tra i capelli.

La mia capacità di analisi è finita nel dimenticatoio poco tempo dopo aver iniziato a bere il tè offertomi dall'amica di Sibyl, con cui a quanto pare ho vissuto la mia prima esperienza nel mondo delle droghe leggere, visto che a metà tazza mi ha fatto dolcemente sapere che si trattava di un infuso alla marijuana. A quel punto ero troppo rilassata anche per mettermi a piangere. Zoe si è presentata candidamente dicendomi di essere una strega – se non sapessi per certo che cose del genere non esistono, avrei anche potuto crederci.

Questa mattina però la realtà è tornata a bussare alla porta, e io non riesco a smettere di pensare a Piper, ai suoi occhi tristi ma decisi mentre annuncia davanti a una tazza di tè di dover tornare a casa per aiutare la sua famiglia. Abridge non mi mai sembrata così lontana come in questo momento.

Vorrei trovare qualcosa da dirle domani, quando io e Vicky la accompagneremo in stazione. Voglio che sappia di essere coraggiosa. Non riesco a scrollarmi di dosso la sensazione che si tratti di un addio.

Lungo la strada verso l'università, metto da parte il pensiero della mia amica per concentrami sull'incontro che mi aspetta. Sono da poco passate le nove, e il bar è affollato come ogni mattina – i raggi del sole mi scaldano il viso attraverso le ampie vetrate delle finestre che si affacciano sul cortile, in aperto contrasto con il mio umore grigio.

Mangio il mio bagel in pochi morsi, decidendo di non prolungare ulteriormente la mia attesa. Sistemo lo zaino sulle spalle e abbandono il calore rassicurante della caffetteria, stringendomi nel giaccone per attraversare il cortile. Marzo porterà con sé temperature più miti, ma per adesso, malgrado il sole, l'aria del mattino è ancora fredda.

Come al solito, la porta dell'ufficio è aperta. Faccio mezzo passo oltre la soglia, quanto basta per lanciare un rapido sguardo in giro e non vedere nessuno.

La giacca di Kevin è appesa all'appendiabiti accanto all'ingresso, noto, mentre mi muovo con passo leggero fino al centro dello studio. È come essere a casa, e allo stesso tempo esplorare una nuova terra straniera.

Un paio di libri sono appoggiati sulla scrivania, ingombra di carte ed elaborati da correggere come al solito. Accanto al fornelletto c'è una tazza vuota che ha sul fondo i resti di un caffè.

"Sì, credo che per pranzo possa andare-"

Sobbalzo, voltandomi con gli occhi sgranati verso la soglia. Non sto facendo nulla di male, eppure mi sento colpevole.

Kevin rimane immobile sulla porta, il cellulare ancora all'orecchio e le labbra dischiuse, sorpreso dalla mia presenza. Accenno un gesto di scuse con la mano, distogliendo lo sguardo e appoggiando lo zaino su una delle due sedie davanti alla scrivania.

"Devo andare, ti richiamo dopo."

Taglia la comunicazione senza troppi fronzoli, infilandosi il cellulare in una delle tasche dei pantaloni antracite.

"Mi dispiace," mi scuso di nuovo, "Credevo..."

"Non preoccuparti," mi dice, facendo segno verso la sedia libera. "Accomodati."

Mi tolgo la giacca mentre lui si volta per chiudere la porta e al mio cuore manca un battito quando non sento il giro della chiave nella toppa. Non sono più abituata a stare qui seduta e sapere che qualcuno potrebbe sorprenderci – sapere che non c'è più nulla da sorprendere brucia più di quanto pensassi.

Frugo nel mio zaino alla ricerca degli appunti che devo mostrargli, mentre lui inizia a trafficare con il fornelletto elettrico, dandomi le spalle.

"Sono contento che tu sia venuta," dice, rubando uno sguardo nella mia direzione. "Non ero più sicuro che saresti tornata dopo..." si interrompe e muove la mano sinistra, forse senza sapere come continuare o forse senza averne davvero bisogno.

Guardo l'anello al suo dito e mi chiedo come abbia fatto a bastarmi una mano vuota a convincermi a fingere che una donna e due bambini non esistessero. Scrollo appena le spalle e mi lascio sfuggire un mezzo sospiro, appoggiando i miei fogli sulla scrivania.

"Com'è andato poi, l'esame?" prosegue, riemergendo dal suo stesso silenzio.

Si volta e ha tra le mani due tazze fumanti di caffè.

"Linguistica storica?" chiedo.

Annuisce, porgendomi la tazza e aggirando la scrivania per sedersi. Bevo un sorso, rifugiandomi nel calore del caffè mentre lui mi osserva, lo sguardo velato di pacata gentilezza.

"Oh, molto bene, la professoressa Lee era contenta," racconto. "... più contenta di me che dei suoi studenti del primo anno, questo è sicuro."

Condividiamo un sorriso spontaneo, perché quante volte mi sono lamentata delle assurdità della professoressa Lee? La complicità è così difficile da strappare via.

"Ho fatto anche drammaturgia classica, dopo," proseguo, appoggiando la tazza ancora fumante sulla scrivania. "Tutto bene, mi è piaciuto molto," penso a Will e alle ombre impalpabili che danzavano nel suo sguardo. Forse la tragedia greca è la sua filologia romanza.

Mostro a Kevin tutte le note e gli schemi che ho buttato giù in questi giorni sul capitolo centrale, grata del fatto che rimanga seduto dal suo lato della scrivania. Lavorare con lui è proprio come ricordavo – quando la filologia si allarga davanti a noi, riempiendo i nostri silenzi e le nostre bugie, è come essere di nuovo insieme.

Quando allenta appena il nodo della cravatta e prende una penna, sporgendosi per aggiungere una nota a margine di un paragrafo, provo una fitta di affetto così profonda nei suoi confronti da sentire quasi fisicamente dolore.

"Ti servirà un altro libro," parla tra sé e sé, continuando a scrivere sui miei fogli. "Aspetta, dovrei averlo qui..." si alza, privandomi della vicinanza della sua figura. Mi dà le spalle, iniziando a cercare tra gli scaffali.

Rigiro una matita tra le dita, inclinando appena la testa quando mi porge il volume che contiene le liriche provenzali che mi servono.

"Posso chiederlo in biblioteca," gli faccio notare con gentilezza. Penso a quanto il signor Crane, l'anziano bibliotecario, storcerà la faccia nel vedermi – mi odia dal più profondo del suo cuore, e ancora oggi non riesco a capire il perché. "Non c'è bisogno..."

Scaccia la mia debole protesta con un cenno della mano, sorridendo appena, e io mi rassegno e prendo il libro dalle sue dita. "Grazie."

Infilo il volume nello zaino, e quando alzo di nuovo la testa, Kevin mi sta ancora osservando.

I suoi occhi chiari percorrono la mia figura, e sotto il suo sguardo ho come l'impressione che stia cercando di imprimersi nella memoria ogni dettaglio di questo momento, ogni dettaglio di me.

"Sono felice che tu sia qui," dice soltanto.

Vorrei dirgli che me lo ha già detto, ma allo stesso tempo so che non è così. Anche se le parole sono quasi le stesse, questa frase non potrebbe essere più lontana dalla formula di cortesia che mi ha rivolto quando sono entrata nel suo ufficio.

La sua voce è poco più di un soffio, aspro e forte ma anche sconfitto, e io mi chiedo quanto gli stia dilaniando il cuore pronunciare queste parole.

*

Ce l'hai una mezz'ora?

Così, senza neanche un po' di preliminari?

Oh, sta zitto. Dieci minuti e sono lì.

*

"Lo sai," – tra un bacio e l'altro, James indietreggia sotto la guida delle mie mani sul suo petto – "Credevo di essermi guadagnato un invito nella tua vasca da bagno..."

Le mie dita si chiudono sul suo viso, affondando nella barba rossiccia. Non se la taglia da un po' ed è quasi soffice sotto la mia pelle.

"Ero per strada," spiego rapidamente, raggiungendo di nuovo le sue labbra. Sa di fumo e caffè - danno ancora più dipendenza quando posso assaggiarli dalla sua bocca. "La prossima volta, promesso," aggiungo senza fiato, continuando a spingerlo indietro. Lui mi trascina con sé, una mano tra i miei capelli sciolti e l'altra sulla mia schiena, già sotto il cotone della maglietta.

"Ci conto," dice a bassa voce.

Incontra il bordo del letto e mi basta un'ultima piccola spinta per farlo finire seduto sul materasso: nella penombra dell'appartamento sento su di me il suo mezzo sorriso quando senza perdere neanche un istante mi sistemo a cavalcioni su di lui, le cosce ai lati delle sue gambe.

Le sue mani si stringono sui miei fianchi quando lo bacio di nuovo, cercando la sua lingua con la mia. I baci con James sono sempre una disordinata lotta per la supremazia, tutta irruenza, gemiti e morsi – una perfetta rappresentazione di quello che siamo.

Mi muovo su di lui, alla ricerca della sensazione di cui ho bisogno. Il contatto tra i bottoni dei miei pantaloni e il tessuto spesso dei suoi jeans mi fa realizzare che non è abbastanza, che ci sono troppi vestiti tra di noi e che ho un disperato e allarmante desiderio di averlo dentro di me – ho bisogno che il piacere sia così forte e doloroso da cancellare la mattinata appena trascorsa e tutto quello che ha portato con sé.

Sono felice che tu sia qui.

Non ho più voglia di avere un cuore - ci vuole troppa cura per mantenerlo.

Le mie dita abbandonano le sue spalle per scostare da un lato i miei capelli, permettendogli tutto l'accesso che vuole a quella parte della mia pelle nuda che sembra piacergli così tanto. La sua barba mi accarezza mentre scosta la mia maglietta con una mano, l'altra che invece scivola sul mio sedere e lo stringe attraverso i pantaloni, incoraggiandomi nei miei movimenti.

Non è abbastanza.

James emette un suono basso e roco sul mio collo che ha il sapore di una protesta quando abbandono la mia posizione per alzarmi in piedi davanti a lui.

Sollevo la maglietta, lanciandola a terra senza troppe scene. Lui rimane appoggiato con i palmi delle mani sul materasso, la schiena appena reclinata all'indietro e le gambe leggermente divaricate. Il suo petto tradisce la pretesa di una postura rilassata - si alza e abbassa al ritmo affannato del suo respiro.

"Hai intenzione di spogliarti o no?" chiedo, esasperata, iniziando a sbarazzarmi delle scarpe per poter avere via libera con i pantaloni.

Accenna un sorriso, inarcando un sopracciglio e lasciando vagare i suoi occhi blu su ogni angolo nuovo della mia pelle nuda. È talmente bello da farmi venire voglia di prenderlo a schiaffi.

"Non so," considera, con deliberata lentezza. Mi sono già abbassata i pantaloni fino alle caviglie e sto cercando il gancetto del reggiseno quando parla di nuovo, "... per ora stavo pensando più che altro di godermi lo spettacolo," spiega, alzando appena il mento nella mia direzione.

"James," minaccio, facendolo ridere sommessamente.

Il rimprovero ha il suo effetto - lancio via i miei pantaloni con un piede e ci butto sopra il reggiseno, passandomi una mano tra i capelli per spingerli indietro, mentre James si libera della sua maglia e si alza in piedi per togliersi i jeans.

"Meglio?" mi chiede, il sorriso divertito ancora sulle labbra quando mi premo contro il suo petto nudo. Le sue mani percorrono il mio corpo fino all'elastico dei miei insignificanti slip neri – un tocco delle sue dita, e il tessuto scivola lungo le mie cosce, oltre le mie ginocchia fino alle caviglie.

Passo le unghie sul suo petto, soddisfatta alla sensazione della sua pelle sotto la mia. A giudicare dal modo in cui James chiude gli occhi, inclinando appena il capo per appoggiare la fronte contro la mia, anche lui sembra apprezzare.

Questo suo inaspettato momento di debolezza mi strappa un sorriso vittorioso. "Perché sono sempre più nuda di te?" chiedo, continuando a disegnare leggere striature rossastre sempre più in basso, dal suo petto fino all'addome.

Nella penombra, si separa dal mio viso per alzare gli occhi al soffitto, per poi abbassarsi i boxer in un unico e fluido gesto. "Perché non sei mai contenta?" ribatte, con affetto.

Stavolta è lui a fare un mezzo passo e a premersi contro di me, e l'espressione soddisfatta che gli si apre sul viso è del tutto meritata.

Senza rispondere, lo spingo sul letto, chiudendogli la bocca con un bacio mentre in modo decisamente poco aggraziato finiamo a rotolarci tra i cuscini nel suo letto ancora sfatto.

E finalmente, finalmente, esiste solo il sudore sulla pelle e sulle lenzuola, la voce spezzata di James che spinge dentro di me, e il suono alto e disperato che non devo trattenere quando l'orgasmo arriva e io posso dimenticare ogni cosa.



Questo capitolo è un po' un minestrone, me ne rendo conto: la grande partenza di Piper (su Us against the world e Victoria's state of mind trovate le versioni di Piper e Vicky), l'incontro con Sibyl e i suoi amici squinternati (che chi legge Changeling conosce già, oltre a sapere anche quanto la Scooby Gang frequenti il Nelson piuttosto assiduamente) sul balcone, Kevin che presta libri a Holly perchè un libro non è mai soltanto un libro, e di certo non è finita qui, e Holly che corre da James per porre la parola fine a tutti i suoi pensieri e i suoi problemi. 

La prossima settimana il team di this_is_a_puzzle è in riposo (Vicky e Sibyl si laureano IRL, e noialtre ne approfittiamo): torniamo da lunedì 23 aprile con una nuova aggiunta, Liz, la dottoranda di archivistica che avete già incontrato qualche capitolo fa.

A presto! ;)

Holly

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