VENTISETTE

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

CAPITOLO 27 | BUT I HAVE SEEN THE SAME I KNOW THE SHAME IN YOUR DEFEAT

"the one who arrives after you

will remind me love is 

supposed to be soft

he will taste

like the poetry

i wish i could write"

(Rupi Kaur)

*

QUANDO esco di casa c'è ancora il sole, ma il cielo è scuro e gonfio di nuvole violacee che minacciano pioggia. Mi affretto tra la gente, cercando di non farmi sorprendere dall'acquazzone, ma quando rimbomba il primo tuono non sono neppure a metà strada.

Mi calco il cappuccio sulla testa e corro sotto la pioggia che inizia a scrosciare, mentre i raggi del sole continuano a illuminare il grigio del marciapiede.

Il cielo sembra quasi più confuso di me.

Arrivo al Nelson, bagnata fradicia malgrado il riparo del giaccone. Respingo la sensazione di essere decisamente fuori posto così, in tuta e coda spettinata, quando l'atmosfera accogliente del locale mi scalda il petto e riempie i polmoni.

A quest'ora del pomeriggio ci sono ben pochi avventori, e nessuno di loro mi dedica una seconda occhiata mentre procedo decisa verso il bancone. Sibyl non c'è oggi – so che lavora qui dal giovedì, perché gli altri giorni è impegnata in biblioteca in università -, ma sorprendentemente trovo Jacob al bancone, lo sguardo già puntato su di me mentre marcio verso di lui.

"Molly, dolcezza, ciao!" mi saluta allegro, sistemando un boccale vuoto sul legno. "Cosa ti servo?"

Gli sorrido rapidamente, "E' Holly, Jake, ma fa lo stesso," – gli spiego gentilmente. Abbiamo già parlato qualche volta, da quando siamo stati presentati, e per l'amor del cielo ogni volta mi chiama con un nome diverso, e mai con il mio. – "... sto cercando James, in realtà. Mi ha chiamato poco fa..."

Sto raccogliendo il respiro per spiegargli per sommi capi che ho un'amica forse sull'orlo del coma etilico, da qualche parte qui dentro, ma lui è più rapido di me: prima mi sorride in modo suggestivo, e altrettanto rapidamente si batte la mano sulla fronte, come se avesse appena avuto l'epifania della sua vita.

"Giusto, giusto, Jamie me l'ha detto!" mi dice, annuendo. Mentre io rifletto su quel Jamie, Jacob prende una bottiglia di birra dal frigo e la versa nel boccale. Beve un lungo sorso di alcol, prima di continuare, "... ha accompagnato la tua amica in bagno, credo dovesse vomitare."

"Perfetto, grazie!"

Smetto di battere il piede a terra, impaziente, e mi lancio di corsa verso la porta del corridoio.

Nel bagno delle donne, sotto la luce un po' acciaccata del neon, una delle porte è completamente spalancata. Vicky è china sul water, con il respiro affannoso e le mani appoggiate sulla tazza. Accanto a lei, in piedi, c'è James, che le tiene con una mano i lunghi capelli scuri lontani dal viso e con l'altra la tiene sollevata per una spalla.

"Ehi," saluto, senza fiato. "Non sono stata abbastanza veloce, a quanto pare."

"Ehi," – James aiuta Vicky a rimettersi dritta. Le tremano le gambe, ha gli occhi annacquati e non l'ho mai vista così pallida. "È arrivata al bagno, almeno."

Muovo un passo in avanti, permettendo a Vicky di appoggiarsi anche a me. Incontro di nuovo gli occhi di James, mentre con attenzione cerchiamo di farla camminare verso il lavandino. "Scusaci, davvero. Non so cosa le sia successo, ma non è sempre così, te lo giuro."

"Ci credo," risponde lui.

Traffichiamo attorno a Vicky, in modo che lui riesca a sorreggerla nel caso la sua presa sulla ceramica venga meno e io l'aiuto a sciacquarsi bocca e viso. Ha gli occhi aperti e osserva vacua il suo riflesso nello specchio, senza dire nulla.

"Deve esserle successo qualcosa. Da come parlava, al bancone..." si passa la mano libera tra la barba, serio, "Penso che sia stata lasciata."

Oh. Ripenso ad oggi, alla prima lezione di storia del cinema e allo sguardo spento che c'era sul suo viso, e realizzo che alla fine tutto quello che ho sempre sospettato forse era vero. Come poteva non esserlo? E chi altri poteva saperlo, meglio di me?

Scaccio con forza quel pensiero, passando le dita tra i capelli di Vicky. Quel gesto delicato sembra sorprendentemente risvegliare la sua attenzione, e i suoi occhi scuri si concentrano finalmente sui miei.

Le sorrido appena, e so che non c'è niente che possa fare per rimettere a posto il suo cuore spezzato.

"Oh, tesoro mio..."

Si tuffa tra le mie braccia, con un impeto completamente inaspettato. Faccio qualche passo indietro, travolta dal suo abbraccio, James che si muove appena con noi, continuando a stringere le spalle di Vicky per assicurarsi che entrambe rimaniamo in piedi. La sorreggo come meglio posso, mentre lei nasconde il viso nella mia spalla. Il suo corpo è scosso dai singhiozzi.

Le bacio appena la testa, cercando James con lo sguardo, mentre lui lascia le spalle di Vicky e fa mezzo passo indietro. I suoi occhi incontrano i miei.

"Vado a prendere la macchina," dice dolcemente.

Allunga una mano, accarezzando il dorso della mia, ancora sulla schiena di Vicky.

"James, grazie," dico, sorridendo appena. Piego il polso, quanto basta per accarezzargli la pelle con le dita. "Davvero."

"Non dirlo neanche," mi rimprovera con gentilezza, muovendosi verso la porta.

*

Quando rimetto il naso fuori, l'acquazzone è già finito – sembra che abbia piovuto esattamente quanto bastava per inzupparmi da capo a piedi.

Sulla soglia della porta sul retro del Nelson, tengo in equilibrio precario Vicky, tra le mie braccia e lo stipite. Le sposto i capelli dietro le orecchie e le abbottono la giacca.

"Vieni a casa con me adesso, va bene?" le chiedo con dolcezza.

I suoi occhi ancora umidi si posano sui miei, mentre annuisce appena senza dire nulla, ancora pallidissima. Non so se non si fidi a usare la voce per paura di piangere o vomitare.

James mi lancia uno sguardo preoccupato dall'altro lato del cortile interno, mentre traffica per aprire il garage e tirare fuori la sua macchina. Continuo a sorreggere Vicky, chiedendomi cosa sia meglio fare – non posso rimandarla a casa sua in questo stato questa sera, non posso proprio.

"Dammi il tuo cellulare," le dico, cercando di farle un breve sorriso mentre dal garage si sente il rumore del motore acceso. "Scriviamo a tuo padre che ti fermi a dormire da me, d'accordo?"

"Sì," mi dice con un filo di voce. "Grazie."

Prova a ricambiare debolmente il mio sorriso, mettendosi una mano nella tasca della giacca. La bacio sulla fronte e lei mi porge con le dita tremolanti il suo cellulare; mentre continuo a sorreggerla con un braccio, con l'altra mano fingo di essere lei e scrivo un messaggio a Charles Stevens, dicendogli che io, tua figlia Vicky, mi fermerò a dormire dalla mia adorata amica Holly – e spero che basti.

Quando ho finito di usare il telefono, James ha già fatto manovra con la macchina e sta scendendo per aiutarmi a sistemare Vicky. Alzo la testa e solo in quel momento noto l'automobile – malgrado la situazione non sia delle migliori, non riesco a trattenere una mezza risata.

"Cosa c'è?" mi chiede James, sollevando appena un sopracciglio e osservandomi senza capire, mentre aiutiamo Vicky a raggiungere i sedili dietro.

Gli sorrido.

"Un Wrangler, davvero?" chiedo retoricamente, con un sorriso incredulo. "A cosa ti serviva, a guadare le Highlands da cui sei sceso?"

Allaccio la cintura di Vicky e chiudo la portiera, aggirando rapidamente la jeep grigia e salendo accanto a lei sul sedile dietro – senza riuscire a sfuggire alla divertita esasperazione di James che si sistema al posto di guida.

Continuo a sorridere, osservando per un istante Vicky che chiude gli occhi, cullata dal rombo del motore.

"Ma tu guarda," borbotta James, davanti a me. "... allacciati la cintura, Galway, e dammi il tuo indirizzo."

Obbedisco, con il sorriso ancora sulle labbra mentre gli faccio una linguaccia.

*

Mi chiudo alle spalle la porta della mia camera da letto con un lungo sospiro.

James ha preso in braccio Vicky dal sedile della sua jeep, trasportandola completamente addormentata su per le scale fino al mio appartamento - con una leggerezza che mi ha ricordato Dylan che solleva Charlie e Liam per spostarli dal divano del salotto ai loro comodi letti dopo una serata di cartoni animati.

L'abbiamo adagiata tra le mie coperte, dove, tra un mugugno incomprensibile e un altro, ha affondato la testa tra i cuscini e ha continuato a dormire. Ho appoggiato una caraffa d'acqua e un bicchiere sul comodino, cercando di ricordarmi cosa mi è rimasto in casa contro il mal di testa – questa sera, o al più tardi domani mattina, ne avrà certamente bisogno.

James è in piedi nel mio salotto, le mani affondate nelle tasche dei jeans – il suo sguardo, che stava discretamente curiosando per il mio appartamento, torna a concentrarsi su di me quando esco dalla mia stanza.

"Mi dispiace," gli dico di nuovo, passandomi le mani sul viso.

Sul tavolo della mia cucina ci sono ancora i miei appunti, il mio libro di liriche provenzali e una tazza di caffè abbandonata che ormai sarà gelida. Il salotto è più in ordine, eppure mentre guardo James non riesco a non pensare che è lì, in piedi, precisamente nello stesso punto dove Kevin ha premuto le sue labbra sulle mie – al solo pensiero mi si annoda lo stomaco.

"Te l'ho già detto, non preoccuparti," mi ammonisce con gentilezza. I suoi occhi blu passano in rassegna la mia libreria. "... hai una bella casa," commenta, accennando un sorriso. "Accogliente."

"Grazie," - Arrossisco, facendo un concitato cenno verso il divano. – "... scusami, ti ho abbandonato di qui e non ti ho neanche fatto sedere."

"Tu ti scusi troppo," mi fa notare, arrotolandosi le maniche della camicia di flanella fino ai gomiti.

Mi mordo il labbro, trattenendo appena in tempo un altro mi dispiace. Vicky è al sicuro nel mio letto e l'adrenalina della corsa al Nelson è scesa, almeno un po', e adesso non mi restano più scuse. È successo due ore fa.

Passo accanto a James per raggiungere l'appendiabiti e sistemare il mio giaccone, che avevo lanciato senza troppa considerazione sullo schienale del divano. Mi tremano le gambe.

James mi afferra per un braccio, e per un momento la sensazione di déjà-vu è talmente forte da farmi girare la testa.

"Holly, vieni qui," dice a bassa voce.

È il modo in cui dice il mio nome – Holly, Holly e basta.

Mi sistema contro il suo petto, circondandomi le spalle con un braccio e appoggiando l'altra mano alla base della mia schiena. Smettila, perché sei così gentile con me?

Non era così che avevo immaginato la prima volta di James tra le mie quattro mura – ad essere del tutto sinceri, non avevo immaginato James in nessun luogo del mio appartamento oltre alla mia vasca, fino ad oggi. Non era così che avevo immaginato molte cose.

Mi bacia tra i capelli, la sua barba soffice sulla mia tempia, e quando parla di nuovo posso quasi sentire l'accenno di sorriso sulle sue labbra, "... è andato tutto bene, no?"

Sono così egoista. Puoi essere triste anche tu, Holly, lo sai?

A quanto pare, oggi sto toccando tutti i miei punti di non ritorno.

Rilancio la giacca sullo schienale del divano con un movimento maldestro, nascondendo il viso nella flanella e stringendo gli occhi per impedire - senza successo - che si facciano umidi.

Annuisco debolmente, sentendo il tessuto morbido della sua camicia sfregare contro la guancia e l'odore appena lieve di sigaretta che lo impregna. Tutto bene, tutto bene.

Dammi un minuto, vorrei dirgli, mi serve soltanto un minuto.

Dalla mia bocca non esce alcun suono, eppure, in qualche modo, James sembra capire. Come ci riesce? Rimaniamo in silenzio, le mie mani che si allacciano attorno ai suoi fianchi e il mio viso nascosto nel suo petto.

Sbatto le palpebre, muovendomi appena indietro e alzando lo sguardo su di lui. Le mie dita salgono dalla sua schiena fino al suo petto, sistemando pieghe invisibili della camicia di flanella. James mi osserva, e so che i suoi occhi blu stanno indagando le mie ciglia umide.

"Ti va un caffè?" chiedo, sorridendo timidamente.

Mi accarezza il viso, asciugando lentamente con il pollice una lacrima scivolata sulla mia guancia, e poi lentamente annuisce, ricambiando la mia espressione.

Siamo stati senza vestiti molte volte, eppure non mi sono mai sentita così nuda davanti a lui.

Funziona, che funziona un po' come vuoi tu.

Già – e tu cosa vuoi, Holly?

*

"Vuoi sapere la verità?" confesso, trattenendo un sorriso e nascondendomi per un istante nell'ultimo sorso di caffè. "... a me non è neanche dispiaciuto poi così tanto, La minaccia fantasma."

Appoggio la tazza sul tavolino, sbuffando con finta esasperazione mentre James si mette una mano sul cuore, ferito, e inarca un sopracciglio con tutta l'incredulità di cui è capace.

"La minaccia fantasma, Holly, sul serio?" ripete, sforzandosi di non alzare troppo la voce. "Così mi uccidi, Galway."

Gli faccio una linguaccia, sporgendomi per pizzicargli una spalla.

Ci stiamo rilassando sul mio divano – io seduta a gambe incrociate su uno dei cuscini e lui sull'altro, con un braccio allargato sullo schienale e il busto orientato verso di me. Chiacchieriamo da più di un'ora, ormai, e io sto iniziando a realizzare che probabilmente non abbiamo mai passato così tanto tempo insieme senza letteralmente strapparci i vestiti di dosso.

"Oh, sta' zitto," lo sgrido, il sorriso che si allarga sulle mie labbra quando lui ride sommessamente. "... mio padre mi ha portata a vederlo quando ero piccola," inizio a spiegare, "E' stato il primo Star Wars che ho visto, ed è stato divertente... soprattutto considerando che mio padre è tuttora convinto di essere una specie di Qui Gon Jinn, nel mondo reale."

James inclina appena la testa, sorridendomi incredulo. "Liam Neeson, davvero?" mi chiede, esasperato. "Gesù, siete così irlandesi."

Allungo le gambe verso le sue, in parte per sgranchirle e in parte per colpirgli sdegnosamente un ginocchio con un piede. "Bada bene, weegie (*) che non sei altro," lo ammonisco – vorrei risultare più credibile nella mia minaccia, ma non riesco a contenere il sorriso.

James sembra sorpreso, ma anche sinceramente divertito. "Oh, ma allora lo sai da dove vengo, mh?" Mi afferra una caviglia e con un unico gesto si sistema i miei piedi in grembo, allungandomi sul divano e su di lui.

"Certo che lo so, le Highlands erano solo più poetiche," ammetto con una mezza risata. Reclino la testa all'indietro, le mani dietro la nuca mentre mi appoggio con la testa al bracciolo. "Sono stata a Glasgow, qualche mese fa, per un convegno..."

Un ricordo si porta via la mia attenzione per un momento troppo lungo – sento le dita di James risalire appena sul mio polpaccio, sotto i pantaloni della tuta, e così come me ne ero andata ritorno alla realtà dei suoi occhi blu e del suo sorriso gentile.

"... e tu hai l'accento più potente che abbia mai sentito."

"Certe volte non me ne rendo neanche conto," risponde, le dita che continuano ad accarezzare la mia pelle.

In un impeto di affetto scatenato dal sorriso quasi intimidito che mi rivolge, mi sollevo, inginocchiandomi sui cuscini e prendendogli il viso tra le mani. Lo bacio delicatamente, senza rifletterci troppo su, accarezzandogli le guance sotto la barba soffice.

Sorrido sulle sue labbra, "Non ho mai detto che mi dispiacesse," gli faccio notare con dolcezza, la voce all'improvviso ridotta a poco più di un sussurro.

Le sue mani scivolano con lentezza sulla mia schiena, passando gentilmente sopra il cotone della maglietta. Ricambia il mio sorriso prima di parlare di nuovo, sfregando il naso contro il mio.

"Chissà perché lo sospettavo, tesoro," dice piano, con l'accento più ostentatamente scozzese che abbia mai sentito uscire dalla sua bocca. Il diavolo.

Le sue dita fanno presa sui miei fianchi e lui alza appena il mento, catturando di nuovo le mie labbra, e io devo usare tutta la forza di volontà che possiedo per ricordarmi di Vicky nell'altra stanza.

Quando mi alzo dal divano, la felpa slacciata e un sorriso di scuse sulle labbra, a lui sfugge un sospiro di protesta. Mi sporgo appena, affondando la mano nei suoi capelli scuri nel tentativo di spingerli indietro e risistemarlo, dopo che mi ci sono appigliata con tutte le mie forze.

"Devo controllare Vicky," gli spiego.

James afferra delicatamente il mio polso e porta la mia mano dai capelli alle labbra, baciandomi il palmo con delicatezza. I suoi occhi blu rimangono concentrati sui miei, e io ricordo quella notte al Nelson, in cui il mio bacio sul palmo della sua mano ha segnato l'inizio di ogni cosa.

Gli accarezzo la guancia, osservandolo chiudere gli occhi per un istante, soddisfatto, quando le mie dita passano sulla sua barba, e all'improvviso vorrei solo baciarlo di nuovo.

"Ehi, ti andrebbe di rimanere per cena?" chiedo con un sorriso, rimettendomi ai piedi le pantofole. Mi guarda, e riesco a leggere sul suo viso che è sorpreso dal mio invito, anche se cerca di non darlo troppo a vedere. Alzo appena le spalle, cercando di non dare troppo peso alla mia stessa proposta, "... se devi tornare al pub non c'è problema, solo..." – mi piace la tua compagnia. "... ho effettivamente fatto la spesa, una spesa vera e sana, non capita così spesso. Ne approfitterei, se fossi in te."

Mi mordo appena il labbro, arrossendo senza speranze nel salotto del mio appartamento, mentre ad ogni secondo che scorre James sembra sempre più divertito dalla mia cascata di parole.

"Fammi chiamare un attimo Jake," mi dice.

Annuisco, baciandolo sonoramente sulla guancia e fuggendo verso la mia camera da letto, inseguita dal suo sorriso.

(*) weegie è un termine (qualche volta spregiativo) per indicare gli abitanti di Glasgow, e mai dagli abitanti di Glasgow ;)

*

James fa ritorno al Nelson poco dopo cena, probabilmente realizzando di aver lasciato il suo pub nelle mani di Jacob davvero più che abbastanza.

Quando la porta si chiude alle sue spalle, la sensazione orribile di essere nuovamente sola con i miei pensieri cala e si stringe sul mio petto, riportandomi indietro alle sensazioni di questo pomeriggio.

Torno in cucina, sparecchiando distrattamente e prendendomi ben più del tempo che di solito mi serve per lavare i piatti.

Immergo le dita nell'acqua bollente, schiacciando una noce di detersivo e cercando di concentrarmi sullo sfregare ritmico della spugna sui piatti.

Cosa gli ho permesso di fare?

Cosa ho fatto?

*

Dormo sul mio divano, risvegliandomi al mattino con la schiena dolorante. Cammino silenziosamente fino al bagno, osservando Vicky che riposa tra le mie lenzuola, e decido di rompere gli indugi e farmi la doccia: sta dormendo – tra alti, bassi e frasi senza senso – da ieri pomeriggio, ed è giusto che sia lentamente riportata nel mondo dei vivi.

Ripenso a quello che mi ha detto James sulla loro conversazione, prima che la mia amica si accanisse sulla bottiglia di tequila. Penso che sia stata lasciata. Sospiro, tornando in cucina in pantaloni comodi e maglietta a maniche lunghe, con le punte dei capelli ancora umidi. Ho evitato di parlarne con lei per troppo tempo – Lolita, Moira Thomson, il professor Morgan, Kevin – e questo è il risultato. Siamo così brave a fingere che i problemi non esistano.

Quando apro piano la porta della mia stanza da letto, per controllare nella penombra quali siano le attuali condizioni di Vicky e con l'intento non troppo delicato di spalancare le persiane, la trovo impegnata a mugugnare e a rigirarsi tra le coperte.

"Ehi, Vic, ti sei svegliata," saluto, cercando di non parlare troppo forte. "Come ti senti?"

La risposta dalle lenzuola è una mano sullo stomaco e una sequenza incomprensibile di parole arrocchite e doloranti.

"Immaginavo." - Cerco di sorridere appena, anche se non posso fare a meno di guardarla, preoccupata. Per chi ti sei ridotta così, amica mia? Non fare domande di cui conosci già la risposta, Holly. – "Vieni, ti preparo qualcosa di caldo."

Docilmente, Vicky si lascia aiutare a farsi rimettere in piedi. Le rimango accanto, stringendola su una spalla, esattamente come ieri pomeriggio, pronta ad accompagnarla fino al bagno.

"Holly?"

La sua voce flebile e sottile mi richiama verso il suo sguardo. Anche nella penombra, e malgrado le strisce di mascara disegnate dal pianto sulle sue guance, riesco a vedere tutta l'intensità dei suoi occhi scuri.

"Sì?"

"Grazie."

Le accarezzo una guancia, sistemandole una ciocca di capelli arruffati dietro le orecchie. Le mostro la pila di vestiti puliti che le ho messo da parte, incoraggiandola a darsi una sciacquata nel mio bagno mentre io me ne torno in cucina con l'intenzione di mettere insieme una colazione che sia in grado di sostenerci durante la conversazione che so che stiamo per affrontare.

Quando Vicky torna in cucina, sto finendo di mettere in tavola i piatti. Preparo il caffè, trafficando con il bollitore per l'americano, e solo quando mi siedo accanto a lei, spingendo delicatamente nella sua direzione una tazza fumante, trovo il coraggio di rompere il silenzio.

"Allora, ne vuoi parlare?"

Per un lungo istante mi sento di nuovo fuori dal Nelson, nella notte fredda dell'inverno, quando davanti a una sigaretta e ai viottoli di Oxford le ho posto la stessa domanda. Vaffanculo, Kevin, vaffanculo. Vicky aveva detto di no, quella volta, ma oggi è un giorno diverso.

"Holly, ti ricordi del professor Morgan?"

Mi bastano queste parole, pronunciate dalla sua voce incrinata, per avere la conferma di ogni cosa.

"E' per lui che ti sei ridotta così?"

Vicky passa le dita sul bordo della tazza, mentre io mescolo il caffè con il cucchiaino – un gesto che è soltanto nervoso, perché non l'ho zuccherato. Quando parla di nuovo, i suoi occhi velati di lacrime trattenute stringono il nodo nella mia gola.

"Noi abbiamo una storia, o meglio, per me era una storia," si interrompe, abbassando appena la testa. "... fino a ieri."

Poso una mano sulla sua, accarezzandone lentamente il dorso con il pollice, e la lascio raccontare una storia di cui già posso immaginare molte cose. Oh, se posso. È uno svolgimento lievemente diverso, ma la fine è sempre la stessa, per tutte noi.

Scopro che tra Vicky e il professor Morgan è iniziato tutto come sesso occasionale, e nient'altro – Vicky sapeva perfettamente dell'esistenza di Moira Thomson, mi dice quando le accenno di averli visti a Glasgow e di non aver detto nulla. Racconta anche di lunghi momenti felici, di serate a teatro o davanti alla tivù, di conversazioni profonde e cene piene di baci. Dice di essersi innamorata, e io ripenso a Kevin, alla sua mano che mi tocca e all'anello al suo dito.

"... pensavo l'avesse lasciata... questo fino a una settimana fa," conclude, sfregandosi gli occhi, "Poi, sabato, dopo aver salutato Piper, ero a pezzi. Non avevo voglia di tornare a casa e mi è venuto spontaneo andare da lui... solo che la porta l'ha aperta lei."

Emetto un suono incomprensibile. Gli attori sono diversi, la storia è diversa, ma il finale è lo stesso.

"Già." – Vicky beve il suo ultimo sorso di caffè, nascondendo il viso nella tazza. - "Ho accampato una scusa, ma sapevo di aver combinato un casino. Ieri sono andata nel suo ufficio e volevo solo scusarmi, te lo giuro. Sapevo di aver sbagliato. Non mi aspettavo che mi lasciasse. Ma poi è stato, come dire, freddo... e cattivo." – appoggia di nuovo la tazza ormai vuota sul tavolo e fa una pausa, lunga, lunghissima, e io guardo i suoi occhi e mi chiedo quale ricordo stia riprendendo forma davanti a lei. – "Sì, è stato cattivo..."

Non dico nulla, non ancora. Mi sporgo sulla sedia, il cuore straziato dalla sua voce così piccola, e la abbraccio, rimanendo in silenzio mentre lei nasconde il naso nei miei capelli e piange con tutte le forze che le sono rimaste.

Nessuna di noi si muove, e io non so più se sono passati secondi, ore o minuti, mentre la mia mano accarezza lentamente la schiena di Vicky e i suoi singhiozzi si placano. Siamo immerse nel silenzio e nella luce tiepida del mattino del mio appartamento quando decido che ho un modo soltanto per farle capire che non è sola e che io la capisco, davvero.

"Ho avuto una storia con il professor McKidd – Kevin," mi costringo, guardando amaramente oltre le spalle della mia amica, verso il mio divano, sentendo quasi fisicamente l'asprezza del suo nome sulle mie labbra, "Per quasi tre anni."

Vicky si irrigidisce tra le mie braccia, e quando sciolgo la nostra stretta e mi rimetto dritta sulla mia sedia cerco i suoi occhi scuri, ancora rossi e pieni di lacrime. Sorrido, triste, e mi passo una mano tra i capelli. "Lui era sposato, e io l'ho scoperto quasi subito, ma avevo deciso che non importava. Stavano insieme per i figli, per l'apparenza... diceva sempre così, e io gli credevo, perché... beh, perché lui amava me, e perché sono una stupida. E ora è finita."

Sbatto le palpebre, sentendo le guance bagnate. Questa volta, è Vicky a stringermi la mano.

"Per James?" mi chiede, inclinando appena la testa.

Riderei, se non stessi già piangendo.

"No, no, James è arrivato dopo..." – faccio un lungo respiro. – È finita perché lui è ancora sposato, e prima di Natale l'ho visto mano nella mano con sua moglie e i suoi bellissimi bambini a fare compere. Padre perfetto, marito perfetto..." Libero la mano dalla sua carezza gentile e mi copro gli occhi, singhiozzando quietamente. "... e io ora mi diverto con un barista scozzese perché è chiaro che ho un tipo d'uomo ed è quello, ma non posso pensare di farmi tutta la Scozia sperando di dimenticarlo, anche perché non servirebbe," ammetto crudelmente.

Se potessi spogliare ogni situazione di tutti i sentimenti che porta con sé e potessi conservarne soltanto lo scheletro nudo, oh, che vita semplice avrei. Arida, ma semplice.

Mi asciugo le lacrime, invano. "Dannazione," dico, la voce ridotta a un sussurro. Alzo lo sguardo su Vicky, e quando parlo di nuovo, so esattamente quello che sta provando. "È stata la filologia. Lui ha parlato, e io non potevo-" mi interrompo, senza sapere come dirlo. Alla fine, però, realizzo di non averne bisogno. "Tu lo sai, vero?"

Vicky si sporge verso di me per abbracciarmi, lasciando che io affondi il viso nella sua spalla e singhiozzi tra i suoi capelli, proprio come io ho fatto per lei. Quando parla vicino al mio orecchio, la sua voce è poco più un sussurro.

"Ad amare le parole, invece delle persone che le dicono, si finisce a farsi male."

Lo sa, e nessun altro potrebbe capirmi così.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro